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Trieste di ieri e di
oggi
Il Gruppo "Trieste di
ieri e di oggi", nasce con l'intento di far conoscere la storia
di Trieste e del suo Territorio. Sulla piattaforma Facebook sarà possibile trovare e condividere notizie, immagini e
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Trieste,Trstin
sloveno,Triestin
tedesco, è un comune italiano, capoluogo dell'omonima provincia e
della regione Friuli-Venezia Giulia, e più in particolare della
regione storico-geografica della Venezia Giulia.
Coordinate geografiche
45°38′10″N 13°48′15″E
Altitudine 2 m s.l.m.
Superficie 84,49 km²
Abitanti 205 519 al 31-05-2011
Densità 2 432,47 ab./km²
Comuni confinanti: Duino-Aurisina (Devin Nabrežina), Erpelle-Cosina
(SLO), Monrupino (Repentabor), Muggia, San Dorligo della Valle (Dolina),
Sesana (SLO), Sgonico (Zgonik)
Cod. postale 34121-34151 (aboliti 34012, 34014, 34017)
Prefisso 040
Targa TS
Nome abitanti: triestini
Patrono: san Giusto
Giorno festivo: 3 novembre
Lo stemma
duecentesco della Città di Trieste è costituito da uno Scudo
francese antico di color rosso con un'alabarda argento (la
cosiddetta alabarda (o lancia) di San Sergio) il tutto
sovrastato da una corona muraria da città.
Il nome Tergeste è
di origine preromana, con base preindoeuropea: terg = mercato,
ed il suffisso –este, tipico dei toponimi venetici. In
alternativa, si ritrova proposta l'origine latina del nome "tergestum"
(riportata dal geografo di età augustea Strabone), legata al
fatto che i legionari romani dovettero combattere tre battagle
per avere ragione delle popolazioni indigene ("Ter-gestum bellum",
dal latino "ter" = tre volte e "gerere bellum" = far guerra, cui
il participio passato da "gestum bellum").
Sin dal II millennio a.C. il territorio della provincia di
Trieste fu sede di importanti insediamenti protostorici, i
castellieri, villaggi arroccati sulle alture e protetti da
fortificazioni in pietra, i cui abitanti appartenevano a
popolazioni di probabile origine illirica e di stirpe
indoeuropea. Fra il X e il IX secolo a.C. la popolazione
autoctona entrò in contatto con un'altra etnia indoeuropea, i (Venetici,
Heneti o Eneti), da cui venne notevolmente influenzata sotto il
profilo culturale.
Con le conquiste militari dell'Illiria da parte dei Romani, i
cui episodi più salienti furono la guerra contro la pirateria
degli Istri del 221 a.C., la fondazione di Aquileia nel 181 a.C.
e la guerra istrica del 178-177 a.C., ebbe inizio un processo di
romanizzazione ed assimilazione delle popolazioni preesistenti.
Tergeste fu colonizzata alla metà del I secolo a.C. in epoca
cesariana (Regio X Venetia et Histria), ed è probabile che la
fortezza principale fosse situata sulle pendici del colle di San
Giusto. I Tergestini sono menzionati nelDe bello Gallicodi
Giulio Cesare, a proposito di una precedente invasione forse di
Giapidi: "Chiamò T. Labieno e mandò la legione quindicesima (che
aveva svernato con lui) nella Gallia Cisalpina, a tutela delle
colonie dei cittadini romani, per evitare che incorressero, per
incursioni di barbari, in qualche danno simile a quello che
nell'estate precedente era toccato ai Tergestini che,
inaspettatamente, avevano subito irruzioni e rapine. (CAES. Gall.
8.24). Tergestum fu citata poi da Strabone, geografo attivo in
età augustea, che la definì comephrourion(avamposto
militare) con funzioni di difesa e di snodo commerciale.
Tergeste si sviluppò e prosperò in epoca imperiale, imponendosi
come uno dei porti più importanti dell'alto Adriatico sulla via
Popilia-Annia. Il nucleo abitativo nel 33 a.C. venne cinto da
alte mura (ancora visibile la porta meridionale, il cosiddetto
Arco di Riccardo) da Ottaviano Augusto (murum turresque fecit) e
venne arricchito da importanti costruzioni quali il Foro ed il
Teatro.
Dopo la caduta
dell'Impero Romano d'Occidente, la città passò sotto il
controllo dell'impero bizantino fino al 788, quando venne
occupata dai franchi. Nel 1098 risultava già diocesi vescovile
con il nome latino di Tergestum. Nel XII secolo divenne un
Libero Comune e dopo secoli di battaglie contro la rivale
Venezia, Trieste si pose sotto la protezione (1382) del duca
d'Austria conservando però una notevole autonomia fino al XVII
secolo.
Nel 1719 divenne porto franco ed in quanto unico sbocco sul mare
Adriatico dell'Impero Austriaco, Trieste fu oggetto di
investimenti e si sviluppò diventando, nel 1867, capoluogo della
regione del Litorale Adriatico dell'impero (l'"Adriatisches
Küstenland"). Nonostante il suo stato privilegiato di unico
porto commerciale della Cisleithania e primo porto dell'Austria-Ungheria,
Trieste conservò sempre in primo piano, nei secoli, i legami
culturali con l'Italia; infatti, anche se la lingua ufficiale
della burocrazia era il tedesco, l'italiano era la lingua del
commercio e della cultura. Nel XVIII secolo il dialetto
triestino (dialetto di tipo veneto) sostituì il tergestino,
l'antico dialetto locale di tipo retoromanzo. Il triestino,
parlato anche da scrittori e filosofi, continua ad essere
tuttora l'idioma più usato in ambito familiare e in molti
contesti sociali di natura informale e talvolta anche formale,
affiancandosi, in una situazione di diglossia, all'italiano,
lingua amministrativa e principale veicolo di comunicazione nei
rapporti di carattere pubblico.
Trieste fu, con Trento, oggetto e al tempo stesso centro di
irredentismo, movimento che, negli ultimi decenni del XIX secolo
e agli inizi del XX aspirava ad un'annessione della città
all'Italia. Ad alimentare l'irredentismo triestino erano
soprattutto le classi borghesi in ascesa (ivi compresa la
facoltosa colonia ebraica), le cui potenzialità ed aspirazioni
politiche non trovavano pieno soddisfacimento all'interno
dell'Impero austro-ungarico. Quest'ultimo veniva visto da molti
come un naturale protettore del gruppo etnico slavo (verbali del
consiglio dei ministri imperiali asburgici del 1866, dopo la
perdita di Venezia, per ridurre dove possibile l'influenza
dell'elemento italiano, in favore di quello germanico o slavo
quando questi fossero presenti) che viveva sia in città che in
quelle zone multietniche che costituivano il suo immediato
retroterra (che iniziò ad essere definito in quegli anni con il
termine di Venezia Giulia).
L'imperatore Francesco Giuseppe ordinò infatti una politica di "germanizzazione"
e "slavizzazione" che andava contro gli Italiani che vivevano
nel suo impero. Il sovrano ordinò: "si operi nel Tirolo del Sud,
in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la
slavizzazione [Germanisierung oder Slawisierung] di detti
territori [...], con energia e senza scrupolo alcuno": così
recitava il verbale del Consiglio della Corona del 12 novembre
1866. Il termine "Litorale" era impiegato nell'amministrazione
asburgica per indicare la Venezia Giulia, quindi anche Trieste.
Fra le molte misure di germanizzazione e slavizzazione promosse
dal governo e dall'amministrazione asburgica vi furono delle
espulsioni di massa imposte dal governatore triestino, principe
Hohenlohe, che provocarono la fuoriuscita forzata di circa
35.000 italiani da Trieste fra il 1903 ed il 1913. Nel 1913,
dopo un altro decreto del principe Hohenlohe che prevedeva
espulsioni d'Italiani, i nazionalisti slavi suoi sostenitori
tennero un pubblico comizio contro l’Italia, per poi svolgere
una manifestazione al grido di “Viva Hohenlohe! Abbasso
l’Italia! Gli Italiani al mare!”, tentando poi di assalire lo
stesso Consolato italiano.
Si ebbero inoltre altre iniziative repressive o discriminatorie
nei confronti degli italiani, fra cui anche episodi di violenza
e vittime. A Trieste tra il 10 e il 12 luglio 1868, si ebbero
violenze sugli Italiani da parte di soldati asburgici arruolati
fra gli sloveni locali, che provocarono diversi morti e un gran
numero di feriti fra gli italiani. Una delle vittime, Rodolfo
Parisi, fu massacrato con 26 colpi di baionetta. L'impero cercò
inoltre di diffondere il più possibile scuole tedesche
(esistevano scuole medie tedesche anche a Trieste, come in molte
altre località limitrofe) od in alternativa slovene e croate,
tagliando i fondi alle scuole italiane od anche proibendone la
costruzione, proprio per cancellare la cultura italiana, così
come avveniva negli stessi anni in Dalmazia. Gli stessi libri di
testo furono sottoposti a rigide forme di censura, con esiti
paradossali, come l'imposizione di studiare la letteratura
italiana su testi tradotti dal tedesco o la proibizione di
studiare la stessa storia di Trieste, perché ritenuta "troppo
italiana". L'autonomia triestina venne ad essere drasticamente
ridotta dal "centralismo viennese" che "aveva attentato" sin dal
1861 "ai resti della vita autonomistica, specialmente a
Trieste". Infatti, era volontà del governo austriaco di
"indebolire i poteri e la forza politica ed economica del comune
di Trieste controllato dai nazionali-liberali Italiani,
ritenendolo giustamente il cuore del liberalismo nazionale in
Austria e delle tendenze irredentiste". Questo prevedeva anche
la recisione degli "stretti rapporti politici, culturali e
sociali fra i liberali triestini e l'Italia". Poiché all'interno
della comunità ebraica triestina erano diffuse idee irredentiste
e filotaliane, le autorità imperiali cercarono anche di
diffondere l'antisemitismo in funzione antirredentista ed
antitaliana.
In realtà agli inizi del Novecento il gruppo etnico sloveno era
in piena ascesa demografica, sociale ed economica, e, secondo il
discusso censimento del 1910, costituiva circa la quarta parte
dell'intera popolazione triestina. Ciò spiega come
l'irredentismo assunse spesso, nella città giuliana, dei
caratteri marcatamente anti-slavi che vennero perfettamente
incarnati dalla figura di Ruggero Timeus. La convivenza fra i
vari gruppi etnici che aveva da secoli contraddistinto la realtà
sociale di Trieste (e di Gorizia) subì, pertanto, un generale
deterioramento fin dagli anni che precedettero la prima guerra
mondiale.
Nel 1918 il Regio esercito entrò a Trieste acclamato dalla
maggioranza della popolazione, che era di sentimenti italiani.
La sicura imminente annessione della città e della Venezia
Giulia all'Italia, fu però accompagnata da un ulteriore
inasprimento dei rapporti tra il gruppo etnico italiano e quello
sloveno, traducendosi talvolta anche in scontri armati. A tale
proposito furono emblematici, il giorno 13 aprile 1920, i
disordini scoppiati a Trieste in seguito di un attentato contro
l'esercito italiano di stanza a Spalato, che aveva causato due
vittime fra i militari. Durante i disordini, contraddistinti da
un marcato carattere anti-slavo, un gruppo di squadristi
triestini presidiò l'Hotel Balkan, ove aveva sede il Narodni dom
(Casa Nazionale), centro culturale degli sloveni e delle altre
nazionalità slave locali, che fu dato alle fiamme. «Il rogo...mostra
con le fiamme, che ben si possono scorgere da diversi punti
della città, la forza del fascismo in attesa».
Con la firma del Trattato di Rapallo del novembre 1920, Trieste
passò definitivamente all'Italia, inglobando, nel proprio
territorio provinciale, zone dell'ex Contea di Gorizia e
Gradisca, dell'Istria e della Carniola.
Il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale fu segnato
da numerose difficoltà per Trieste. L'economia della città fu
colpita infatti dalla perdita del suo secolare entroterra
economico; ne soffrì soprattutto l'attività portuale e
commerciale, ma anche il settore finanziario. Trieste perse la
sua tradizionale autonomia comunale e cambiò anche la propria
configurazione linguistica e culturale; quasi la totalità della
comunità germanofona lasciò infatti la città dopo l'annessione
all'Italia; con l'avvento del fascismo l'uso pubblico delle
lingue slovena e tedesca fu proibito e vennero chiuse le scuole,
i circoli culturali e la stampa della comunità slovena.
Moltissimi sloveni così emigrarono nel vicino Regno di
Jugoslavia.Un fenomeno analogo si era avuto, poco prima, ma in
senso inverso, con la fuga dei dalmati italiani dalle loro
ataviche terre, dinnanzi alle persecuzione attuate dai
serbocroati, una volta che la Dalmazia era stata annessa al
regno di Jugoslavia. Dalla fine degli anni venti, cominciò
l'attività sovversiva dell'organizzazione antifascista e
irredentista sloveno-croata TIGR, con alcuni attentati
dinamitardi anche nel centro cittadino.
Nonostante i problemi economici e il teso clima politico, la
popolazione della città crebbe negli anni venti del Novecento,
grazie soprattutto all'immigrazione da altre zone dell'Italia.
La prima metà degli anni trenta furono invece anni di ristagno
demografico, con una leggera flessione della popolazione
dell'ordine di circa l'1% su base quinquennale (nel 1936 si
contarono infatti quasi duemila abitanti in meno che nel 1931).
Nello stesso periodo, e successivamente, fino allo scoppio della
seconda guerra mondiale, furono portate avanti alcune importanti
opere urbanistiche; tra gli edifici più rilevanti vanno
ricordati il palazzo dell'Università e il Faro della vittoria.
Con l'introduzione delle leggi razziali fasciste del 1938, la
vita culturale ed economica della città subì un ulteriore
degrado dovuto all'esclusione della comunità ebraica dalla vita
pubblica.
Nel periodo che va dall'armistizio (8 settembre 1943)
all'immediato dopoguerra, Trieste fu al centro di una serie di
vicende che hanno segnato profondamente la storia del capoluogo
giuliano e della regione circostante e suscitano tuttora accesi
dibattiti. Nel settembre del 1943 la Germania nazista occupò
senza alcuna resistenza la città che venne a costituire, insieme
a tutta la Venezia Giulia una zona di operazioni di guerra, l'OZAK
(Operationszone Adriatisches Küstenland), alle dirette
dipendenze del Gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer. Egli
tollerò in città la ricostituzione di una sede del PFR, diretta
dal federale Bruno Sambo, la presenza di un'esigua forza di
militari italiani al comando del generale della GNR Giovanni
Esposito e l'insediamento di un reparto della Guardia di
Finanza. Si riservò però la nomina del podestà, nella persona di
Cesare Pagnini, e del prefetto della provincia di Trieste, Bruno
Coceani, entrambi ben accetti ai fascisti locali, alle autorità
della RSI e allo stesso Mussolini, che conosceva personalmente
Coceani. Durante l'occupazione nazista la Risiera di San Sabba -
oggi Monumento Nazionale e museo - venne destinata a campo di
prigionia e di smistamento per i deportati in Germania e Polonia
e per detenuti politici, partigiani italiani e slavi. La
presenza del forno crematorio nella Risiera testimonia che non
fu utilizzata solo come luogo di smistamento e di detenzione di
prigionieri, ma anche come campo di sterminio. Si tratta
dell'unico campo di concentramento nazista presente in
territorio italiano. In seguito, nei primi anni cinquanta la
Risiera fu usata come campo profughi per gli esuli istriani,
fiumani e dalmati in fuga dai territori passati alla sovranità
jugoslava.
