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A proposito di Nicola Grassi: tre brevi appunti

 

 

 

Nicola Grassi, L'infanzia di Giove. Udine, Museo Civico.

 


Singolare come l'opera di Nicola Grassi (1682-1748), nonostante la qualità assai alta e la sua incantevole freschezza coloristica, sia sempre rimasta un poco ai margini rispetto a quella di altri, più celebrati ma non necessariamente più validi, maestri. Molto stimato come ritrattista dai suoi contemporanei, "competitore della Rosalba", egli fu anche ottimo pittore di temi sacri, e tuttavia presente a Venezia solamente con commissioni di importanza relativa; ma anche in tempi recentissimi, nonostante le infaticabili appassionate indagini di Aldo Rizzi – sfociate nel convegno e nella fondamentale mostra del 1982, sintesi di tutti gli studi precedenti -, i giusti entusiasmi di un connoisseur quale Egidio 'Martini' e numerosi altri significativi contributi, fra i quali, molto attuali, quelli di Giuseppe Maria Pilo, il pittore di Formeaso non è evidentemente riuscito a scrollarsi di dosso la troppo angusta etichetta di provinciale: e così, con rammarico, abbiamo dovuto constatare la sua totale preterizione nelle grandi apoteosi della pittura lagunare del XVIII secolo, a Londra e Washington prima, a Venezia poi.
 

 

                 1. Nicola Grassi, Sant'Andrea. Tolmezzo, duomo.  2. Nicola Grassi, Crocifissione. Tolmezzo, duomo.

               

Nicola Grassi, La Vergine con il Bambino e tre santi, particolare. Sutrio, chiesa parrocchiale.

 

 


Di un possibile precedente iconografico
 


E’ unanimemente riconosciuto come Nicola Grassi, dopo il momento iniziale in cui guardò soprattutto a Nicolò Cassana suo maestro, fu attento alla pittura di Sebastiano Ricci. In particolare, l'influenza del maestro più anziano – che del Cassana era, tra l'altro, intimo amico e socio d’affari – è stata oggetto degli interventi di Jeffery Daniels e Bruno Bushart al congresso del 1982, e su di essa insiste Ugo Ruggeri nella sua recensione alla mostra di Tolmezzo. Il momento di più convinta adesione alla poetica del bellunese è quello della piena maturità, negli anni trenta inoltrati, con i quadri di Augusta, Monaco, Varsavia e Salisburgo direttamente desunti da prototipi ricceschi. Ma anche in un tempo più precoce non mancano citazioni: così il Mosè difende le figlie di Jetro, ora in collezione privata udinese, databile agli inizi del terzo decennio, riprende, specie nella figura del protagonista, la analoga, e purtroppo mutila composizione di Sebastiano al museo di Budapest, di poco anteriore.
Un altro precedente riccesco per uno dei quadri del Grassi mi sembra costituito dal disegno reso noto da Pierluigi Carofano con il titolo di Bacco allevato dalle ninfe di Nysa. Lo studioso, seguito da Annalisa Perissa Torrini, accostava l'interessante foglio ad alcuni altri di soggetto dionisiaco all'Accademia di Venezia, datando tutto il piccolo gruppo attorno al 1720; non senza rilevare, peraltro, significative differenze nel segno, più semplificato e sicuro nell'esemplare fiorentino. Nel concordare con il Carofano, che ravvisa in esso un vero e proprio modelletto destinato a essere tradotto in pittura, sono tuttavia propenso a svincolarlo dai disegni delle Gallerie veneziane e ad assegnargli una collocazione cronologica più arretrata: la vicinanza stilistica con fogli certamente anteriori, quali il Cavaliere disarcionato, sempre all'Accademia, messo in relazione con una tela realizzata per palazzo Fulcis a Belluno (1700-1704 ca), che presenta forti consonanze nel ductus e nella resa dei panneggi, mi pare consenta una datazione a un'epoca da esso non distante.

 

 

Sebastiano Ricci, L'infanzia di Romolo e Remo. San Pietroburgo, Ermitage.


