Dalla camera oscura alla fotografia
Michele Catania
Precursore
dell’attuale macchina fotografica fu la "Camera oscura". Il primo
accenno all'idea di camera oscura venne fatto da Aristotele il quale,
nei Problemata, dichiarò che i raggi del sole che passano per
un'apertura quadrata formano un'immagine circolare, la cui grandezza
aumenta con l'aumentare della distanza dal foro. In tempi relativamente
moderni, nel secolo XI, fu l'arabo Alhazen, ad approfondirne gli studi,
che vennero poi riportati dal monaco Vitellione nell'opera "Opticae
thesaurus Alhazeni arabis". Anche Leonardo da Vinci la studiò con
il dovuto rispetto. Successivamente, dotata di una lente, trovò il suo
utilizzo come strumento per la pittura, grazie alla quale si potevano
copiare fedelmente paesaggi proiettati su di un foglio o una tela
(l‘immagine risultava rovesciata).
Nicéphore Niepce (1765-1833)
Ad ottenere per primo il processo di fissazione dell'immagine fu Nicéphore Niepce, il quale scoprì che il bitume di giudea diveniva insolubile se esposto all'azione della luce. Con esso preparò delle lastre sensibili e nel 1826 con una camera oscura, e con pose lunghe, ottenne quei risultati che tre anni dopo, grazie anche all’incontro con Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1858) avrebbero portato alla prima "fotografia artistica".
Nicéphore Niepce, 1826. Nella camera oscura, al posto del vetro smerigliato, vi era una lastra di peltro sulla quale era stata stesa un’emulsione a base di bitume. Realizzata con 8 ore di esposizione dalla finestra del proprio studio a Saint-Loup-de-Varennes, questa straordinaria immagine di 20 × 25 centimetri, presenta un'illuminazione delle superfici da diverse parti, apparentemente contemporanea, dovuta al mutare della posizione del sole.
Quando decisero di unire le loro conoscenze, Daguerre aveva già fatto degli esperimenti che consistevano nell'uso di una lastra d'argento (o di rame) lucidata ed esposta ai vapori di iodio, che reagiva ai vapori di mercurio, fissando le immagini.
Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1858)
Il risultato finale, dalla nitidezza lievemente sfumata, venne chiamato dagherrotipo. Nel 1839 questo procedimento venne comunicato all'Accademia delle scienze di Parigi e divenne di pubblico dominio. Ogni fotografia, però, una volta invertita e fissata, era di fatto un originale e non era possibile realizzarne delle copie. Una tappa successiva a quella del dagherrotipo fu segnata da William Fox-Talbot (1800-1877) che nel 1833, ottenne impronte di foglie e ricami, senza valersi della camera oscura, unicamente per contatto diretto su della carta preparata al cloruro d'argento. Questo sistema venne chiamato "calotype".
Macchina fotografica di Talbot
L'astronomo J. Herschel sperimentò le proprietà fissatrici dell'iposolfito di sodio che permise di conservare nel tempo le immagini impressionate; Herschel, inoltre, introdusse i termini fotografia, negativo e positivo.
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