L'insurrezione dei partigiani italiani e jugoslavi a Trieste fu
contraddistinta da uno svolgimento anomalo. Il 30 aprile 1945 il
Comitato di Liberazione Nazionale del quale era presidente don
Edoardo Marzari, composto da tutte le forze politiche
antifasciste con l'eccezione dei comunisti, proclamò
l'insurrezione generale; al tempo stesso le brigate dei
partigiani jugoslavi con l'appoggio del PCI attaccarono
dall'altipiano. Gli scontri si registrarono principalmente nelle
zone di Opicina (sull'altipiano carsico), del Porto Vecchio, del
castello di San Giusto e dentro il Palazzo di Giustizia, in
città. Tutto il resto della città fu liberato. Il comando
tedesco si arrese solo il 2 maggio alle avanguardie
neozelandesi, che precedettero di un giorno l'arrivo del
generale Freyberg. Le brigate partigiane jugoslave di Tito erano
già giunte a Trieste il 1º maggio e i suoi dirigenti convocarono
in breve tempo un'assemblea cittadina composta da cittadini
jugoslavi e da due italiani. Questa assemblea proclamò la
liberazione di Trieste, così presentando i partigiani di Tito
come i veri liberatori della città agli occhi degli alleati
spingendo i partigiani non comunisti del CLN a rientrare nella
clandestinità.
Gli jugoslavi esposero sui palazzi la bandiera jugoslava, il
Tricolore italiano con la stella rossa al centro e le bandiere
rosse con la falce e martello. Le brigate jugoslave, giunte a
Trieste a marce forzate per precedere gli anglo-americani nella
liberazione della Venezia Giulia, non contenevano nessuna unità
partigiana italiana inserita nell'Esercito jugoslavo, mandate
invece a operare altrove, benché molti triestini (italiani e
sloveni) vi fossero compresi. Gli alleati (nello specifico la
Seconda divisione neozelandese, che fu la prima ad arrivare in
città), riconobbero che la liberazione era stata compiuta dai
partigiani di Tito e in cambio chiesero e ottennero la gestione
diretta del porto e delle vie di comunicazione con l'Austria
(infatti, non essendo ancora a conoscenza del suicidio di Hitler,
gli angloamericani stavano preparando il passo ad un'invasione
dell'Austria e quindi della Germania). L'esercito jugoslavo
assunse i pieni poteri. Nominò un Commissario Politico, Franc
Štoka, membro del partito comunista. Il 4 maggio vennero emanati
dall'autorità jugoslava a Trieste, il Comando Città di Trieste (Komanda
Mesta Trst) gli ordini 1, 2, 3 e 4 che proclamano lo stato di
guerra, impongono il coprifuoco (a combattimenti terminati) e
uniformano il fuso orario triestino a quello jugoslavo.
Limitarono la circolazione dei veicoli e prelevarono dalle
proprie case numerosi cittadini, sospettati di nutrire scarse
simpatie nei confronti della ideologia che guidava le brigate
jugoslave. Fra questi non vi furono solo fascisti o
collaborazionisti, ma anche combattenti della Guerra di
Liberazione. Un memorandum statunitense dell'8 maggio recitava:
« A Trieste gli Jugoslavi stanno usando tutte le familiari
tattiche di terrore. Ogni italiano di una qualche importanza
viene arrestato. Gli Jugoslavi hanno assunto un controllo
completo e stanno attuando la coscrizione degli italiani per il
lavoro forzato, rilevando le banche e altre proprietà di valore
e requisendo cereali e altre vettovaglie in grande quantità. »
L'otto maggio proclamarono Trieste città autonoma in seno alla
Repubblica Federativa di Jugoslavia. Sugli edifici pubblici
fecero sventolare la bandiera Jugoslava affiancata dal Tricolore
italiano con la stella rossa al centro. La città visse momenti
difficili, di gran timore, con le persone dibattute tra idee
profondamente diverse: l'annessione alla Jugoslavia o il ritorno
all'Italia. In questo clima si verificarono confische,
requisizioni e arresti sommari. Vi furono anche casi di vendette
personali, in una popolazione esasperata dagli eventi bellici e
dalle contrapposizioni del periodo fascista. Invano i triestini
sollecitarono l'intervento degli Alleati. Il comando alleato e
quello jugoslavo raggiunsero infine un accordo provvisorio
sull'occupazione di Trieste. Il 9 giugno 1945 a Belgrado, Josip
Broz Tito, verificato che Stalin non era disposto a sostenerlo,
concluse l'accordo con il generale Alexander che portò le truppe
jugoslave a ritirarsi dietro la linea Morgan. Gli alleati
assunsero allora il controllo della Città e del suo hinterland.
Le rivendicazioni jugoslave e italiane nonché l'importanza del
porto di Trieste per gli Alleati furono la spinta nel 1947,
sotto l'egida dell'ONU, alla istituzione del "Territorio libero
di Trieste" (TLT). Per l'impossibilità di nominare un
Governatore scelto in accordo tra angloamericani e sovietici, il
TLT rimase diviso in due zone d'occupazione militare: la Zona A
amministrata dagli Angloamericani e la Zona B amministrata dagli
jugoslavi.
Tale situazione si protrasse fino al 1954 quando il problema
venne risolto confermando la spartizione del territorio libero
di Trieste secondo le due zone già assegnate: anzi, furono
incorporati alla Jugoslavia alcuni villaggi della zona A (Albaro
Vescovà, San Servolo, Crevatini, Elleri, Plavie, Ancarano e
Valle Oltra) appartenenti al comune di Muggia, che vide in tal
modo dimezzato il proprio territorio. La frontiera fra la zona
assegnata all'amministrazione italiana e quella occupata dalla
Jugoslavia venne così a passare sui rilievi che sovrastavano la
periferia meridionale della cittadina istriana.
Tale situazione provvisoria fu resa definitiva nel 1975, col
Trattato di Osimo stipulato tra l'Italia e la Jugoslavia, nel
quale si dichiarava il definitivo ritorno della città
all'Italia. Nel 1962 Trieste divenne capoluogo della Regione
Autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Nel 2004, assieme ad altri Paesi, la Slovenia entra a far parte
dell'Unione Europea e solo 3 anni più tardi la vicina Repubblica
aderisce ai trattati di Schengen, facendo perdere quindi a
Trieste la sua decennale posizione di città di confine.
Geografia La città è situata nell'estremo nord-est italiano, vicino al
confine con la Slovenia, nella parte più settentrionale
dell'Alto Adriatico e si affaccia sull'omonimo golfo. Il
territorio cittadino è occupato prevalentemente da un pendio
collinare che diventa montagna anche nelle zone limitrofe
all'abitato; si trova ai piedi di un'imponente scarpata che
dall'altopiano del Carso scende bruscamente verso il mare. Il
monte Carso, a ridosso della città, raggiunge la quota di 458
metri sul livello del mare. Il comune di Trieste è diviso in
varie zone climatiche a seconda della distanza dal mare o
dell'altitudine. Al di sotto delle arterie stradali cittadine
scorrono corsi d'acqua che provengono dall'altopiano. Liberi un
tempo di scorrere all'aperto, da quando la città si è
sviluppata, a partire dalla seconda metà del 1700, vennero
incanalati in apposite condutture ed ancora oggi percorrono i
sotterranei delle odierne via Carducci (precedentemente via del
Torrente, appunto), via Battisti (ex Corsia Stadion), viale
venti Settembre (ex viale dell'Acquedotto), via delle Sette
fontane o piazza tra i Rivi. A sud della città scorre il Rio
Ospo che segna il confine geografico con l'Istria. Inoltre
l'attuale zona cittadina compresa tra la stazione ferroviaria,
il mare, "via Carducci" e Piazza della Borsa, il Borgo Teresiano,
venne edificata nel XVIII secolo dopo l'interramento delle
precedenti saline per ordine dell'Imperatrice Maria Teresa
d'Austria.
Palazzi: Palazzo delle Poste (1890-1894)
Palazzo Leo (1745)
Palazzo del Municipio (1875)
Ospedale militare (1863)
Palazzo Modello (1870)
Palazzo Carciotti (1798)
Palazzo Marenzi (1650)
Palazzo Vivante
Palazzo del Tergesteo (1840-1842)
Palazzo del Lloyd (1880-1883)
Palazzo del Governo (1904)
Stazione Marittima (1930)
Arsenale del Lloyd (1853)
Palazzo Aedes
Palazzo Gopcevich
Palazzo Bartoli
Castelli:
Castello di Miramare (1856-1860)
Castello di San Giusto (dal 1368 al 1630)
Siti archeologici:
Basilica Forense (II secolo d.C.)
Castelliere - Cattinara
Acquedotto romano - Val Rosandra
Foro romano - San Giusto
Resti templi romani ad Atena e a Giove - San Giusto
Teatro romano (I secolo a.C.)
Torre difensiva mura romane (adiacenze scalinata S. M. Maggiore)
Resti abitazioni romane (comprensorio Cittavecchia)
Arco di Riccardo (33 a.C.)
Antiquarium di via Donota
Antiquarium di Borgo San Sergio
Basilica Paleocristiana
Tor Cucherna
Rioni Storici:
Banne
Barcola
Barriera Nuova
Barriera Vecchia
Basovizza
Borgo Franceschino
Borgo Giuseppino
Borgo San Sergio
Borgo Teresiano
Cattinara
Chiadino
Chiarbola
Città vecchia
Città nuova
Cologna
Contovello
Duino Aurisina
Guardiella
Gretta
Gropada
Longera
Muggia
Padriciano
Prosecco
Roiano
Rozzol
San Giacomo
San Giovanni
San Vito
Santa Croce
Santa Maria Maddalena
Scorcola
Servola
Trebiciano
Valmaura
Villa Opicina
Zaule
Nuove Circoscrizioni:
Altipiano Ovest
Altipiano Est
Roiano – Gretta – Barcola – Cologna - Scorcola
Città Nuova - Barriera Nuova - San Vito - Città Vecchia
Barriera Vecchia - S. Giacomo
S. Giovanni – Chiadino - Rozzol
Servola – Chiarbola – Valmaura - Borgo S. Sergio
Luoghi di culto: Cattedrale di San Giusto (1304)
Chiesa serbo-ortodossa della Santissima Trinità e di San
Spiridione (1869)
Chiesa Beata Vergine del Soccorso (1200)
Chiesa Beata Vergine del Rosario (1631)
Chiesa di San Nicolò dei Greci (1787)
Tempio ebraico - Sinagoga (1912)
Chiesa di Santa Maria Maggiore (1682)
Chiesa di Sant'Antonio Taumaturgo (1842)
Chiesa di Sant'Apollinare (1857), con gli affreschi di Pompeo
Randi
Chiesa evangelica luterana di Confessione Augustana 1870
Basilica di San Silvestro, luogo di culto delle comunità
elvetica e valdese (XI secolo)
Chiesa evangelica Metodista
Chiesa anglicana di Cristo (1829)
Altri luoghi d'interesse: Piazza Unità d'Italia
Piazza della Borsa
Canal Grande
Lanterna (1833)
Faro della Vittoria (1927)
Caffè San Marco, locale storico ritrovo di molti celebri
intellettuali europei.
Gallerie antiaeree Kleine Berlin
Trenovia di Opicina (Tram de Opcina) storica tranvia inaugurata
nel 1902.
Parco della Rimembranza sul colle di San Giusto
Cimitero austro-ungarico
Borgo Teresiano
Monumenti e giardini: Alice (vedetta)
Asburgo Ferdinando Massimiliano d'
(monumento)
Barcola (giardino di)
Caduti (monumento ai)
Capitano (giardino del)
Continenti (fontana dei)
Dedizione di Trieste all'Austria (monumento)
Fabio Severo (monumento equestre)
Garibaldi (monumento a)
Giardino del Capitano
Giardino Pubblico
Giovanin de Ponterosso (fontana del)
Leopoldo I (statua)
Miramar (parco di)
Nettuno (fontana al)
Opicina (obelisco di)
Opicina (vedetta di)
Ortensia (vedetta)
Pezze (fontana delle)
Rossi (monumento)
San Floriano (statua di)
San Giovanni Nepomuceno (statua di)
San Niceforo (fontana)
San Sergio (statua di)
Tartini Giuseppe (monumento a)
Tommasini Muzio de (giardino pubblico)
Traiana (colonna)
Tritoni (fontana dei)
Verdi Giuseppe (monumento a)
Winckelmann Giovanni Gioacchino (cenotafio a)
Zinzendorf (stele di)
Zonta (fontana della)
Evoluzione demografica Fra la metà del XVIII e gli inizi del XX secolo Trieste
conobbe un'epoca caratterizzata da un notevole sviluppo
economico accompagnato da una crescita demografica molto
sostenuta, che permise alla città di passare da alcune migliaia
di residenti del periodo 1730-1740 ai quasi 230.000 del 1910.
Con la fine della prima guerra mondiale e il congiungimento di
Trieste all'Italia, il capoluogo giuliano assisté a un
progressivo ristagno della propria popolazione a causa delle
mutate condizioni geopolitiche in cui si era venuto a trovare
alla fine della Grande guerra. Da principale emporio marittimo
dell'Impero austro-ungarico e fra i massimi del Mediterraneo, la
città e il suo porto iniziarono a declinare, passando ad
occupare una posizione sempre più periferica nell'allora Regno
d'Italia.
All'indomani della seconda guerra mondiale in città si verificò
un altro mutamento delle dinamiche demografiche che l'avevano
caratterizzata fino ad allora: l'esodo di molti italiani dalle
terre dell'Istria ebbe infatti come meta Trieste, che conobbe
ancora una volta un'impennata della popolazione residente, oltre
a profonde trasformazioni della propria composizione etnica e
del tessuto sociale urbano. In quegli stessi anni, e in
particolare a partire dal 1954, con la fine del TLT, oltre
20.000 triestini, spinti da motivazioni di natura economica e
sociale, ma anche di indole politica, scelsero l'emigrazione,
dirigendosi principalmente in Australia, Canada e Sudamerica.
Durante gli anni cinquanta e sessanta gli abitanti si mantennero
costantemente al di sopra delle 270.000 unità raggiungendo un
massimo di 283.000 nel 1968.
Da quel momento la città ha assistito a una progressiva
diminuzione della propria popolazione. Le condizioni
geo-politiche nuovamente mutate, la mancanza di un entroterra
ampio che le desse respiro e la chiusura di molte attività
economiche (come i cantieri navali San Marco e le birrerie
Dreher) hanno costretto ampi strati di popolazione a trasferirsi
altrove alla ricerca di lavoro. Ne è conseguito un decremento
della natalità e un progressivo invecchiamento della popolazione
residente con cali demografici che per lungo tempo hanno
raggiunto e superato le 2000 unità all'anno.
Nell'ultimo decennio il decremento demografico è stato meno
marcato che in precedenza, stabilizzando la popolazione
triestina intorno ai 210.000 abitanti. Tale fenomeno è dovuto ad
una ripresa della natalità e ad un nuovo e lento processo di
immigrazione in massima parte proveniente dall'Europa orientale.
La particolarità del territorio provinciale, che conta circa
240.000 abitanti ed è il più piccolo d'Italia, è nei fatti una
sorta di conurbazione e un discreto movimento di popolazione è
avvenuto negli ultimi anni dal Comune capoluogo verso i Comuni
limitrofi.
Nonostante la ripresa demografica cui abbiamo fatto cenno, la
città assieme a Genova, Bologna e Venezia, continua ad essere in
testa alle classifiche italiane per anzianità della popolazione.
Trieste è un
crocevia di culture e religioni, conseguenza sia della sua
posizione geografica di "frontiera" sia delle vicissitudini
storiche che ne hanno fatto un punto di incontro di molti
popoli; infatti quasi ogni etnia e ogni movimento religioso ha
un proprio luogo di culto. Nella città di Trieste attualmente
sono presenti accanto alla popolazione italiana, numerosi gruppi
etnici minoritari storici tra cui sloveni, croati, serbi, greci
e tedeschi e gruppi di recente insediamento tra i quali arabi,
rumeni, albanesi, cinesi, africani e sudamericani.
Nel vasto territorio comunale di Trieste, il cui contado si
spinge fino al confine con la Slovenia, si incontrano altresì
località dell'altopiano carsico con consistenti comunità di
lingua e cultura slovena. Il gruppo linguistico sloveno viene
tutelato da apposite normative e contributi della Repubblica
Italiana permettendogli di disporre di una propria rete
scolastica, di proprie organizzazioni culturali e sportive e di
propri movimenti politici. La comunità slovena era stimata, nel
1971, in circa il 5,7% della popolazione del comune.
Fino alla prima guerra mondiale la comunità di lingua tedesca
superava il 5% della popolazione del comune, poi si ridusse
drasticamente. La comunità slovena, presente nella città fin dal
Medioevo, raggiungeva il 25% della popolazione del comune
(secondo il discusso censimento austriaco del 1910). Durante il
ventennio fascista molti sloveni abbandonarono la città a causa
di una legislazione linguistica particolarmente iniqua nei loro
confronti e di una politica di italianizzazione forzosa.