Un ulteriore incentivo in questo senso è dato dal fatto che attorno agli anni 1706-1708 viene datato un quadro come l'Infanzia di Romolo e Remo di San Pietroburgo, che con il nostro disegno condivide genere di soggetto, struttura compositiva e formato pressoché quadrato. In conclusione, ritengo che tale foglio possa venire plausibilmente connesso a un gruppetto di opere rappresentanti l'infanzia di alcuni personaggi mitologici, in quanto dovette essere pensato come studio preparatorio per un dipinto, perduto o mai più eseguito, destinato a far serie con il già citato Romolo e Remo, o con il più vasto Castore e Polluce, apparso qualche tempo addietro sul mercato antiquario londinese. Infine, a definitiva conferma della sua non omogeneità con il nucleo veneziano, va osservato che il dio bambino in esso raffigurato non è Dioniso, ma Giove, affidato alle cure delle ninfe dell' isola di Creta per preservarlo dalla voracità del padre Saturno: accanto a lui sta la capra Amaltea, del cui latte il fanciullo si nutriva, mentre in alto l'aquila, compagna inseparabile della divinità, con il becco regge il fulmine a tre punte; al di fuori dell'antro, il ballo dei Coribanti.
Ritornando al rapporto con l'opera del Grassi, è possibile che il pittore tolmezzino rammentasse l'invenzione del Ricci mentre impostava il quadro, di identico soggetto, da pochi anni al museo di Udine. Nicola Grassi, in quell'occasione, non si limitò a ripetere l'idea del suo celebre collega (diede tra l'altro dignità di protagonista, con ogni probabilità per desiderio della committenza, alla dea Cibele e al suo carro), ma tributò un sincero omaggio alla sua suggestione nel dipingere le figure sullo sfondo, danzanti al ritmo delle percussioni. In virtù dell'evidenza plastica e luministica di tali personaggi, che convive con la morbidezza coloristica del gruppo centrale, ritengo che la tela udinese possa essere stata eseguita poco dopo la metà del terzo decennio, a ridosso della pala di Sutrio e delle tele della parrocchiale di Ampezzo.

 

 


Nicola Grassi falsario?

 

 

 

Nicola Grassi, Adorazione dei magi. Bordeaux,  Musée des Beaux-Arts.

 

Nicola Grassi, Cristo e l'adultera. Bordeaux, Muée des Beaux-Arts.


Un aspetto finora sconosciuto della produzione di Nicola Grassi è esemplificato da due straordinarie tele che si trovano nelle collezioni del Musée des Beaux-Arts di Bordeaux, catalogate come opere di un anonimo pittore veneziano del XVIII secolo, "à la manière de Veronèse" : un pendant di soggetto evangelico con l'Adorazione dei Magi e Cristo e l'adultera.
In esso, la maniera del pittore carnico si approssima vistosamente a quella del grande maestro cinquecentesco, senza tuttavia scadere a livello di copia pedissequa: ci troviamo piuttosto dinanzi a una personalissima reinterpretazione dello stile veronesiano, con licenza di includervi alcune maliziose citazioni di quelli che potevano apparire motivi-firma paoleschi.

 

Paolo Veronese, Cristo morto con angeli, frammento. Ottawa, National Gallery of Canada.

 

Paolo Veronese, Cena in Emmaus. Rotterdam, Bojmans van Beuningen Museum.

 