Prima della seconda guerra mondiale e della conseguente
occupazione nazista, inoltre, esisteva anche una florida
comunità ebraica (nel 1931 i residenti di religione ebraica
erano 4.671, di cui 3.234 aventi la cittadinanza italiana).
Questa si è progressivamente ridotta e attualmente conta circa
700 membri.
Al 31 dicembre 2010
la popolazione di nazionalità estera residente a Trieste era
costituita da 18.257 persone (8.9 per cento delle popolazione)
Trieste era sede,
fin dal 1877, di una reputata Scuola Superiore di Commercio. Nel
1924 la città si dotò di un'Università, che nei decenni
successivi acquistò un notevole prestigio e che ospita da tempo
numerose organizzazioni scientifiche internazionali e il
principale parco scientifico italiano. Trieste infatti è nota
come Città della scienza e accoglie una comunità scientifica ed
universitaria molto conosciuta e rinomata all'estero che
richiama ogni anno migliaia di studenti da tutto il mondo e di
tutte le culture. Da notare in campo scientifico sono il
sincrotrone ELETTRA all'Area Science Park, la Scuola
Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) ed il Centro
Internazionale di Fisica Teorica.
Musei Trieste accoglie 32 musei fra i quali troviamo il "Museo
Revoltella - Galleria d'arte moderna", i "Civici musei di storia
ed arte", una rete ("museo multiplo") di undici istituzioni
museali triestine (Museo di storia ed arte e orto lapidario",
Museo del Castello e Armeria", Lapidario tergestino, Museo
d'arte orientale, Museo teatrale "Carlo Schmidl", Museo di
guerra per la pace "Diego de Henriquez" Museo della Risiera di
San Sabba, Museo di storia patria, Museo Morpurgo de Nilma,
Museo Sartorio, Museo del Risorgimento e Sacrario Oberdan e
Museo postale e telegrafico della Mitteleuropa (in
collaborazione con le Poste italiane) e i "Civici musei
scientifici", costituiti da quattro istituzioni (Museo civico di
storia naturale, Acquario marino, Museo del mare e Orto
botanico). Altri tre musei fanno parte del "Servizio
bibliotecario urbano" (Museo Sveviano, Museo petrarchesco
piccolomineo e Museo Joyce Museum), a cui si aggiungono due
biblioteche (Biblioteca civica "Attilio Hortis"" e Biblioteca
comunale del popolo "Pier Antonio Quarantotti Gambini",
l'Archivio diplomatico e l'Archivio storico).
Lo Stadio Nereo Rocco, inaugurato nel 1992, ospita infine una
serie di opere d'arte contemporanea, vincitrici di un apposito
concorso (Nike, di Paolo Borghi primo classificato, ed opere di
Nino Perizi, Marino Cassetti e Franco Chersicola, Livio Schiozzi,
Claudio Sivini, Carlo Ciussi, Luciano Del Zotto, Gianni Borta,
Enzo Mari e Francesco Scarpabolla. Per il "Polo natatorio"
Davide Rivalta ha scolpito l'Ippopotamo in equilibrio sulla
sfera.
Musei artistici
Museo Revoltella - Galleria d'Arte Moderna, fondato nel 1872 con
lascito testamentario di Pasquale Revoltella (1795-1869) e
ospitato inizialmente nel Palazzo Revoltella (1852-1858,
architetto Friedrich Hitzig), fu ampliato nel 1907 con
l'acquisto dell'attiguo palazzo Brunner (ristrutturato nel 1968
su progetto di Carlo Scarpa, con interventi fino al 1991).
Conserva una pinacoteca con ampia raccolta di opere delle
principali correnti pittoriche ottocentesche, in seguito
ingrandita con opere novecentesche, nella sede di palazzo
Brunner, mentre il palazzo Revoltella è stato allestito con gli
arredi originali e la collezione raccolta dal donatore.
Civico Museo di storia ed arte e orto lapidario, nato nel 1843
come orto lapidario attorno al cenotafio di Johann Joachim
Winckelmann, mentre il Museo di antichità presso la Biblioteca
civica, conservava i materiali di minori dimensioni. Le due sedi
furono riunificate nel 1925 sul colle di San Giusto. Raccoglie
oggetti archeologici prevalentemente di origine locale.
Civico Museo d'arte orientale, inaugurato nel 2001 nel
settecentesco "Palazzetto Leo", donato alla città dalla
famiglia. Raccoglie materiali riguardanti oggetti provenienti
dall'Estremo Oriente.
Civico Museo Teatrale Carlo Schmidl, inaugurato nel 1924
dall'editore musicale Carlo Schmidl (1859-1943), fu inizialmente
ospitato nello storico "Teatro Verdi". Nel 1991 fu spostato a
Palazzo Morpurgo e quindi nella sede di Palazzo Gopcevic (1850,
architetto Giovanni Andrea Berlam). Documenta la vita teatrale e
musicale della città a partire dal XVIII secolo.
Musei storici Civico Museo del Castello e Armeria, dedicato alla storia
del Castello di San Giusto e ospitato nei locali dello stesso
castello, acquisito dal comune nel 1932 e restaurato nel 1936
l'armeria raccoglie armi tra il XII e il XIX secolo.
Civico Museo di storia patria, nato come sezione del Museo di
storia ed arte, fu ospitato dal 1925 nella palazzina Basevi.
Doveva raccogliere i materiali della vita pubblica e privata
della città, ma se ne distaccarono nel 1934 i materiali
risorgimentali e nel dopoguerra, in seguito ai danni subiti
dalla palazzina e lo spostamento alla sede attuale, la
collezione di dipinti fu distaccata presso il Museo Sartorio.
Civico Museo del Risorgimento e Sacrario Oberdan, raccoglie
cimeli rinascimentali cittadini, precedentemente parte della
raccolta del Museo di storia patria, ospitati in un edificio
costruito nel 1934 dall'architetto Umberto Nordio sul luogo
della scomparsa caserma nella quale era stato giustiziato
Guglielmo Oberdan.
Civico Museo della Risiera di San Sabba, conserva, in alcune
sale del monumento, ristrutturato nel 1965 (architetto Romano
Boico), una raccolta di cimeli provenienti dai campi di
sterminio tedeschi e oggetti sottratti dai nazisti agli ebrei
triestini.
Civico Museo di guerra per la pace "Diego de Henriquez",
istituito nel 1997, raccoglie cimeli di storia militare riuniti
dal collezionista Diego de Henriquez.
Lapidario Tergestino, ospitato in uno dei bastioni del Castello,
custodisce reperti provenienti dagli edifici della Trieste
romana e precedentemente custoditi nell'Orto lapidario.
Museo Postale e Telegrafico della Mitteleuropa, nato dalla
collaborazione del Comune con le Poste italiane e ospitato nel
palazzo delle Poste del 1894, raccoglie cimeli postali della
regione e delle zone limitrofe.
Museo Etnografico di Servola, sorto nel 1975, per iniziativa di
don Dušan Jakomin, con lo scopo di raccogliere, conservare,
esporre e mettere a disposizione di studiosi e di quanti siano
interessati, documenti e oggetti legati alla storia, alla
cultura e al costume del rione di Servola.
Musei scientifici Civico Museo di storia naturale, inaugurato nel 1846 da
un'associazione privata (la "Società di amici della scienza
naturale") come "Gabinetto zoologico-zootomico", venne donato
alla città nel 1852 e si trasferì nella sede attuale con il nome
di "Civico museo Ferdinando Massimiliano". Comprende una sezione
botanica, una sezione zoologica, una sezione paleontologica e
una mineralogica e svolge attività didattica e di ricerca.
Civico Acquario Marino, inaugurato nel 1933 ed ospitato nell'ex
"Peschiera Centrale", edificata nel 1913 in stile liberty
dall'architetto Giorgio Polli. Ospita esemplari della fauna
marina adriatica in un sistema di vasche con acqua prelevata
direttamente dal mare.
Civico Museo del mare, inaugurato nel 1904 come "Museo della
pesca" dalla "Società di pesca e piscicultura marina". A questo
si aggiunsero materiali provenienti dall'Istituto nautico
"Tomaso di Savoia Duca di Genova" di Trieste, con la
trasformazione in "Esposizione marina permanente", affidato alla
"Società adriatica di scienze naturali". Nel 1968 divenne il
museo attuale con la nuova sede allestita dall'architetto
Umberto Nordio. Ospita i materiali sulla storia della marineria
triestina.
Orto Botanico, fondato nel 1842 dal "Gremio farmaceutico", a cui
seguì nel 1861 un giardino per le specie spontanee dell'ambiente
carsico. Nel 1903 ricevette il nome attuale.
Musei letterari Museo Joyce Museum, nato nel 2004 dalla collaborazione tra
Comune e Università, come centro di documentazione e studio di
James Joyce in Italia.
Museo sveviano, ospitato a palazzo Biserini presso la Biblioteca
civica, centro di documentazione e di studio su Italo Svevo
(pseudonimo dell'industriale triestino Ettore Schmitz).
Museo petrarchesco piccolomineo, aperto nel 2003 per
l'esposizione delle opere di Francesco Petrarca ed Enea Silvio
Piccolomini conservate nella Biblioteca Hortis.
Dimore storiche Civico museo Sartorio, ospitato in una villa settecentesca,
ristrutturata nell'Ottocento e appartenente alla famiglia
Sartorio. Conserva alcuni ambienti con arredi originali e
diverse collezioni donate alla città, il Trittico di Santa
Chiara, opera di Paolo e Marco Veneziano del 1328 e disegni di
Giambattista Tiepolo.
Civico Museo Morpurgo de Nilma, ospitato nell'appartamento
ottocentesco dei banchieri Morpurgo, con gli arredi originali,
donato dalla famiglia al Comune nel 1943.
Altri Musei Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata
Museo della Bora
Museo della comunità ebraica
Museo della Fondazione Giuseppe Scaramangà di Altomonte
Galleria Nazionale d'Arte Antica
Museo Nazionale dell'Antartide
Museo ferroviario
Museo etnografico di Servola
Museo speleologico "Speleovivarium"
Museo della Farmacia "Picciola"
Museo Commerciale
Science Centre Immaginario Scientifico (Grignano)
Antiquarium di Borgo San Sergio
Donazione Sambo
Principali teatri di
Trieste: Teatro Rossetti Stabile di Trieste
Teatro Comunale Giuseppe Verdi
Teatro Silvio Pellico
Teatro Orazio Bobbio (ex Contrada)
Teatro dei Fabbri
Teatro Miela Reina
Teatro la Barcaccia
Teatro Slovensko Gledalisce
Letteratura L'ambiente culturale mitteleuropeo e la particolare storia
di Trieste hanno favorito fin dall'Ottocento l'affermazione di
scrittori triestini e l'arrivo di importanti autori stranieri
che nella Città vissero a lungo. L'elenco di sotto comprende i
più importanti scrittori nativi di Trieste e altri scrittori
celebri che vissero e scrissero le loro maggiori opere nel
capoluogo giuliano.
Scrittori di lingua italiana: Francesco Burdin
Carolus Cergoly
Mauro Covacich
Diego De Castro
Piero Dorfles
Marcello Labor
Giuseppe O. Longo
Claudio Magris
Bruno Maier
Stelio Mattioni
Elody Oblath
Pier Antonio Quarantotti Gambini
Renzo Rosso
Pino Roveredo
Paolo Rumiz
Umberto Saba
Bruno Giordano Sanzin
Scipio Slataper
Giani Stuparich
Italo Svevo
Susanna Tamaro
Fulvio Tomizza
Bruno Vasari
Franco Vegliani
Giorgio Voghera
Guido Voghera
Scrittori dialettali: Lino Carpinteri
Mariano Faraguna
Virgilio Giotti (premiato nel 1957 dall'Accademia dei Lincei)
Scrittori di lingua tedesca: Theodor Däubler
Julius Kugy
Robert Hamerling
Veit Heinichen
Rainer Maria Rilke
Günter Schatzdorfer
Scrittori di lingua inglese: Richard Francis Burton (nel XIX secolo, in epoca asburgica,
visse i suoi ultimi 18 anni di vita a Trieste)
James Joyce
Jan Morris (lasciò Trieste nel 1954, subito dopo la
ricongiunzione della città all'Italia)
Scrittori di lingua slovena: Vladimir Bartol
Dušan Jelinčič
France Bevk
Miroslav Košuta
Jovan Vesel Koseski
Marko Kravos
Boris Pahor
Alojz Rebula
Igor Škamperle
Scrittori di lingua francese: Vitomir Ahtik
Françoise Bergère
Stendhal, consule di Francia a Trieste in 1831
Charles Nodier (1780 – 1844)
Paul Morand (1888-1976)
Catherine Néal Phleng
Marie Bonaparte, castello di Duino
L'ambiente
naturale di quella che sarebbe divenuta la città di Trieste comprende
due unità geografiche distinte: l'altopiano carsico, costituito
prevalentemente da calcari, e il golfo, formato da colline arenacee e
pianure alluvionali. Il Carso, noto anche come Altopiano Carsico, si
estende dai piedi delle Alpi Giulie al mare Adriatico, (in provincia di
Gorizia e di Trieste), e attraverso la Slovenia occidentale e l'Istria
settentrionale, prosegue fino al massiccio delle Alpi Bebie (Velebit)
all'estremo nord-ovest della Croazia. Caratteristica delle rocce
calcaree è la loro solubilità all'acido carbonico contenuto nella
pioggia, che con il trascorrere del tempo le modella in varie forme
(fenomeno del carsismo). Il Carso è ricco di migliaia di grotte di varie
dimensioni, che da sempre hanno offerto naturale riparo ad uomini e
animali, delle quali le più note sono la Grotta Gigante, le grotte di
San Canziano e quelle di Postumia. Il calcare è una roccia sedimentaria
creatasi sul fondo marino dall'accumulo di organismi quali piante,
molluschi, coralli, crostacei...
La formazione del
Carso dovrebbe risalire all'incirca alla fine dell'era Mesozoica, al
Cretaceo (circa 100 milioni di anni fa), quando in seguito alle spinte
orogenetiche,
le masse rocciose subirono la deformazione tettonica e
cominciarono ad emergere le Alpi Carniche, le Giulie e le Dinariche. Il
Carso, ancora sotto la superficie del mare, inizò a piegarsi, facendo
affiorare delle scogliere dalle cui pieghe cadevano nel mare i detriti,
che sedimentandosi diedero origine alle arenarie e alle marne.
Con il trascorrere del tempo (milioni di anni) il Carso accentuò il suo
corrugamento, emergendo dal mare. Lo strato di arenaria, per effetto
della frantumazione, andò a formare pieghe disordinate, doline e
colline; la dorsale carsica, dalla soglia di Basovizza fino a Duino,
venne percorsa da un grosso corso d'acqua, il Paleotimavo, il quale
scorrendo creò le dorsali collinose.
Per effetto della solubilità del carbonato di calcio sotto l'azione
degli agenti atmosferici, ebbero inizio quei processi di modellamento
che conferirono al territorio un aspetto molto suggestivo.
Le cave di Aurisina presentano una notevole varietà di materiali che
hanno tutti la stessa definzione: "brecciola calcarea" di origine
organogena, formatisi proprio nel Cretacico superiore. E' durante questo
periodo che iniziò il rapido sviluppo delle Angiosperme. Le ammoniti
svilupparono forme a spirale svolta o a guscio quasi completamente
diritto (eteromorfe) e nei mari poco profondi si diversificarono le
rudiste, un particolare gruppo di lamellibranchi nei quali una valva
assumeva forma conica rovesciata, fissata al substrato, mentre l'altra
formava una sorta di opercolo.
La fine del Cretacico superiore è caratterizzata da un'importante
estinzione di massa, avvenuta 65 milioni di anni fa, famosa perché
associata all'estinzione dei dinosauri.
Repen Classico chiaro. Estrazione: San Pelagio, Monrupino, Rupingrande
Aurisina Fiorita o Aurisina Brecciata. Estrazione: Aurisina
Dal punto di vista chimico, la base di tutti i marmi di Aurisina è il
carbonato di calcio, mentre il carbonato di magnesio ed il residuo
insolubile, quando ci sono, si trovano soltanto in traccia. Dal punto di
vista dell'aspetto, i vari tipi di pietra di Aurisina si distinguono per
la pezzatura delle inclusioni di fossili che sono più o meno sminuzzati;
solo l'"Aurisina fiorita" si differenzia dalle altre, per il fatto che i
fossili sono di notevoli dimensioni.
Già all'epoca romana, dalla fine del I secolo avanti Cristo, le cave di
pietra di Aurisina fornivano materiale da costruzione e decoro per
Aquileia. Le pietre estratte venivano calate per mezzo di giganteschi
scivoli, costituiti da lastre di piombo, lungo il ciglione carsico, e
giungevano a destinazione via mare.
Ireneo della Croce scrive: “ […] non lungi dalle cave si vedono ancor
oggi i vestigi di due strade, addimandate comunemente “Piombino”, perchè
tutta coperte da lastre di piombo grosse, oltre due palmi dalla sommità
del monte, sino alla riva del mare, servivano per trasportare le colonne
ed altre machine levate dalle suddette cave e caricarle nelle navi”.
Il Carso
presenta un clima temperato-marittimo, con afflusso di aria continentale
proveniente dalla catena delle Alpi Giulie o attraverso la sella di Prevallo,
che può produrre escursioni tra i valori minimi e massimi, nelle
giornate estive, fino a 20°C. Nelle doline e sulle colline, si
evidenziano
dei topoclimi con caratteristiche subalpine, nei pendii che digradano al
mare il
clima è temperato marino.
La città di Trieste secondo la classificazione di Köppen
rientra nel tipo mediterraneo con un clima piuttosto mite
d'inverno e caldo, raramente torrido, d'estate. Per la vicinanza dei
rilievi, brevi piogge possono presentarsi durante tutto l'anno, mentre
durante i mesi estivi le precipitazioni sono rare e prevalentemente a
carattere temporalesco.
La temperatura media rilevata nel corso dell'anno è di 25°C nel mese più
caldo (luglio) e attorno ai 6°C nel mese più freddo (gennaio) che raramente, almeno sulla costa,
scende al di
sotto dello zero. Scarse sono anche, le giornate con neve, nebbia o grandine,
fatta eccezione per l'altipiano carsico che tende ad innevarsi con
maggiore facilità.
Il clima generalmente mite di Trieste muta in presenza del suo
caratteristico vento, la "Bora", che soffia per brevissimi periodi anche
d'estate, e le cui raffiche nel periodo invernale aumentano notevolmente
la percezione di freddo. In determinati periodi le raffiche della Bora
possono essere gelide, facendo precipitare le temperature
anche di parecchi gradi sotto lo zero. Particolarmente
fredde e ventose sono state le annate: 1929; 1956; 1976; 1985; 1991;
1996; 2003; 2006; 2008.
La flora carsica,
risultato di alterne vicende
climatiche verificatesi nel corso dell'era quaternaria, iniziata
oltre 2 milioni di anni fa e conclusosi circa 12.000 anni fa,
attraversando alcuni periodi glaciali, è molto ricca e varia di specie
(oltre 1500).
Possiamo suddividerla in tre gruppi:
la flora Illirica, con il frassino, la roverella e
il carpino;
la flora Medioeuropea, con la
quercia, l'acero, l'olmo e il carpino betulla;
la
flora Mediterranea coi il pino greco, la ginestra, il leccio, l'olivo
selvatico, la salvia e l'euforbia.
Tra le piante presenti sul territorio, le principali sono:
Con "Preistoria", termine coniato negli
anni trenta dell'Ottocento da Paul Tournal, fondatore della Commission
Archeologique e del museo di Narbonne, si intende convenzionalmente quel
grande periodo che, dalla prima comparsa dell'uomo sulla Terra, precede
la storia documentata. Un intervallo temporale, secondo una visione
abbastanza condivisa, che va da circa due milioni e mezzo di anni fa
sino al 4.000 a.C. circa, periodo in cui avvenne l'invenzione della
scrittura.
Le prime testimonianze giunte a noi, intese quali manufatti e graffiti,
sono state datate all'incirca intorno al 30.000 a.C. (secondo altre
fonti la datazione dei reperti deve essere anticipata di molto).
Tradizionalmente, alla preistoria
viene ascritta l'età della pietra, ovvero quella fase dell'evoluzione
umana non riferibile tanto ad un periodo temporale specifico, quanto
evolutivo, in cui si iniziarono a costruire e usare utensili ricavati da
legno, pietre, corno, ossa, conchiglie, mentre alla successiva
protostoria è attribuita la nascita della lavorazione dei metalli, da
cui prendono il nome le successive età del bronzo e del ferro.
L'età della pietra, in funzione delle tecniche di lavorazione dei
materiali e all'uso degli utensili, viene suddivisa in tre periodi:
Paleolitico, Mesolitico e Neolitico.
Il Paleolitico si estende all'incirca da
2.500.000 di anni fa fino al 10.000 a.C.; il Mesolitico dal 10.000 al
6.000 a.C.; il Neolitico dal 6.000 al 4.000 a.C.
Il termine Paleolitico
(dal greco
παλαιόςpalaios,
"antico", e λίθοςlithos,
"pietra", ossia età "della pietra antica"),
venne coniato dallo studioso John Lubbock
nel 1865. Durante il Paleolitico avvennero una serie di glaciazioni, che
prendono i nomi dai loro scopritori: glaciazione di Günz,
glaciazione di Mindel, glaciazione di Riss e glaciazione di Würm.
Durante queste epoche, i ghiacci si erano estesi su gran parte
dell'Europa settentrionale e centrale, fin quasi sulle coste del
Mediterraneo, provocando l'abbassamento del livello del mare di oltre
100 metri. Alla fine dell'ultima glaciazione, (da 15.000 a 10.000 anni
fa), con il conseguente aumento delle temperature, i ghiacciai ripresero
a sciogliersi alzando il livello dei mari. Successivamente all'ultima
glaciazione, di Würm,
si diffonde in Europa l'odierno Homo sapiens sapiens. Gruppi umani,
prevalentemente nomadi o a permanenza periodica, con un'economia di
raccolta, caccia e successivamente di pesca, le cui abitazioni erano
inizialmente ripari naturali (anfratti e grotte), poi capanne costruite
con arbusti e pelli di animali, si diffondono nel bacino mediterraneo.
Nell’Europa occidentale pascolavano
grandi branchi di renne, in quella orientale mammut e cavalli selvatici.
Le condizioni climatiche e ambientali dell’Italia erano parecchio
diverse da quelle attuali: grandi distese di boschi rendevano il clima
fresco e umido, i ghiacciai alpini erano molto più estesi e la nostra
regione era ricoperta da una fitta vegetazione alpina. Le terre emerse
collegavano l’Italia alla penisola balcanica, quasi fino all’altezza
della Puglia.
Durante l'età paleolitica, l'uomo inizia ad utilizzare utensili in
pietra - sono di questo periodo le pitture rupestri ritrovate in grotte,
soprattutto nella Francia centrale e nella Spagna settentrionale,
realizza sculture sbozzate in piccole pietre, rappresentazioni del mondo
visibile, forme create con l'intento di riprodurre la realtà in cui esso
viveva o per lasciare traccia della sua esistenza.
Durante il Mesolitico compaiono
progressivamente forme artistiche di maggior rilievo, come disegni o
incisioni di animali (bisonti, cavalli), in cui viene impiegato il
rosso, il nero, il marrone, reperti delle grotte di Lascaux in Francia e
delle grotte di Altamira in Spagna.
Nel periodo detto Neolitico fa la sua
comparsa la ceramica, localizzata prima nel Mediterraneo orientale, per
poi svilupparsi verso l'Africa settentrionale, la Grecia, l'Italia, la
penisola balcanica, la Francia meridionale e la Spagna.
Del territorio dove ora sorge Trieste e il suo
entroterra, della Venezia Giulia, si sa solo quello che
ci raccontano i reperti fossili, ora conservati nei vari musei.
Il Museo di Storia Naturale di Trieste, oltre allo
scheletro fossile dell'Ursus Spelaeus che viveva nelle grotte del Carso
fino
a qualche decina di migliaia di anni fa,
(quasi 300 esemplari sono stati rinvenuti
nella grotta Pocala di Aurisina),
ospita anche il dinosauro Antonio, ritrovato al Villaggio
del Pescatore, zona
"Baia degli Uscocchi",
nei pressi
dell'ex cava (sito paleontologico visitabile, gestito dalla
cooperativa Gemina).
A fianco della cava si
trova una stradina che conduce al luogo del ritrovamento.
Scoperto nel 1994, Antonio è il più
grande e completo dinosauro ritrovato in Italia, appartenente agli "adrosauroidi",
rettili vegetariani che vivevano in branco e che alla fine del Cretaceo
popolarono diverse regioni della Terra, comprese le Americhe. La loro
caratteristica principale era la forma del muso, appiattito e con un
becco simile a quello di un cavallo o di un'anatra. Si tratta dello
scheletro fossile meglio conservato mai ritrovato in Italia (completo al
95%): misura 4 metri di lunghezza e un metro e trenta di altezza,
mano a tre dita, arti posteriori robusti adatti alla corsa. Databile a 70
milioni di anni fa, è attualmente il reperto animale più antico vissuto
in queste zone.
Il Castello di San
Giusto, dal 15 marzo al 3 giugno 2001, ha ospitato la mostra "I
dinosauri nella regione adriatica", ottenendo un grande afflusso di
visitatori. La mostra proponeva vari reperti del Villaggio del
Pescatore: il già citato
"Antonio", "Bruno" (un nuovo esemplare), le zampe anteriori di un
adrosauro, parti di un dinosauro carnivoro, ossa di dinosauri di grandi
dimensioni, tre coccodrilli; provenienti da Valle in Croazia: una
vertebra di sauropode, un dente ed un artiglio di un piccolo dinosauro
carnivoro, alcuni denti di coccodrillo; un grande blocco di roccia
fossilifera e due denti di dinosauro da Kozina in Slovenia.
A quattordici
anni di distanza, nel marzo 2015, una mostra di dimensioni inferiori è
stata allestita alle Scuderie del Castello di Miramare: "Attenzione
Dinosauri: Lavori in corso". Organizzata dalla ditta triestina Zoic, in
collaborazione con la Cooperativa Gemina, è stato presentato il
minuzioso lavoro di restauro, preparazione ed assemblaggio delle ossa
che viene svolto prima dell'esposizione definitiva in un Museo.
Nello stesso
giacimento di Antonio sono stati ritrovati fossili di dinosauri
della stessa specie, un osso di dinosauro carnivoro, coccodrilli, resti
di rettili volanti, pesci, gamberi, vegetali. Questo assieme di reperti
configura l'habitat locale del periodo come una pianura costiera
paludosa, conseguente a vaste terre emerse, con una ricca vegetazione
dovuta ad un clima tropicale o sub-tropicale. Le rocce carsiche
conservano tracce di numerosi eventi biologici e geologici, risalenti da
45 milioni di anni fa fino a 100 milioni di anni fa, con forme di vita,
soprattutto molluschi e microfaune i quali confermano una formazione
avvenuta in un ambiente marino tropicale.
Delle origini e della vita degli antichi
abitanti della Venezia Giulia, sappiamo molto poco: la
valle dell’Isonzo fu abitata fin dal Paleolitico Medio (100.000 - 40.000
anni fa) con tracce umane anche nelle caverne della valle del Vipacco. I
reperti archeologici di maggior rilievo risalgono all’epoca del
Neolitico (8.000-3.000 anni fa) e a quelli dell’età del bronzo (circa
3.000-2.000 a.C.), quando, finita l’ultima grande glaciazione il clima
si fece più mite e i vari gruppi umani abbandonarono la vita nomade per
vivere nei primi villaggi, dedicandosi all’allevamento di animali e alla
coltivazione della terra.
In Europa, compaiono i "dolmen", due
grandi pietre verticali sulle quali viene appoggiata una
orizzontalmente, e i "menhir", monoliti
eretti singolarmente o in gruppi, con
dimensioni che possono variare considerevolmente (fino a raggiungere i
30 metri di altezza), opere
legate a culti primitivi. In Italia settentrionale si diffusero i
villaggi su palafitte, in Sardegna, a partire dal terzo millennio a.C.
sorgono i "nuraghi", costruzioni tronco-coniche a base circolare
realizzate con pietre sovrapposte nelle pareti e a cerchi concentrici
nelle volte a forma di cupola. Nelle zone di nostro interesse, che
costituivano un punto di passaggio tra le aree montane del Carso, del
Collio e la pianura veneto-friulana, si insediarono diversi popoli:
Galli Carni, Protoilliri e Istri. Non mancano nemmeno tracce della
cultura veneta, che da Este giunse fino a queste zone. Menzionati già da
Erodoto, occuparono le nostre regioni tra il secondo e il primo
millennio a.C; dediti al commercio, la loro civiltà raggiunse il massimo
splendore tra il 500 e il 400 a.C., quando iniziarono le invasioni di
alcune tribù di Celti, quelle dei Galli Carni. Testimonianze della
civiltà dei Veneti si sono ritrovate nell’alta valle dell’Isonzo, a S.
Lucia di Tolmino (ottomila tombe e i resti di un insediamento di
capanne), a Caporetto e sull’altura di Santa Caterina sopra Nova Gorica,
tutte collocate dagli studiosi all'età del ferro. Sempre secondo gli
storici sembra che a quel tempo i Veneti confinassero al Timavo con gli
Istri. Venivano eretti tumuli di pietra e i defunti trovavano
collocazione in tombe, come quelle scoperte a Tolmino, ma anche sul
monte Calvario e a San Pietro. Dopo il V secolo a.C., sorsero
consistenti nuclei abitativi dai quali avranno poi origine alcune delle
città attuali, primo tra tutti quello di Aquileia, in un’area dove erano
presenti Veneti, Illiri e Celti.
I Galli Carni, popolazione celtica di
origine danubiana, scesero tra il V e il IV secolo a.C. e dopo aver
affrontato cruenti scontri con i Veneti e gli Istri, si insediarono
nell’Isontino, nel Friuli e nel Veneto. Secondo Tito Livio e Plinio il
Vecchio, avrebbero edificato una città fortificata non distante da
Aquileia, poi distrutta dai romani.
Degli Istri, popolazione indoeuropea di
indole bellicosa, è documentata la presenza sul Carso già nel X
secolo a.C. Combatterono per la prima volta contro Roma nel 229 a.C. e
successivamente, sconfitti nella zona del Timavo, si rifugiarono a
Nesazio, una città non lontana dall’odierna Pola. Presa d'assedio nel
177, secondo quanto tramandato da Livio, la città cadde dopo che i
Romani ne distrussero l’acquedotto. Nonostante la distruzione e
sottomissione di varie città, gli Istri mantennero la loro indipendenza
ancora per qualche anno, fino al 27 a.C., quando tutti i territori
dall’Istria al Danubio furono trasformati in provincia romana e vennero
romanizzati.
Ad opera degli Istri, tra il XV e il III secolo a.C., nella
zona del Carso e dell'Istria, fanno la loro comparsa i primi
"castellieri". Si tratta di piccoli insediamenti, edificati in posizioni
elevate e caratterizzati da una o più cinte di rocce sedimentarie di
varie misure, spesso realizzate a secco o saldate con terra e
sterpaglia. Talora i castellieri venivano maggiormente fortificati con
staccionate in legno, per migliorare la difesa del villaggio dove vivevano comunità dedite all’agricoltura,
all’allevamento, alla caccia e alla pesca. Essi possono variare molto di
dimensione, a partire dai 200 metri, fino a raggiungere il chilometro di circonferenza.
Il castelliere preistorico divenne l'"oppido"
romano (insediamenti cittadini fortificati)e sovente, con il trascorrere
del tempo, su di esso vennero
innalzate fortificazioni medievali, chiese, villaggi o città. Si trovano
traccia di castellieri in tutta la Venezia Giulia e Friuli; nella sola
Istria ve ne sono almeno 500.