Il più evidente di essi è senza dubbio incastonato nel Cristo e l'adultera dove la bimba che abbraccia il suo cagnolino, sulla destra, è ripresa pari pari dalla Cena in Emmaus del Boijmans Van Beuningen Museum di Rotterdam. È, però, improbabile che Nicola avesse visto quel quadro di persona (il che avrebbe potuto costituire un indizio supplementare delle sue non occasionali frequentazioni con la cultura veronese, già postulate dal Ruggeri). Dal Ridolfi, che lo vide ed elogiò presso la dimora di Cristoforo e Francesco Muselli, apprendiamo che esso si trovava nella città scaligera già nel 1648; ma la maggior parte della collezione di famiglia, 122 dipinti, Cena compresa, venne ceduta dai figli di Cristoforo al mercante M. Alvarès, il quale a sua volta li rivendette in Francia: più verosimile, dunque, che il Grassi conoscesse tale opera tramite una delle copie o derivazioni incisorie che ne divulgarono la composizione. Non è superfluo, a questo proposito, ricordare che il medesimo motivo della "vezzosa fanciulla, che scherza con un cagnuolo" è presente, seppur speculare, anche nella Cena che si trova a Dresda, assegnata alla bottega di Paolo, replica con varianti di quella di Rotterdam.
Altri, meno smaccati riferimenti al Caliari sono ravvisabili nel fariseo che addita la peccatrice a Cristo e nello sgherro sotto di lui, una semplificazione della parte sinistra del Martirio di san Menna, ora al Prado; nel giovane con il levriero all'estrema sinistra del medesimo quadro, che pur con qualche variante fa capolino ai bordi di un discreto numero di composizioni veronesiane, dall' Epifania già in San Silvestro a Venezia, al Ricevimento di un'ambasceria persiana — degli Haeredes — a Palazzo Ducale; nel gruppo dei due soldati sul margine destro e in quello dei due paggi al centro della scena dell' Adorazione dei Magi, memori delle analoghe soluzioni paolesche rispettivamente nel Cristo con il centurione di Madrid e nelle Epifanie di Santa Corona a Vicenza e della Gemäldegalerie di Dresda. Più in generale, tipicamente veronesiani sono l 'impaginazione complessiva degli episodi e l'affollarsi in essi delle figure di contorno. Nicola Grassi, però, tradisce la sua mano dipingendo l' inconfondibile figura di vecchio che, appoggiandosi alla balaustra, segue con attenta curiosità la disputa tra i farisei e il Messia; e così pure atteggiando l 'adultera dallo sguardo chino nel suo tipico movimento curvilineo e lezioso, facendone quasi una sorella peccatrice della Maria nella Crocefissione della sagrestia del duomo di Tolmezzo. Peculiari del pittore carnico sono ancora l' improbabile torsione del braccio del soldato a destra nell'Adorazione, che rivediamo identica nel Sant' Andrea, pure del ciclo di Tolmezzo, e le tipologie di parecchi volti, da quello di Cristo, di una dolcezza lazzariniana, a quello dei personaggi comprimari.
Qualche considerazione merita ora la cronologia di queste opere. La disinvoltura dell'esecuzione e la sicurezza del tocco pittorico indirizzano, a mio giudizio, verso una datazione al tempo della maturità del pittore, probabilmente nella prima metà degli anni trenta. Una simile supposizione mi sembra confortata anche dalla vicinanza tipologica con i dipinti appartenenti a quel periodo: la già citata serie commissionata da Giacomo Linussio per il capoluogo carnico, le tele del Museo ebraico di Gerusalemme, la pala di Chiusaforte, datata 1735.
Il pendant in esame, inoltre, non rivela tanto la personalità acerba di un giovane pittore che svolge il proprio apprendistato copiando i grandi predecessori, ma quella ben più consapevole di chi ha già compiuto uno studio approfondito proficuo dell'arte cinquecentesca, in particolare bassanesca e veronesiana; brillantemente rievocata, quest'ultima, nella sua accezione più sommessa e intima, consona al pittore tolmezzino. In effetti, tutto nei due dipinti richiama l 'opera della tarda maturità del Caliari, dopo il 1570-1575, quando – non è un caso – il maestro divenne via via più sensibile all' influenza proprio di Jacopo Dal Ponte: all 'interno delle composizioni dispiegate frontalmente, di inequivocabile stampo paolesco, la solare luminosità e il nitore disegnativo propri del Veronese più classicistico si smorzano, la luce palpita maggiormente incerta e tremula – come se le scene si svolgessero a lume di torcia -, e la pennellata, quasi bozzettistica, tocca veloce la tela nell' intento di ricreare sia gli "sfregazzi" del Veronese che le "bote" del Bassano. Mi sembra sufficiente, a dimostrare quanto cospicuo fosse il debito del Grassi nei confronti dei lavori dell'estrema attività di Paolo, suggerire un richiamo al bellissimo Giacobbe e Rachele al pozzo, già nella collezione Corsini di New York, di cui ritroviamo le iridescenze della "luce quasi notturna" e il cielo cupo marezzato di nubi; oltre a ciò, il colore sontuoso e la raffinata cordialità nell' interpretazione della scena, rustica e preziosa al tempo stesso, appaiono vicinissimi, nello spirito, alle "galanterie pastorali" (la felice definizione è del pioniere degli studi grasseschi, Giuseppe Fiocco) di Sezza.
Le tele qui pubblicate si rivelano dunque non esercitazioni giovanili, ma gustose contraffazioni eseguite per mettere alla prova l'occhio del conoscitore settecentesco, e forse addirittura per ingannare qualche collezionista – d'oltralpe, è da credersi – inesperto. Se così fosse, dovremmo rassegnarci a mutare un poco l'immagine idilliaca che avevamo dell'artista carnico, cristallino e ingenuo, "one of lifÈs natural innocents", e prendere atto che la sua etica professionale poteva rivelarsi, all'occasione, non meno elastica di quella di molti suoi colleghi, primi fra tutti i suoi dichiarati maestri, complici in alcuni non limpidissimi traffici di dipinti pseudo-antichi.