Ritenuti per secoli fortilizi romani, nel XIX secolo, ad opera
dello storico e scrittore Carlo De Franceschi (Moncalvo di Pisino
1809 - 1893), i castellieri vennero restituiti quali sedi degli abitanti
preistorici dell'Istria; allo stesso De Franceschi spetta anche il
merito di aver identificato la posizione di Nesazio, capitale degli
Istri.
Nel 1903, l'archeologo e paleontologo Carlo Marchesetti (Trieste,
1850 – 1926), il quale aveva già fatto uno studio nel 1883 sul castelliere
di Cattinara, pubblicava una monografia sui castellieri della
Venezia Giulia, classificandone un gran numero. Il Marchesetti fu
direttore per oltre quarant'anni del Civico Museo di Storia naturale
di Trieste, e
dal 1903 venne nominato anche direttore dell’Orto botanico, che
successivamente annesso
al Museo di storia naturale, assunse grande prestigio scientifico.
Nel corso di una serie di campagne di scavo e di ricognizione, svolte
tra il 1883 e il 1892, nell’Isontino
e in Istria, il Marchesetti rinvenne
significativi reperti, ancora oggi conservati nei civici musei
triestini; le sue scoperte vennero pubblicate nel "Bollettino della
società Adriatica di Scienze naturali".
Sebbene i resti dei villaggi e
delle necropoli annesse a queste fortificazioni siano quasi totalmente
scomparsi, nei più antichi sono state ritrovate ceramiche e utensili in
pietra levigata, ossa di cervo, tra i rari oggetti metallici delle
fibule di tipo la Certosa, risalenti al VI-V secolo a.C., scoperte nei
castellieri di Trieste e del Carso. La ceramica è caratterizzata da un'impasto nero opaco, con varie tipologie di anse, base decorata a
solchi circolari concentrici disposti attorno ad una rientranza
concoidale. I manufatti di selce sono perlopiù martelli e accette di
pietra verde, pietre da fionda, qualche macina.
Dopo l'esplorazione scientifica, avviata
nel 1925, sui castellieri di Monte Ursino e di Fontana del Conte, si
giunse alla conclusione che il vallo non deriva sempre e soltanto dal
crollo della cinta muraria, ma che può essere una tecnica più complessa di
costruzione muraria, realizzata allo scopo di ottenere un livello
orizzontale stabile. Venne stabilita anche l'esistenza di due tipi di
castellieri: il tipo a muraglioni, comune nell'Istria meridionale e
nelle isole del Carnaro, e il tipo a terrapieno, utilizzato
nell'altipiano della Piuca, dove i più antichi appartengono all'età del
bronzo e i più recenti a quella del ferro.
Oltre a difesa di un nucleo abitativo, i castellieri potevano essere utilizzati
quale ricovero di animali, o in presenza di altari di pietra, destinati al culto votivo.
Per le loro caratteristiche, i
castellieri sono stati
riutilizzati, sia al tempo degli antichi romani, sia durante il
Medioevo, alcune teorie fanno risalire Trieste e Pola ad antichi
castellieri.
Citiamo alcune delle località dove sono
presenti dei castellieri: Cattinara, Conconello, Contovello,
Duino Aurisina "Castelliere Carlo De Marchesetti", Elleri, Ermada, Gradez, Kluc', Monrupino, Monte Castiglione,
Monte Carso, Monte Coste, Monte d'Oro, Monte Grisa, Monte Grociana,
Monte San Leonardo, Monte San Michele, Monte San Primo, Monte Spaccato,
Montebello, Nivize, Prosecco, Rupingrande, Rupinpiccolo, San Giusto, San
Leonardo, San Lorenzo, San Michele della Rosandra, Sales, San Polo a
Monfalcone, San Servolo, Santa Croce, Slivia, San Vito, Sant'Elia, Slivia, Zolla...
Incerte e controverse rimangono le origini di
Trieste. Dopo il X secolo a.C. è documentata sul Carso la presenza dei
primi nuclei di indoeuropei, gli Istri, e di alcuni castellieri da essi edificati.
Ma con ogni probabilità gli Istri non furono i primi
abitanti della antica Trieste.
Il geografo greco Marciano ricorda che gli antichi abitanti della città
avrebbero creduto, come molte delle città greche e italiche più
antiche, che essa avesse preso il nome da un eroe o semidio,
eponimo fondatore "Tergesto", un Argonauta che l'avrebbe
fondata in riva al mare.
Plinio, raccontando i miti di Giasone e
Medea, narra come gli Argonauti,
dopo aver conquistato il Toson d'Oro, avrebbero risalito il corso del
Danubio e i suoi affluenti fino ai piedi delle Alpi Giulie,
dove, caricando le navi sulle spalle, discesero a valle fino a
raggiungere le spiagge del mar Adriatico (non procul Tergeste),
non lontano da Trieste.
Erodoto racconta, come fosse già risaputo
ai suoi tempi, che i Greci della Fòcide, già nel IX o nell'VIII secolo
a.C., avrebbero risalito l'Adriatico avviando un intenso commercio tra
le nostre terre e le colonie greche dell'Italia meridionale, dato
supportato dai ritrovamenti di vasi greci arcaici (VI-V secolo),
presenti nelle necropoli preistoriche della Regione Giulia. Virgilio
narra la storia di Antenore, principe veneto, che con la sua gente, dopo
la caduta di Troia, fuggi dai Greci risalendo l'Adriatico fino ad
arrivare alle foci del Timavo, che divenne fiume sacro dei Veneti,
presso le cui risorgive essi costruirono un tempio dedicato a Nettuno.
Strabone menziona la costruzione di un tempio alle sorgenti del Timavo,
dedicato non a Nettuno ma a Diomede, il re trace domatore di cavalli.
" Tracce di un castelliere e oggetti di
selce, di ceramica, d'osso e di corno, attribuiti allo strato «protovèneto»,
furono trovati sul colle di Montebello, ai limiti di Rozzòl. Rovine di
castellieri furono vedute presso Cattinara, a Contovello, a Conconello,
sul monte Spaccato e sul monte Grisa, lungo tutto il ciglione della
Vena, nel circondario di Trieste. Il suo territorio fu dunque abitato in
maniera relativamente intensa. Ma la collina che dà sul porto, dove oggi
è la nostra città? " (Attilio Tamaro, Storia di Trieste, Vol. I)
Strabone fa risalire la fondazione di
Tergeste al popolo celtico dei Carni.
"I più antichi abitanti di questi ultimi
scoscendimenti delle Alpi Giulie dei quali ci sia pervenuta memoria
erano Celti o Galli e propriamente di quel popolo ch'ebbe nome di Carni.
Da Strabone si apprende che nella sua origine Trieste si chiamasse Pago
Carnico. Dei fasti di questo popolo tace la storia, nè avanzarono
monumenti in testimonianza del loro grado di civiltà. In epoca non bene
precisabile, ma presumibilmente circa 700 anni innanzi l' E.V., un
popolo Trace cacciato a quanto sembra dalle sue sedi alle foci dell'
Istro, risalì il Danubio e la Sava, si ripiegò sulle Alpi presso Lubiana
e venne a stabilirsi sulle rive dell'Adriatico. Egli respinse e
sottomise gli abitanti Celti del paese e gittò lungo la costa, le
fondamenta di parecchie città, tra le quali Trieste". (Ettore Generini,
Trieste Antica e Moderna, Trieste 1884)
Ma la fondazione del primo nucleo della
romana Tergeste potrebbe anche risalire ai Veneti o Paleoveneti, come testimoniato dalle radici
del nome "Terg" ed
"Este".
" Se Trieste non fu già castelliere «protovèneto»,
si dovrebbe considerare di fondazione veneta. L'argomento più probante
sarebbe nel suo stesso nome di Tergeste, che è il più antico. Vale a
dire nel suffisso -este, che si trova in Ateste e in Segeste, due sedi
di Veneti protoitalici, delle quali la prima appare essere stata il
massimo centro della civiltà diffusa allora nella Venezia Giulia, anche
intorno a Trieste, e detta appunto atestina o veneta ". (Attilio Tamaro,
Storia di Trieste, Vol. I)
Purtroppo le fonti in proposito sono molto scarse e frammentate e
scritti attendibili non sono giunti sino a noi. Per la sua posizione
geografica piuttosto isolata, Trieste, rispetto al mondo classico dei
Greci, era probabilmente poco conosciuta e questo spiegherebbe il motivo
per cui le notizie su di essa sono molto vaghe.
Altre considerazioni su Carni e Càtali
(popolazione celtica), i quali avrebbero occupato il territorio
dell'attuale Friuli Venezia Giulia già nel X secolo a.C.: dai racconti
della conquista romana, gli eserciti
romani non trovarono al Timavo
altre popolazioni se non gli Istri.
Per quanto
riguarda il mito di Antenore, che l'Iliade lo menziona come saggio
troiano adoperatosi per invano per scongiurare la guerra con gli Achei.
Dal matrimonio con Teano Antenone ebbe numerosi figli maschi che presero
parte alla difesa di Troia. Dopo la distruzione di Troia, Antenone con
la moglie e i figli superstiti raggiunse le coste del nord Italia,
fondando poi Antenorea, denominata in seguito Padova.
Questo
spiegherebbe le opinioni degli studiosi i quali ritengono che i primi
abitanti di Trieste fossero veneti. Il mito dimostrerebbe comunque che
nella fondazione della città vi è stato l'apporto di una corrente
egeo-anatolica, quale appunto poteva essere quella veneta. Quanto alla
fondazione della città da parte di un eroe di nome Tergesto o Tregesto,
di origine greca, il mito si limiterebbe alla contemporaneità della sua
nascita con le altre città balcaniche, ad opera di quei primi gruppi di
indoeuropei, che a partire dal XIV secolo a.C. si diffusero in tutta
quest'area.
A seguito della conquista romana (II secolo a.C.), l'antica Tergeste
iniziò a sviluppandosi progressivamente acquisendo una
fisionomia urbana che raggiunse la sua massima espansione durante
l'impero di Traiano, con una popolazione che, secondo lo storico
P. Kandler, doveva
aggirarsi attorno ai 12.000 abitanti.
I fatti che precedono
l'invasione romana del territorio ricordano gli Istri e la
loro alleanza con Demetrio di Faro (Lèsina) contro Roma, che
condusse ad una prima
azione militare da parte dei romani (220 a.C.). Non si hanno
notizie se a questa battaglia, nelle file degli Istri, abbiano partecipato anche gli
abitanti dell'antica Tergeste.
Nel 183 a.C., Roma iniziò una guerra contro gli Istri,
giustificata sia dagli interessi geografico-economici, sia
dal fatto che essi erano da sempre alleati dei loro nemici e
costituivano una costante minaccia alla sicurezza dei territori
conquistati. La guerra
del 183 fu interrotta per ragioni politiche, ma le ostilità
ripresero due anni più tardi quando gli Istri cercarono di
ostacolare la
costituzione della colonia aquileiense. I tergestini allora
erano governati dal re degli Istri Aipulone o Epulone — regulus Aepulo,
ci dice
Tito Livio.
Nel 178, il console Manlio Vulsone mosse, da Aquileia, alla conquista
dell'Istria e dei confini orientali, inviando la flotta del
duumviro Furio «nel prossimo porto
dell'Istria», (quindi, o nell'insenatura di Servola o
nel vallone di Zaule). E' possibile che l'esercito di
Manlio Vulsone si sia portato nei pressi di Basovizza, dato che
nel vicino monte Grociana ci sono i resti di un forte castelliere
istriano. Il Marchesetti propone invece l'attendamento romano tra Montebello e Cattinara, ove spesso
vengono rinvenuti cocci romani e dove minore è la distanza dal mare
e dalla flotta navale. La battaglia che ne seguì vide dapprima
la seconda legione del pretore Strabone sconfitta e
rigettata sino al mare. Gli Istri sferrarono il loro attacco la
mattina presto, quando era ancora buio, gettando nel panico la massa
dei soldati romani che, colti di sorpresa, si mise in fuga.
Rimasero nel campo solo 600
uomini, il pretore e gli ufficiali, che vennero travolti e trucidati. Gli Istri,
dopo la vittoria, avendo trovato nel campo viveri e vino, si
misero a banchettare e a ubriacarsi. Questo consentì ai Romani
di riorganizzarsi e di sferrare un micidiale contrattacco dopo
qualche ora; gli Istri sopravissuti si ritirarono disperdendosi
nei vari villaggi.
Nei territori conquistati vennero lasciati
presidii
d'occupazione e le legioni
rientrarono a svernare ad Aquileia, in attesa della nuova
campagna di primavera.
L'anno seguente (177 a.C.), i consoli Manlio Vulsone e Giunio
Bruto, successivamente
sostituiti dal console Appio Claudio Pulcro, portarono le
truppe nell'Istria fino a Nesazio,
l'attuale località di Altura (in croato Valtura) e di Monticchio
(in croato Muntić), nell’Istria meridionale.
Gli scavi archeologici, iniziati da Pietro
Candler sul finire del XIX secolo, hanno messo in luce un
castelliere con annessa necropoli, precedente a Nesazio, il
maggiore centro e capitale degli Istri. Nesazio, assieme a
Mutila e Faveria fu una delle ultime sacche di resistenza alla
conquista romana e sopportò un lungo assedio prima d’essere
espugnata e saccheggiata.
Il re Epulone e
l’intera sua corte, come buona
parte della residua popolazione,
si diedero la morte prima dell’entrata delle truppe romane per
non cadere in schiavitù.
La vicenda è narrata nel “De Bello Histrico”
(opera perduta) e ci viene riportata da Ennio nei suoi
Annales e da Livio nel Ab Urbe condita.
Nesazio, dopo la conquista, divenne un castrum
romano, in seguito, tornata a fiorire, un municipium
autonomo, seconda per importanza solo alla vicina città di Pola,
che i romani vollero erigere a principale centro della penisola.
Bassorilievo rinvenuto nel 1814 durante gli scavi eseguiti nel
suolo del campanile di S. Giusto, ora nella collezione dei
Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste. Incisione di Pietro
Nobile, 1814.
Della Trieste di allora non si ha memoria se non dai resti che
dal colle di
san Giusto scendono verso il mare: sul Colle si trovano i Templi
dedicati a Giove e Atena (alcune strutture
architettoniche sono nelle fondamenta della
Cattedrale); il Teatro, risalente alla fine del I secolo
a.C. (ampliato sotto Traiano) con una capienza di circa
6.000 spettatori; la "Basilica paleocristiana", edificata fra il IV
e il V secolo; l'"Arco di Riccardo", antica porta cittadina
risalente al 32 a.C. (successiva alla "Porta di Ercole" di Pola,
del 42 a.C.), alta m. 7,20 e larga m. 5,30, con una evidente
sproporzione fra la luce e l'altezza; i reperti venuti
alla luce durante
gli scavi nella zona di Crosada per il “progetto
Urban”; i più recenti scavi per il Park San Giusto da cui sono emersi
resti archeologici risalenti alla fine del I° secolo a.C., quali
strutture murarie, sistemi di terrazzamento e di scorrimento
delle acque con un sistema di drenaggio articolato attraverso
anfore capovolte, assieme a resti di edifici altomedievali e
trecenteschi collegati da pastini.
Nel passato sono stati rinvenuti resti di ville, erette nel I e II secolo
d.C., a Barcola,
Grignano e altre località della costa. Il porto romano era
situato in zona Campo Marzio, con una serie di
scali di più modeste dimensioni lungo il litorale: sotto San Vito, a Grignano, a Santa Croce, ecc..
Due acquedotti alimentavano la città, quello di
Bagnoli e quello di San Giovanni di Guardiella.
Ricostruzione del castrum, individuato da Guido Zanettini
(dal sito National Geografic)
In un primo tempo si pensava che la Tergeste romana fosse
sorta sul colle di San Giusto, in un'area che offrisse riparo
dal vento, ma nel 2013, grazie a un radar ottico chiamato lidar (light detection and ranging), montato su un
aeroplano, e a un georadar per lo studio del paesaggio, sono
emersi dei nuovi insediamenti situati
tra Montedoro e la baia di Muggia, porto naturale. La scoperta, che ha
portato alla luce un accampamento romano con due castrum
minori, risalenti al 180 a.C., si deve all'archeologo Federico Bernardini, dell'Istituto Internazionale di
Fisica Teoretica Abdus Salam di Trieste e del Museo Storico della Fisica
e Centro di Studi e Ricerche Enrico Fermi a Roma. Annunciata sulla rivista dell'Accademia di Scienze degli
Stati Uniti (Pnas), il ritrovamento avrebbe quindi portato alla luce la
"prima" Tergeste romana.
Alla caduta dell'Impero romano d'Occidente, Trieste (Τεργέστη - nome in greco bizantino) passò sotto il controllo dell'impero bizantino fino al 788, quando subì l'occupazione dei franchi. Nel 1098 risulta già diocesi vescovile con il nome latino di Tergestum. Nel XII secolo divenne un Libero Comune. Dopo secoli di battaglie contro Venezia, nel 1283 la città fu occupata dai Veneziani, ma le truppe Goriziane e quelle Patriarcali la riconquistarono. La presenza di numerosi documenti testimonia l'importanza che l'attività vitivinicola aveva nell'economia cittadina, prima dello sviluppo dell'attività mercantile marittima a seguito della proclamazione del Porto franco. Trieste si presentava quindi come un borgo fortificato circondato da viti, come si evince da numerose stampe d'epoca e dalla descrizione di viaggiatori stranieri. Quasi tutti i cittadini possedevano delle vigne, un'attività che ben presto si allargò oltre i confini triestini.
All'inizio del IX secolo, allorché fu costituita la marca del Friuli,
l'Istria le venne aggregata.
Trieste invece, già nel 948 venne a trovarsi in condizioni particolari e
diverse. I re d'Italia avevano direttamente attribuito feudi e privilegi
ai vescovi triestini. Secondo Kandler, Lotario e Lodovico avrebbero
donato loro una baronia. Da Berengario nel 911 e da Ugo nel 929 ebbero,
fuori dell'agro triestino, altre baronie minori, che non li sottraevano
però all'imperio del governatore regio. Ma nel 948 (Pavia, 8 agosto)
Lotario II concesse al vescovo di Trieste l'alto governo facendolo
dipendere direttamente dalla corona.
Il re dona, concede, largisce ed offre alla chiesa di San Giusto «omnes
res iuris nostri Regni atque districtus et publicam querimoniam et
quidquid publice parti nostre rei pertinere videtur, tam infra eandem
Tergestinam civitatem coniacentes, quam quod extra circuitum circa et
undique versus tribus miliariis portentis. Nec non et murum ipsius
civitatis totumque circuitum cum turribus portis et porterulis...»
Continua accordando al vescovo tutte le rendite e i balzelli di
spettanza regia, vietando a qualunque persona grande o piccola del suo
regno l'esazione della « curatura» d'ogni « vectigal» o «publica functio»,
ed esentando i triestini dall'osservanza delle sentenze d'altre
autorità: «nec custodiant placitum auctoritate alicuius principis».
Tutto ciò « tamquam ante nos aut ante nostri comitis presentiam palatii».
Quale sia stata la forza usata dai triestini per ottenere prima degli
altri una situazione privilegiata non ci è oggi dato di sapere.
L'occasione sembra essere stata quella di una nuova invasione di Magiari
lungo la via di Postumia, che si riversò sui Carsi e in Italia.
Berengario, supremo consigliere di re Lotario, li arrestò con una forte
somma di denaro, raccolto dalle Chiese.
Dentro le antiche mura romane, i triestini, mentre il nembo passava sul
Carso, cooperarono a raccogliere la somma del riscatto richiesta da
Berengario. Il diploma dell' 8 agosto 948 seguì forse per riconoscimento
e gratitudine. Certamente, nel promuoverne la stesura, fu decisiva
l'anima della città, espressa in vivissima attenzione all'immediatezza
dei rapporti con l'autorità centrale, che sembra peculiare a Trieste in
tutte le epoche. Comincia così «de iure» nel 948 quella particolarità di
sviluppi che contrassegnerà Trieste di fronte alle città istriane
attraverso il medio evo e l'età moderna e creerà nella città una
coscienza particolaristica insopprimibile.
Col progredire del X secolo s'indebolisce generalmente l'assetto dato
dai Carolingi all'Italia, e venendo meno il potere dei conti s'accresce
a mano a mano quello dei vescovi, intorno ai quali si stringono le
cittadinanze abbandonate a se stesse: vescovo e cittadini sollecitano
dai re il diritto di rinforzare mura e torri in propria difesa. In
seguito i conti si riaffermano in qualche misura, non sono però come gli
antichi e solo in parte ne riprendono le mansioni; i vescovi stessi
invece, se non di diritto, divengono di fatto conti nelle loro città.
Enrico II Imperatore sistema giuridicamente questo stato di fatto,
volgendo ai propri fini l'attività dei vescovi-conti, ai quali delega o
cede parte delle cure del governo. In Istria fioriscono nuove signorie
vescovili e i vescovi, divenuti ricchi e potenti baroni, infeudano
decime e immobili a famiglie di cittadini e a castellani, costituendo
curie di vassalli, delle quali serbano memoria gli statuti cittadini e i
documenti. D'accordo con le cittadinanze, i vescovi-conti si sforzano di
far coincidere i confini della diocesi-signoria con quelli dell'antico
municipio. Non pare peraltro che tra il Vescovo e la «civitas» triestina
si sia instaurato già in quell'epoca un rapporto di tipo feudale, come
ad esempio, secondo Tamaro, era tra il Patriarca e Muggia.
Dalle monete del Duecento, appare invece chiaro che un rapporto di
dipendenza feudale ormai intercorreva tra il patriarca di Aquileia e il
vescovo di Trieste. La storia non lo nega: Enrico IV infatti conferì nel
1081 al patriarca aquileiese Enrico (e li riconfermò nel 1082) i diritti
che aveva come Re d'Italia (rex si dice egli stesso nel diploma)
sui vescovati di Trieste e Parenzo. Sul vescovado di Trieste, che
gli appare in condizioni miserabili, richiama la particolare protezione
del Patriarca. Il vescovo triestino quindi, alla fine del secolo XI, da
vassallo imperiale, dipendente dal patriarca di Grado, divenne vassallo
del patriarca di Aquileia.
Il passaggio fu confermato dalla transazione intervenuta nel 1180 fra i
patriarchi di Grado e di Aquileia per le giurisdizioni metropolitiche.
Nel corso del Duecento il vescovo di Trieste riconobbe ripetutamente di
avere in feudo dal patriarca di Aquileia il dominio della città di
Trieste. Così in un protocollo del 1289, stilato dal notaio Gubertino da
Novate, comunicato dall'abate D.G. Bianchi a Kandler, che lo inserì nel
Codice Diplomatico Istriano.
Il dominio feudale del vescovo si estende su: «in primis Civitatem
Tergesti cum muris, cintis, portis, vectigalibus, cum Muta, Moneta,
Regalia, intus et extra circumquaque tribus miliaribus portentis. Item
habet Umagum Siparum Castrum Vermes, et totam insulam Patiani usque ad
Fontanam Georgicam. Item habet Castrum Calisendi cum omnibus
pertinentiis suis, quod Castrum, quedam Comitissa nomine Azika contulit
Ecclesiae Tergestinae».
Che Trieste non fosse compresa tra le città istriane infeudate al
Patriarca nel 1209 ad Augusta potrebbe anche significare che la
permanenza dell'antico vincolo feudale non aveva bisogno di riconferme.
La città.
Non miserabili appaiono le condizioni della città nel racconto di Al
Idrisi («Libro di Re Ruggero», circa metà del dodicesimo secolo).
Il grande viaggiatore e geografo arabo descrive Trieste come «città
prospera, di grande diametro, suddivisa in rioni, popolata di mercanti e
artigiani, città ben difesa, sull'ultimo lato del territorio di Venezia:
è l'ultimo paese dei Veneziani nel golfo omonimo, e i pirati del
territorio di Aquileia vi tengono una flotta militare pronta alle
invasioni».
Il numero di abitanti nel XIII secolo è stimato da Montanelli in un
numero approssimativo di 4.800.
Il dato va confrontato, per essere
significativo, con quelli di altre città: Aquileia, Udine (6.000),
Lubiana, Padova (15.000), Treviso, Verona (40.000) mentre solo Venezia
contava più di 100.000 abitanti.
Inizi del Comune. Torniamo al diploma di Lotario del 948. Esso segna una data
importantissima nella storia, purtroppo lacunosa e oscura, della «civitas»
triestina dell'alto medioevo. In pericolo d'esser travolti dal
feudalesimo montante che li avrebbe aggregati a potenti principi
d'oltralpe, i triestini si strinsero al loro vescovo, da loro stessi
eletto e salutarono certo con gioia il privilegio che sottraeva la
custodia delle mura, l'esazione delle imposte e dei dazi,
l'amministrazione civile e la giudiziaria ad altro signore.
La vecchia classe degli «honorati», detti poi «boni homines et idonei»
continua ad esercitare modeste funzioni amministrative, in posizione
subalterna, ad esprimere dal suo seno i giudici di prima istanza nel
civile, conservando e tramandando tenace il ricordo dell'antico
municipio e della sua curia, le consuetudini, il sentimento di
solidarietà economica e sociale. L'autorità vescovile non dava loro
fastidio, finché il presule era eletto per lo più tra di loro o
quantomeno con il loro concorso, ed essi avevano gran parte nel Capitolo
e nella curia dei vassalli episcopali, finché, insomma, gli interessi e
le persone del pastore, del clero e della classe dominante furono quasi
i medesimi.
Ma pare che già Ricolfo (1007-1017) provenisse direttamente dalla chiesa
di Eichstaett in Baviera e fosse investito dall'Imperatore. Così i suoi
successori Adalgero (1031-1072) e Eriberto (1080-1082). Certo nei secoli
XI e XII sempre più i vescovi assunsero il carattere di vassalli diretti
dell'Impero. Ne conseguiva la partecipazione a campagne militari e
politiche lontane che, stremando in gigantesche competizioni le loro
energie e i redditi della diocesi, senza soddisfazione alcuna della
città, interessavano solo pochi membri della «curia vassallorum». Ciò
avviene in sintonia con la storia del patriarcato di Aquileia, il cui
soglio pervenne in mano a famiglie tedesche, legate alla grande politica
imperiale germanica, rimanendovi fino all' elezione del patriarca
Gregorio (1251-1269).
Il dissidio tra il vescovo e la cittadinanza si delinea, si acuisce e
prende forma.
Destreggiandosi abilmente, i cittadini ottengono via via privilegi e
riconoscimenti alla loro collettività, che, in pieno feudalesimo, è
ormai un ente di fatto, non tutelato dai pubblici poteri.
In quest'oscuro periodo, nel quale cade il tramonto d'un assetto antico
e rimpianto sempre, si formano e si stringono i nuovi interessi e i
nuovi vincoli, si foggia e si rassoda la «civitas» novella. E' peraltro
noto che il Comune italiano non fu mai in possesso di tutti gli elementi
originari che formavano la sovranità, ma che si appagava di un certo
numero più o meno esteso di diritti sovrani, i quali garantivano lo
sviluppo di un'ampia autonomia, senza raggiungere l'indipendenza
assoluta: la piena sovranità fu conquistata solo tardi, da pochi Comuni
e quando già il diritto comunale era in decadenza.
A Trieste già nel X secolo dunque accanto al vescovo signore esisteva
una collettività abbastanza forte per essere apprezzata quale
cooperatrice e fiancheggiatrice, con voce autorevole nel capitolo e
nella curia dei vassalli vescovili. Negli scarsissimi documenti
dell'epoca sono menzionati di solito il vescovo, o un suo ufficiale, e i
rappresentanti della città.
Locopositi e Gastaldi. In un documento del 933, Trieste è rappresentata da un «locoposito»,
forse designato o eletto dal vescovo. Primo tra gli «scabini»
(rappresentanti della cittadinanza), egli forse corrisponde al primate
che appare di questi tempi nelle città dalmatiche, però sembra prevalere
in lui il carattere di primo rappresentante cittadino. Nel corso del
secolo XI, il locoposito perde via via la sua importanza e il titolo si
riduce a una qualificazione onorifica ed ereditaria. In sua vece spunta,
nel secolo XII, il gastaldo che poco ha a che fare con il gastaldo
longobardo o franco, ma invece sembra assumere anche nelle città
istriane il posto di primo ufficiale, come magistrato elettivo, facente
parte del collegio dei giudici, cioè delle supreme cariche cittadine
perpetuanti quelle del municipio romano.
A Trieste il gastaldo, preposto dal vescovo signore della «civitas»,
riuniva in sé ai poteri amministrativi e giudiziari conferitigli dal
vescovo, che egli esercitava in qualità di agente, anche la
rappresentanza dei cittadini. A seconda della sua maggiore o minore
potenza, la «civitas» designava al vescovo la persona dell' eleggendo e
talvolta addirittura forse lo imponeva.
Affermazione del Comune. Precipuo carattere di rappresentante della «civitas», anzi già del «commune
Tergestine civitatis», ha quel gastaldo di Trieste che incontriamo nel
lòdo arbitrale pronunciato da Ditmaro, vescovo di Trieste, per la lite
fra il comune di Trieste e Dieltamo (sic), signore di Duino nell' anno
1139.
Tra le varie signorie formatesi dopo il mille in Istria e nella Carsia è
notevole quella dei Duinati che dalla loro rocca dominavano la via
litoranea. Molesta riusciva ai triestini quella rocca tedesca
appollaiata come un falco e croniche furono le contese di confine. Il
Comune e il signore di Duino, che si accusavano a vicenda di turbazioni
di possesso, si accordarono infine di rivolgersi a Ditmaro. La città
aveva quale procuratore il gastaldo Ripaldo, assistito da dodici «boni
homines», i quali provarono con giuramento che tutte le terre dalla
strada carreggiabile al mare, tra Sistiana e Longera, erano «possessio
communitatis Tergestine civitatis». Le parti contendenti s'impegnarono a
rispettare questa linea di confine, e il vescovo «posuit inter eos» la
penale di cinque lire d'oro. In questo importantissimo lòdo ricorre per
la prima volta il nome di «commune Tergestine civitatis». Szombathely
richiama particolare attenzione sulla distinzione tra «civitas» e «commune».
Questo appare come parte, avente una sua personalità, e investe di piena
rappresentanza un suo procuratore: vanta diritto di proprietà sul
territorio che è limitato dalla via pubblica tra Sistiana e Longera, e
poi dalla catena dei monti Vena e dal mare. Non si tratta della zona di
signoria del vescovo, ristretta a un cerchio di tre miglia di raggio, ma
proprio dei beni dei cittadini. Il lòdo prova dunque che agli inizi del
secolo XII i cittadini hanno già costituito l'associazione volontaria
giurata, onde è nato e s'evolve il nuovo ente, e che questo ha ottenuto
il riconoscimento, almeno tacito, del vescovo. Esso è ancora infante, ma
già pieno di promettente vigore; e già si delinea preciso il territorio
del futuro piccolo stato sovrano, in perfetta corrispondenza con la
dicitura del suggello trecentesco: SISTILIANU PUBLICA CASTILIR MARE
CERTOS DAT MICHI FINES.
Disegno tratto dall'impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due
tipari conservati al Museo di Trieste.
A proposito di questo sigillo, ricordo che esso appare per la prima
volta a stampa nell' «Historia di Trieste» del Padre Ireneo della Croce
del 1698 in quella forma che ci è stata tramandata nei due tipari
conservati nei Civici Musei che (Kandler?) giudica «di fattura moderna».
Non ho mai trovato un documento antico con l'impronta di questi
suggelli, tanto che dubito fossero mai stati usati dal Comune di Trieste
in senso proprio. Forse si tratta di copie fatte per essere tramandate,
all'epoca (1516) in cui il sigillo triestino fu ricreato, con lo stemma
dell'alabarda in campo fasciato, sormontata dall' aquila bicipite.
Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369.
Ho avuto occasione di vedere un'impronta dell'anno 1369 ma il sigillo è
di fattura assai differente. L'evoluzione del comune di Trieste procede
analogamente a quella delle vicine città istriane, ma più lenta e con
qualche caratteristica sua. Anche secondo Vergottini a Trieste lo
sviluppo è molto più lento, appunto perché nel 1100 la città non deve
strappare l'autonomia ai marchesi d'Istria, lontani dalla provincia e
assorbiti dalla partecipazione alla grande politica imperiale, ma ai
propri vescovi. Erano anni agitati, pieni di contese con i vicini e di
azioni militari per difendersi dall'espansionismo di Venezia. Tra il
1145 e il 1149 Bernardo, vescovo di Trieste, guerreggiò, rimanendone
sconfitto, con Muggia, Capodistria, Isola e Pirano, che gli negavano le
decime.