 

Nicola Grassi, Cristo morto sostenuto da tre angeli. Londra, collezione Colnaghi.


La circostanza che Nicola Grassi producesse dipinti nella maniera di altri pittori (sappiamo che imitò anche lo stile del Cassana, aggiungendo due ulteriori figure a un suo ritratto), rende forse meno temeraria di quanto potrebbe sembrare a prima vista la proposta di attribuirgli il Cristo morto sostenuto da tre angeli, già nella collezione Bonn di Parigi e ora presso Colnaghi a Londra. La bellezza notevole e la qualità nobile della stesura pittorica han fatto sì che tale quadro fosse gratificato di attribuzioni, tanto lusinghiere quanto insoddisfacenti, a Giovanbattista Tiepolo, Sebastiano Ricci e, da ultimo, Gaspare Diziani.
Anche in questo caso siamo al cospetto di un'opera neocinquecentesca; e anche in questo caso la fonte ispiratrice è il tardo Veronese, in modo particolare il suo Cristo morto e angeli con gli strumenti della Passione, oggi a Ottawa, frammento centinato di una grande pala di cui è ignota l'originaria collocazione. Tuttavia, il precedente paolesco non è, come nei casi appena esaminati, oggetto di imitazione o citazione, ma appare, per così dire, trasfigurato attraverso una visione prettamente riccesca.
Dunque solo dopo una iniziale, comprensibile sensazione di straniamento si incominciano a scorgere alcuni stilemi grasseschi, particolarmente nell'angelo di destra. Nel suo volto innanzitutto, avvicinabile a quelli di molte figure — anche femminili — che popolano i dipinti del Grassi, ma simillimo al san Floriano nella pala con La Vergine, il Bambino e tre santi di Sutrio: un ovale la cui perfetta regolarità è appena turbata al lieve sporgere del mento appuntito, la bocca piccola, gli occhi caratteristici costruiti con una ombreggiatura leggera che va dilatandosi e sfumando verso le tempie. Anche la veste dagli orli
netti e quasi taglienti, il cui panneggio, come inamidato, assume una peculiare rigidità, mi sembra trovi più di un riscontro nell'opera del tolmezzino.

 

Nicola Grassi, Daniele scagiona Susanna, particolare. Udine, Banca Popolare Udinese.


Altri particolari che possono indirizzare verso Nicola Grassi sono il distendersi in qualche modo innaturale, a mano aperta, del braccio dell'angelo di sinistra, da confrontare con le analoghe positure nel Daniele scagiona Susanna della collezione della Banca Popolare Udinese e nella Vergine annunciata della Cassa di Risparmio, ancora a Udine; il brano paesistico, ancorché limitato, con il cielo azzurro intenso che si anima di tocchi rosa in prossimità del profilo dei monti, sulle cui pendici ritroviamo un borgo fortificato, e ancora l'uso della sfocatura, tecnica prediletta di sicura ascendenza pellegriniana. Alla luce delle tele di Bordeaux diventano poi compatibili con la pittura del friulano anche le nervose lumeggiature delle pieghe dei panni serici, rese con una pennellata rapida e filamentosa.
È comunque innegabile che la minuziosa pastosità di colore con cui è descritta la tornitura del corpo esanime del Cristo sia atipica nel Grassi.

 

Nicola Grassi, Pietà. Endenna, chiesa parrocchiale.

 

Però, ove si raffronti la tela londinese con quella a lei più simile per soggetto, cioè la Pietà di Endenna, si potrà notare che non si tratta di universi troppo distanti. In altri termini: se immaginassimo il Grassi dipingere un quadro come quello bergamasco, ma cercando di apparire il più possibile riccesco, è mia opinione che sarebbe lecito attendersi esiti molto affini a quelli dell'opera in questione. Se — come reputo verosimile — di Nicola Grassi si tratta, allora anche in questa circostanza dovremmo parlare di mimesis, di contraffazione, e non di copia (da un eventuale originale perduto), giacché le repliche che il pittore carnico trasse dal Ricci e anche dal Tiepolo sono tutte eseguite con una impronta stilistica inequivocabilmente personale.

 


    Et ultra...