Le gravi spese militari, i danni e l'insuccesso non giovarono all'
autorità vescovile e provocarono dissidi tra il Comune e il bellicoso
presule.
Non molto dopo, nel 1190, il clero e il popolo di Trieste chiesero che
fosse reso loro il diritto di eleggere il vescovo, diritto appartenuto,
come sopra detto, fin dal 1081 al Patriarca per i vescovati di Trieste e
Parenzo, per concessione di Enrico IV. Due anni dopo furono esauditi dal
Pontefice e il Patriarca confermò Wolcango (o Voscalco), da loro eletto.
E' questa l'epoca della coniazione dei primi denari triestini. Essi sono
in tutto simili alle monete patriarcali, con le iscrizioni : TRIESTE
PISCOP invece che AQVILEGIA.P.
Nel Duecento gli uomini del Comune comprano e, quando li hanno perduti,
ricomprano dal vescovo mediante contratti di tipo mercantile i diritti
sui quali si fonda il potere comunale.
Sono: «jus Collectae vini, et jus Petrolii, et jus Calcificum, et
Pelliparie, et jus Appellationum...et jus Consulatus...et jus
Condemnationis et redditus... excepta condemnatione sanguinis, quam
Gastaldio cum Judicibus facere debeant secundum formam Statuti, quod
Consules facient.»
Questi diritti, riscattati per denaro, saranno i cardini degli statuti
comunali che si vanno formando. Il vescovo, da parte sua, cerca di
inquadrare nel diritto pubblico le concessioni cui è costretto, dando
loro carattere di investitura o delega feudale.
Nell'anno 1292, come rileviamo da un documento del Codice Diplomatico
Istriano del 5 febbraio, il Comune triestino stipulò un patto di
alleanza e di concordia con il capitolo della Chiesa, promettendosi
reciproco aiuto «pro rata bonorum». Tre anni dopo il vescovo di Trieste
Brissa di Toppo trasfuse nel Comune il gastaldionato e le regalie su
Trieste.
I podestà istriani.
Ad onta degli screzi, che spesso nascevano, l'esser sede vescovile era
considerato un onore e un fattore di potenza. Infatti Capodistria, da
due secoli priva di un proprio antistite e riunita alla diocesi di
Trieste, impetrò nel 1186 il ripristinamento del suo vescovado, e lo
dotò del reddito di cinquecento vigne e d'altri fondi rustici e con la
decima dell'olio. In quest'occasione ci si presenta il primo podestà
istriano, con tre consoli. Autonomia sufficiente a fare patti
direttamente con Venezia era stata conquistata già nel 1150 da Cittanova,
Rovigno, Parenzo, Umago e Pola, retta da una balìa di nobili.
Nel 1192 il regime podestarile e consolare appare anche a Pirano, indi
lo ritroviamo a Pola (1199), mentre Parenzo ha ancora un gastaldo con
tre rettori.
Trieste continua ad avere gastaldi per tutto il secolo: il Ripaldo del
1139 ricompare dopo tredici anni, e un Vitale è gastaldo nel 1184 e
figura di nuovo tra coloro che giurano fedeltà a Enrico Dandolo, a nome
di Trieste nel 1202. E anche nel duecento si notano gastaldi, Mauro
(1233 e 1237) ed Ernesto (1257).
La Civitas.
Civitas, nella terminologia latina, è una società di uomini liberi,
organizzata a difesa in un singolo agglomerato urbano e ricavante i
mezzi di sussistenza dal breve contado circonvicino.
Nelle prime monete triestine si nomina soltanto il vescovo: TRIES E
PISCOP, come ad Aquileia soltanto il patriarca : AQUILEGIA.P.
L'uso del nome TRIESE, che, osservando bene la forma dell'ultima E, può
essere letto TRIESTE, prima dell'adozione del latineggiante TERGESTVM, è
documentato da queste antiche monete e forse da poche altre fonti.
Secondo A. Tamaro il «Chronicum Venetum», che è del X o dell'XI secolo,
porta la forma neolatina cioè italiana di TRIESTE, in una carta del 1106
si legge IN EPISCOPATO TRIESTINO, nell'anno 1115 compare il nome di
persona TRIESTO e Santa Maria de TRIESTO è detta l' «ecclesia maior» un
atto del 1172.
In epoca romana il nome della città, come si legge nelle lapidi, fu
sempre TERGESTE indeclinabile.
Nelle monete immediatamente successive alle prime, viene nominata anche
la CIVITAS TRIESTE, parallelamente alla comparsa sulle monete
patriarcali dell'iscrizione CIVITAS AQUILEGIA. Non succede così nella
vicina Gorizia, dove il nome della città è legato solo al titolo del
COMES e al nome di Lienz, né a Latisana, designata come PORTUM. A
Lubiana il nome della città definisce invece i denari: LEIBACENSES DE,
ma esistono anche esemplari con CIVITAS LEIBACVN. Venezia non è mai
Civitas nelle sue monete: il nome della città è sempre predicato del
titolo dogale.
La CIVITAS è ricordata dalle monete aquileiesi fino al 1256, cioè per
l'ultima volta nelle monete di Gregorio con il titolo di Electus, prima
della sua consacrazione episcopale. A Trieste, invece, l'uso continua
ancora all'epoca del vescovo Ulvino de Portis (1282-1285), mentre non c'
è più nei denari di Rodolfo (1302-1320), che si fregia del titolo di
TERGESTINUS, come AQUILEGENSIS si nomava il Patriarca fin dall'epoca di
Raimondo (1273-1298). Quale significato ha il riconoscimento,
contemporaneo alla corte patriarcale e nella curia triestina,
dell'esistenza della rispettiva CIVITAS? Quale la permanenza di questo
riconoscimento a Trieste più a lungo che in Aquileia? Innanzitutto è
prova della stretta interdipendenza iniziale tra le due monetazioni, ma
nel contempo mostra che Arlongo vescovo di Trieste dal 1254 al 1280
eredita, dal periodo di coniazione comunale, una regia monetaria più
autonoma, meno strettamente legata alla patriarcale. In secondo luogo
testimonia la considerazione del Patriarca e del Vescovo per l'insieme
dei cittadini, dei quali è presupposto in tal modo il consenso, anche
nell'iniziativa monetaria che pure era, come abbiamo visto, finalizzata
anzitutto ali' accrescimento delle risorse finanziarie del sovrano.
Qui occorre una nota di carattere filologico, che andrebbe sviluppata in
altra sede. Con una frequenza tale da non permettere di pensare che sia
frutto di errore, il nome di Trieste è scritto, sulle monete dei tempi
più antichi: ATRIESE. Atria, da cui il mare Adriatico, è una parola che
deriva da atrium, che significava in dialetto italico un luogo ove si
spandevano le acque, cosicché ATRIA veniva ad indicare la città di
fondazione tusca che si trovava alle foci del Po. ATRIESE potrebbe
essere espressione del desiderio di legare il nome di Trieste al nome
del mare Adriatico, producendo anche nell'etimo un'affermazione
d'italianità d'origine che pare si sentisse necessaria già nel 1200.
Gli eventi in ordine
cronologico.
Rapporti con Venezia, con le città istriane e con il Patriarca di
Aquileia. Riassumo in un elenco cronologico i principali avvenimenti,
inserendovi una tavola sinottica dei vescovi (TS ), dei patriarchi
(°AQ°), dei conti di Gorizia (-GO-), dei dogi veneziani (:VE:), dei
papi(+RO+) e dei re e imperatori (*IM*).
902 Diploma di Berengario - Bonomo
documento I 948 Diploma di Lotario - Kandler.
1040 Conferma di Enrico III - Bonomo documento
II 1050 Donazione al vescovo Erberto - Bonomo
documento III
-GO- 1090-1149 Mainardo I e Engelberto I 1115 Donazione al vescovo Hartuico - Bonomo
documento IV
:VE: 1130-1148 Pietro Polani doge 36°
°AQ° 1132-1161 Pellegrino I von Sponheim
TS 1135-1145 Detemaro 1139 Concordio per la definizione di confini -
Bonomo documento V 1142 Conferma al vescovo Detmaro - Bonomo documento
VI
*IM* 1144-1152 Corrado III di Svevia
+RO+ 1145-1153 Eugenio III Bernardino Pagnanelli 1145 Capodistriani e Isolani prestano al Doge
solenne giuramento di «fidelitas».
Nel
dicembre dello stesso anno i Polesi prestano analogo giuramento.
:VE: 1148-1156 Domenico Morosini doge 37° 1148-1152 Patti di sottomissione a Venezia di alcune
città istriane.
Guerra tra il vescovo di Trieste Wernardo e le città istriane per le
decime dovutegli e rifiutategli da Muggia,
Capodistria, Isola, Pirano e Umago. 1149 Conferma al vescovo Wernardo -
Bonomo documento VII
TS 1149-1186 Vernardo.
-GO- 1149-1187 Enrico I e Engelberto II 1150 Il doge Morosini si fregia , nel
patto di fedeltà di Parenzo, del titolo «totius Istriae inclitus
dominator».
*IM* 1152-1190 Federico I Barbarossa
+RO+ 1153-1154 Anastasio IV
+RO+ 1154-1159 Adriano VI Nicola Breakspeare
:VE: 1156-1572 Vitale II Michiel doge 38°
+RO+ 1159-1181 Alessandro III Rolando Baldinelli o Brandinelli
°AQ° 1161-1182 Ulrich II von Treffen
:VE: 1172-1178 Sebastiano Ziani doge 39°
:VE: 1178-1192 Orio Malipiero doge 40°
+RO+ 1181-1185 Lucio III Ubaldo Allucingoli
°AQ° 1182-1194 Gotifredo
+RO+ 1185-1187 Urbano III Umberto Crivelli
+RO+ 1187-1188 Gregorio VIII Alberto de Morra
TS 1187 Enrico Odorico da Treviso
TS 1187-1190 Liutoldo da Duino
-GO- 1187-1220 Mainardo II e Engelberto III
+RO+ 1188-1191 Clemente III Paolo Scolari 1190 Trieste promette sottomissione a
Venezia, ma non
TS 1190-1199 Volscalco
*IM* 1191-1197 Arrigo VI
+RO+ 1191-1198 Celestino III Giacomo Boboni-Orsini
:VE: 1192-1205 Enrico Dandolo doge 41 ° 1194-1202 Creazione del Grosso Veneziano.
°AQ° 1195-1204 Pellegrino II von Dornberg
*IM* 1198-1218 Ottone IV di Brunswick
+RO+ 1198-1216 Innocenzo III Lotario dei Conti di Segni
TS 1199-1201 Enrico pretendente
TS 1199-1212 Gebardo 1202 I triestini, temendo più grave
punizione, mandano a Pirano una commissione per invitare il doge Enrico
Dandolo a Trieste. Il doge ivi si trovava con una flotta poderosa di
navi, vascelli e galee e moltitudine di militi e fanti pronto a salpare
per quella IV crociata che porterà alla fondazione dell'Impero Latino e
della supremazia veneziana in Levante. A
Trieste lo accolgono con grandi onori e gli giurano fedeltà.
°AQ° 1204-1218 Wolfker von Erla
:VE: 1205-1229 Pietro Ziani doge 42° 1209 Infeudazione (dieta di Augusta)
dell'Istria al patriarca di Aquileia.
1210 Patti tra il patriarca Volchero e il
Comune di Pirano.
TS 1213-1230 Corrado Tarsot da Cividale
+RO+ 1216-1227 Onorio III Cencio Savelli
°AQ° 1218-1251 Berthold von Andechs
*IM* 1220-1250 Federico II di Svevia
-GO- 1220-1258 Mainardo III e Alberto I 1220-1230 Tra le diverse città costiere
dell'Istria si stringe una vera lega, l' «universitas Histriae» con a
capo un veneziano, Tommaso Zeno 1223 Arbitrato tra Comune e Ugo di Duino
- Bonomo documento VIII
+RO+ 1227-1241 Gregorio IX Ugolino dei Conti di Segni
:VE: 1229-1249 Jacopo Tiepolo doge 43 °
TS 1231-1233 Leonardo
TS 1233-1254 Volrico de Portis da Cividale
TS 1233-1238 Giovanni, nominato dall'Imperatore 1223 Patti tra Venezia e Trieste 1238 A conclusione di lunga ribellione,
pace tra Patriarca e Capodistria che gli si sottomette, salvi i diritti
acquisiti dai veneziani sul porto.
+RO+ 1241 Celestino IV Goffredo Castiglioni 1241 Conversione di due pranzi in somma di
denari - Bonomo documento IX 1242 Pola ribelle ai veneziani viene
messa a ferro e fuoco. Sconfitta, subisce l'anno seguente umiliante pace
a Rialto.
+RO+ 1243-1254 Innocenzo IV Sinibaldo Fieschi
:VE: 1249-1253 Marino Morosini doge 44°
*IM* 1250-1254 Corrado IV
°AQ° 1251-1269 Gregorio di Montelongo
:VE: 1253-1268 Ranieri Zeno doge 45° 1253 Vendita di privilegi al Comune -
Bonomo documento X
+RO+ 1254-1261 Alessandro IV Rainaldo dei Conti di Segni
TS 1254-1281 Arlongo da Voitsberg 1254 Trieste ha un podestà veneziano.
Guerra tra Capodistria e Trieste, Venezia interviene e fa da mediatrice.
TS 1255 Guarnerio da Cuccagna da Cividale
-GO- 1258-1304 Mainardo IV e Alberto II
+RO+ 1261-1264 Urbano IV Giacomo Pantaleon 1264 Valle si dà ai veneziani, il
Patriarca la recupera.
+RO+ 1265-1268 Clemente IV Guido di Folquois 1266 Rovigno si dà ai veneziani, per
breve." 7 1267 Montona si dà ai veneziani, per
breve. Capodistria muove contro Parenzo per assoggettarla, Patriarca
Gregorio di Montelongo catturato dalle masnade del conte di Gorizia e
imprigionato. Si rafforza grandemente il potere del Conte di Gorizia in
Istria. Intimorita, Parenzo, prima tra le città istriane, si dà ai
veneziani definitivamente e passa sotto la sua signoria.
*IM* 1268 Corradino di Svevia
:VE: 1268-1275 Lorenzo Tiepolo doge 46° 1268 L'Istria tumultua. Capodistria
piglia e distrugge il castello di Montecavo, assalta Castelvenere e
Rovigno. I veneziani intervengono, pigliano Montecavo e lo restaurano,
pigliano Capodistria. 1269-1273 Anarchia e crisi gravissima del
Patriarcato di Aquileia, dopo la morte di Gregorioe prima dell' elezione
di Raimondo della Torre. L' influenza veneziana in Istria si rafforza
per il timore dei liberi comuni di cadere nelle mani dei conti goriziani.
1269 Umago si dà ai veneziani. 1270 Cittanova si dà ai veneziani.
+RO+ 1271-1276 Gregorio X Tebaldo Visconti 1271 San Lorenzo si dà ai veneziani.
*IM* 1273-1291 Rodolfo I (IV) d'Asburgo
°AQ° 1273-1298 Raimondo della Torre 1273 Capodistria si dà ai veneziani,
senza effetto.1 24 1274 Guerra in Istria fra Patriarca e
veneziani; scissure fra Patriarca e conte Alberto d'Istria; pace e
concordanza. Capodistria e Trieste si ribellano ai veneziani.