 

 

Nicola Grassi, Giudizio di Salomone. Venezia, collezione privata.


Un'aggiunta rimarchevole, per impegno pittorico, al già cospicuo catalogo del Grassi, è costituita da un grande Giudizio di Salomone, attualmente in collezione privata veneziana. La composizione, satura di personaggi ma — come è consuetudine per il maestro di Formeaso — ben congegnata, si avvale di un'inquadratura da palcoscenico teatrale, con forti ombre in primissimo piano, uno spot luminoso che evidenzia la controversia tra le due puerpere innanzi al giudice, fulcro logico e visivo dell' intera vicenda, e, quinta prospettica non comune nel nostro pittore, una fuga di evanescenti arcate sullo sfondo. L'immediata impressione che un sipario si sia appena dischiuso su di una rappresentazione melodrammatica è, poi, vieppiù alimentata dall'espressione violentemente patetica della madre il cui bambino sta per venire straziato dal carnefice: mai, non nel caso delle infelici vittime del fato Ifigenia e Polissena, ma neppure nelle Vergini ai piedi della croce (con l'unica eccezione per la Pietà della collezione Buttò a Pordenone), il Grassi si era spinto a una raffigurazione tanto caricata degli affetti.
L'espediente di collocare le figure più vicine allo spettatore in accentuato controluce è il medesimo riscontrabile in altre opere quali il grande telero di Este, reso noto da Giuseppe Maria Pilo, e il già menzionato Daniele scagiona Susanna di Udine: la datazione matura, che conseguirebbe alle affinità con quei dipinti, e con il primo in particolare, non è sulle prime contraddetta dalla tavolozza usata, così tipica del friulano, fatta di tonalità brunacee e sfumate ravvivate dagli improvvisi bagliori dei bianchi e dei rossi puri, con l'abituale compiacimento nel gioco virtuosistico dei riverberi. Rappresentativo del momento in cui il Grassi definisce il suo raffinatissimo gusto cromatico, il Giudizio di Salomone andrà, tuttavia, più probabilmente situato non molto tempo dopo l'inizio del terzo decennio.
Accanto alle opere di maggior cimento, licenziate soprattutto per la terraferma, e all'attività ritrattistica, Nicola eseguì una quantità ingente di piccoli quadri di soggetto sacro destinati alla devozione di privati o di confraternite religiose. Nacquero così operine anticonvenzionali e toccanti come il San Carlo Borromeo o il San Giuseppe con il Bambino, entrambe in collezioni private, nonché alcuni santi e madonnina a mezza figura, tutti accomunati da una fattura briosa e da colori tenui che ricordano i pastelli.

 

Nicola Grassi, San Benedetto e santa Scolastica. Castel Gandolfo, Residenza pontificia.

 

A questo nutrito gruppo penso di poter aggiungere il bel quadretto con San Benedetto e santa Scolastica, depositato dalla Pinacoteca Vaticana presso la Residenza Pontificia di Castel Gandolfo con una non troppo sorprendente attribuzione a Paul Troger. Non è certo la prima volta che lo stile del Grassi viene confuso con quello dei suoi colleghi oltremontani, sui quali esercitò un'influenza piuttosto marcata, traendone a sua volta, come bene nota il Martini, alcuni degli spunti che rendono così caratterizzata la sua arte. Il dipinto romano, pur non essendo davvero opera di primaria importanza, è ulteriore documento di una maniera elegante e personale, nei suoi anni fecondi.

 

Nicola Grassi, Vergine in preghiera.


Va, infine, confermata a Nicola Grassi anche l'insegna processionale che si conserva nella sala dell'albergo della Scuola Grande dei Carmini a Venezia, che nella guida dell'edificio oscilla ancora tra il pittore tolmezzino e Francesco Guardi. La vivace immagine della Vergine, plasmata di puro colore, è, ancora una volta, un lavoro del periodo tardo, luminoso e garbato.
 


Con piacere rivolgo vivi ringraziamenti a Francesco Buranelli e al personale tutto dell'archivio fotografico dei Musei Vaticani, a  Leomberto Della Toffola, Guardian Grando dell'Arciconfraternita di Santa Maria del Carmelo, a Caterina Fusaro Santi, al prof. Giuseppe Maria Pilo, a  Francesco Zanlucchi e a Vincenzo Zanutto.

 



Andrea Piai

 

 

 

ARTE Documento   N°11©                                                Edizioni della Laguna

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.