:VE: 1275-1280 Jacopo Contarini doge 47°
1275 Patriarca Raimondo e conte Alberto
riconciliati si collegano contro Capodistria. 126
+RO+ 1276 Innocenzo V Pietro di Champigny
+RO+ 1276 Adriano V Ottobono Fieschi
+RO+ 1276-1277 Giovanni XX detto XXI Pier Giuliani 1276 Le città istriane ad istigazione dei
veneziani tentennano contro il Patriarca, Montona riconosce il
Patriarca, Pola lo ripudia, il Patriarca tenta inutilmente di prender
Pola. 127
+RO+ 1277-1280 Niccolò III Gian Gaetano Orsini 1277 Novelle rotture fra Patriarca e
conte Alberto e novella pace. Patriarca Raimondo prepara spedizione
nell'Istria tumultuante, per le nomine di Podestà che vuol far da sé. 1278 Lega tra Patriarca e conte Alberto
per sottomettere l'Istria patriarchina. Breve guerra, il Patriarca
trasporta la sua corte in Albona e Pietrapelosa. Capodistria ostile al
Patriarca, si collega col conte Alberto, collegata cogli Isolani tenta
pigliare Parenzo. Capodistria sceglie a podestà il conte Alberto, che si
collega al Patriarca, fa pace coi veneziani, abbandona Capodistria che
fa da sé. Il Conte recupera Capodistria, assalta San Lorenzo, Parenzo e
Montona. I veneziani assaltano e pigliano Capodistria, atterrano le mura
da Porta San Martino a Porta Bossedraga, costruiscono il Castel Leone.
Montona si dà ai veneziani. 1279 Patriarca Raimondo assalta Pirano,
viene a componimento. I veneziani vengono all' assalto di Trieste, il
Patriarca la soccorre. L' Istria vuol darsi ai veneziani, conte Alberto
restituisce a questi San Lorenzo (per breve) e fa pace.
:VE: 1280-1289 Giovanni Dandolo doge 48° 1280 Guerra fra Patriarca e veneziani per l'Istria.
+RO+ 1281-1285 Martino II detto IV Simone de Brie o Mompiti
TS 1281-1285 Ulvino de Portis 1282 Scomunica del Patriarca contro gli
usurpatori delle terre patriarchine. Isola e San Lorenzo si dànno ai
veneziani. Discordie tra Patriarca e conte Alberto, composte da Mainardo
di Gorizia e da Gherardo da Camino. I veneziani assaltano Trieste. Pace
tra veneziani, Patriarca, Conte d'Istria e Trieste. 1282 Trieste consegna al vescovo Ulvino
il castello di Montecavo, il Vescovo promette di consegnarlo al
Capitolo. 1283 Pirano si dà ai veneziani. Patriarca
Raimondo fa lega con il Conte d'Istria, con Trieste e Muggia, coi
padovani, coi trevisani contro i veneziani. Il Conte d'Istria capitano
generale.
Capodistria presa. Trieste presa dai veneziani, fa pace umiliante,
atterra le mura verso mare, dà ostaggi, paga i danni e consegna le
macchine di guerra per venire abbruciate sulla piazza di San Marco.
Rovigno si dà a Venezia. La «guerra Triesti» (Vergottini pag. 122 nota
27) continuerà fino al 1291, con un'interruzione 1285-87.
1284 I veneziani pigliano l'isola alla
foce del Timavo che era bocca del porto, costruiscono fortilizio cogli
avanzi di antica lanterna, ne cangiano il nome da Belguardo in Belforte.
1284 (31 ottobre). Creazione del Ducato
d'oro veneziano.
TS 1285 Giacomo da Cividale, non confermato
TS 1285-1299 Brissa di Toppo 1285 Il Patriarca, i veneziani, il Conte
d'Istria e Trieste fanno pace, che non dura, ed è causa di nuove
questioni. 1286 Nuove trattative di pace.
Compromesso in giudici arbitri.
1287 Istriani e triestini si ribellano ai
veneziani, ritornano al Patriarca. I veneziani ripigliano Capodistria.
L'esercito del Patriarca muove verso Trieste, poi verso Capodistria, e
verso Montecavo che è preso; manca di viveri, retrocede. I veneziani
ripigliano l'offesa, pigliano Montecavo, battono i patriarchini. Trieste
resiste all'assedio dei veneti. Muggia presa (29 maggio).
+RO+ 1288-1292 Niccolò IV Girolamo Masci 1288 Muggia presa dai veneziani, si dedica a
loro, ripudiando il Patriarca. Papa Nicolò IV esorta
i veneziani a non molestare il Patriarca per le sue ragioni in Istria.
:VE: 1289-1311 Pietro Gradenigo doge 49°
1289 Il Patriarca torna a tentare la sorte delle armi, in colleganza al
Conte d'Istria, raduna in Monfalcone 50.000 pedoni e 5.000 cavalli, e
viene all'impresa del forte di Romagna, da cui i veneziani assediano
Trieste. Il Conte abbandona il Patriarca, il Patriarca si ritira. Torna
all'assalto, i veneziani sono costretti ad abbandonare il castello loro,
Trieste è liberata. Tregua fra Patriarca, triestini e veneziani.
Compromesso mediato da papa Nicolò IV. Trattative. 1290 Altre trattative, cui partecipa il
Conte d'Istria. Nuove rotture, i veneziani sono battuti dal
Patriarca, dal Conte d'Istria e dai triestini, capitanati dal Conte
d'Istria. 1291 (11 novembre, Treviso) pace tra
veneziani da una parte e Patriarca Raimondo, conte Alberto «et comune et
homines Tergesti» dall'altra, sotto l'arbitrato e la promessa
mediazione, remunerata in caso di lite, di papa Nicolò IV. I veneziani
dànno una prima base giuridica globalmente a tutte le loro occupazioni
istriane. Trieste si emancipa, ed istituisce Consiglio di 180 a reggere
il Comune; viene a lei restituito Montecavo per darlo ai Vescovi. 1291 Enrico, conte di Gorizia podestà a
Trieste.
*IM* 1292-1298 Adolfo di Nassau
+RO+ 1294 Celestino V Pietro da Morone
+RO+ 1294-1303 Bonifacio VIII Benedetto Caetani 1295 Concessione di diritti al Comune -
Bonomo documento XII 1295 Il Comune di Trieste acquista
temporaneamente durante la vita del vescovo Brissa di Toppo «officium
gastaldionis, cruentam et lividam et regalia». 1295 Concessione del Castello di Moccò al
Comune - Bonomo documento XI 1295 Bolla di conferma di diritti sul
vino - Bonomo documento XIII 1296 Scambio di decime tra Muggia e San
Canziano - Bonomo documento XIV 1296-1307 Tentativi del Patriarca di ottenere dal Papa, giusta
gli accordi di Treviso, sentenze arbitrali per salvaguardare i suoi
diritti in Istria.
*IM* 1298-1308 Alberto I d'Asburgo
°AQ° 1299-1301 Pietro Gera degli Egizi
TS 1299-1300 Giovanni della Torre
TS 1300-1302 Enrico Rapicio
°AQ° 1302-1315 Ottobono Robari
TS 1302-1320 Rodolfo Pedrazzani da Robecco
+RO+ 1303-1304 Benedetto IV detto XI Nicola Boccasini Conferma di
strumenti dal Vescovo Rodolfo - Bonomo doc. XV
-GO- 1304-1323 Enrico II e Alberto IV
+RO+ 1305-1314 Clemente V Bertrando de Got o Gotone 1307 (12 ottobre) Cessione perpetua a
Venezia di tutti i diritti e le giurisdizioni del Patriarca nell'Istria
occupata dai Veneziani. L'Istria ora divisa in tre domini: veneziano,
patriarchino e goriziano.
*IM* 1308-1313 Arrigo VII di Lussemburgo
:VE: 1311-1312 Marino Zorzi doge 50° 1311-1313 Enrico, conte di Gorizia podestà a Trieste.
:VE: 1312-1327 Giovanni Soranzo doge 51° 1313 Il doge di Venezia protesta contro il Comune di Trieste per
le ambagi di quest'ultimo nel prestar giuramento di fedeltà. La famiglia
Ranfi a Trieste viene sterminata.
*IM* 1314-1347 Ludovico IV il Bavaro
*IM* 1314-1322 Federico III d'Asburgo, competitore 1314 Spettanze della Chiesa Triestina sul
feudo Sipar - Bonomo documento XVI
+RO+ 1316-1334 Giovanni XXII Giacomo Caturcense d'Euse
°AQ° 1316-1318 Gastone della Torre
°AQ° 1319-1332 Pagano della Torre 1320, 1322 Enrico, conte di Gorizia
podestà a Trieste. 1329 Sul feudo Sipar della Chiesa
Triestina - Bonomo documento XVII 1333 Investitura di feudi in Istria da parte di Pace da Vedano -
Bonomo documento XVIII.
Sintesi "il Duecento a Trieste". La storia di Trieste nel Duecento risente naturalmente della sua
posizione geografica. Affacciata sull'Adriatico essa è oppressa alle
spalle dal dilagare di marchesi, baroni e castellani tedeschi. Essi si
disseminano sul Carso devastato dai Magiari, spingendo due tentacoli sul
mare, l'uno al castello di San Servolo (a oriente oltre Zaule), l'altro
a quello di Duino. Trieste è baluardo di italianità in un nuovo mondo
estraneo, esotico ed eterogeneo che si forma alle spalle della città
isolata. E' un baluardo che vuole però mantenere la sua indipendenza da
Venezia, che sempre più l'accerchia risalendo le coste adriatiche. Cerca
così l'appoggio del Patriarca, cui è legata per il vincolo di
vassallaggio del suo Vescovo.
Patriarcato e parlamento friulano, come l'episcopato e il comune
triestino sono realtà politiche ed economiche italiane nel XIII secolo
unite e assimilate nella lotta per mantenere la propria integrità
territoriale e culturale, difendendosi da tedeschi e ungheresi a
nordest, dai veneziani a sudovest.
Attorno al 1400 entrambe perderanno molto della loro identità: Trieste
aggregata all'Austria nel 1382, il Patriarcato conquistato dei veneziani
nel 1420. I secoli di dominazione successiva tenderanno, anche per
cosciente proposito dei dominatori, a far cadere in oblio e a cancellare
le tracce della complessa, tenace, a volte gloriosa vitalità civile di
queste due organizzazioni statali del Duecento italiano ai confini
nordorientali. Il loro destino si diversificò poiché il Friuli venne
assorbito, si fuse e divenne parte integrante di un suo remoto rampollo,
lo Stato veneziano. Trieste invece continuò, in modo nuovo ma con
immutato vigore, la sua più che mai solitaria battaglia per mantenere
integrità culturale, lingua italiana, autonomia comunale, immediato e
indipendente rapporto con il Sovrano.
Qual era la composizione urbanistica della Trieste medievale?
C’è un affresco dell’abside di San Giusto che raffigura
il Santo con il modello della città di Trieste in mano. Questo modello
rappresenta in assoluto la prima raffigurazione di Trieste. Infatti la
più importante testimonianza iconografica tramandataci, nonché la prima
e quindi la più antica raffigurazione di Trieste, è quella fornita da un
affresco della cattedrale di S. Giusto. Databile attorno al 1370, è
attribuito al Secondo Maestro di San Giusto e rappresenta il Santo
Patrono con in mano il modellino della città circondata da possenti mura
merlate (fig.1). Tale rappresentazione faceva parte di un ciclo di
affreschi, che in origine ornavano l'abside della navata di San Giusto,
ricoprendo un analogo ciclo duecentesco (fatto quindi dal Primo Maestro
di San Giusto). Questi furono strappati e collocati poi su pannello
nella cappella di San Giovanni (o Battistero), dove oggi sono custoditi
e visibili.
(Fig. 2)
Pur essendo un modellino e nonostante la prospettiva molto
approssimativa, che dava maggior risalto agli edifici principali senza
badare alle reali proporzioni, l'autore dimostra alla fine una
particolare cura al dettaglio. Sono, infatti, ben riconoscibili in alto
(fig. 2): gli stipiti del portone di entrata di S. Giusto con la stele
della famiglia romana dei Barbi, il rosone della facciata, gli archetti
rampanti sotto le falde del tetto, l’edicola del campanile con la statua
di S. Giusto, la chiesa di San Michele al Carnale (1328) con l’entrata
alla cripta, il Monastero delle Monache della Cella (1265), il Palatium
episcopatus o vescovado (1187), il campanile con il tetto appuntito,
ecc. Il tutto corrisponde a una descrizione urbanistica ancora valida ai
giorni nostri.
In questo dipinto le antiche mura di Trieste sono dotate di torri (qui
son disegnate dodici), bastioni e porte, e racchiudono la città
all'interno di uno spazio triangolare con vertice in cima al colle e
base al mare. L'affresco ci tramanda anche l'aspetto strutturale delle
mura: la gran parte delle torri, escluse quelle con complessi
fortificati sopra le porte, vengono rappresentate come "scudate", cioè
chiuse solo da tre lati. La cortina interna è aperta, mentre i cammini
di ronda, costruiti in pietra, poggiano su archi di sostegno o
contrafforti interni ampi e molto solidi, con la merlatura guelfa a
proteggere il camminamento e i ballatoi.
La presenza di torri quadrate scudate, cioè aperte all’interno,
rappresentava allora il modo più semplice ed elementare per la
costruzione di una torre, facile da costruire ma soprattutto ricostruire
in caso di assedio nemico. Infatti, in caso di parziale distruzione, per
esempio dopo un bombardamento da parte delle catapulte nemiche,
diventava facile ricostruirla, con il favore dell’oscurità della notte,
utilizzando le pietre d’arenaria anche delle vicine case distrutte,
dando così la precedenza alla ricostruzione delle mura e delle torri che
rappresentavano in assoluto la prima e più importante difesa civica. Al
contrario la presenza di una torre cilindrica avrebbe reso molto
problematica, per ovvi motivi strutturali, la ricostruzione rapida della
torre. La mancanza poi della parte interna di queste torri, oltre che
rendere per ovvi motivi ancora più facile la ricostruzione del
manufatto, permetteva anche di scoprire subito il nemico che
eventualmente fosse riuscito a scavalcare le mura e si fosse installato
in una torre; avvistato facilmente, sarebbe stato subito catturato.
(Fig. 3) Le tre Torri del Porto e il Palazzo Comunale
L’artista dimostra un’attitudine così realistica da far considerare
questa rappresentazione della città un documento iconografico unico e
molto attendibile. Infatti, anche se gli edifici della parte inferiore
dell’affresco non esistono più, il particolare realismo, dimostrato
nella parte superiore, ci permette di considerare praticamente certo il
racconto visivo riguardante le tre Torri del Porto e il Palazzo Comunale
(fig. 3). Ovviamente non è disegnato il castello di S. Giusto, la cui
costruzione inizierà appena nel 1470.
Il fronte del porto - lato mare – venne infatti munito di un poderoso
sistema difensivo. In un tratto così breve s’innalzavano ben tre
possenti torri fortificate, la cui funzione era prevalentemente quella
di difesa di una zona particolarmente vitale per l'economia cittadina:
il porto. Esse, inoltre, rappresentavano un colpo d’occhio di grande
effetto per chi giungeva in città via mare.
Esse erano:
• a sinistra: la Torre della Beccheria;
• quella di mezzo o centrale: Torre del Porto o torre del Mandracchio,
con l’apertura a mare;
• a destra: la torre Fradella o della Confraternita.
(Fig. 4) Sigillo Trecentesco di Trieste
Per la potenza, l'importanza e la notorietà, le tre torri vennero
utilizzate, come immagine stilizzata, assieme all’alabarda, quale
Simbolo (oggi si direbbe “logo”) della città stessa: il Sigillo
Trecentesco di Trieste (fig. 4).
Infatti nel sigillo trecentesco della città sono rappresentate, in forma
“stilizzata”, le tre torri con porta (Beccheria-Porto-Fradella). La
Torre del Porto appare più alta delle altre due, i merli sono alla
guelfa, le porte chiuse. Il disegno ai lati della torre di due alabarde
vuole rafforzare il significato simbolico del sigillo.
(Fig. 3) Le tre Torri del Porto e il Palazzo Comunale
Dietro alle tre torri del porto s’intravede (fig. 3) il primo palazzo
duecentesco del municipio o del comune (palacium comunis), nato
dall’emancipazione della città dal dominio vescovile iniziata nel 1252 e
completata, con la cessione al Comune di tutti i diritti sulla città,
nel 1295 (Kandler, Storia del Consiglio). In quell’anno la città sentì
pressante il desiderio di avere un proprio Palazzo Comunale e di
reggersi da sé con propri Statuti.
La sua struttura la conosciamo proprio dall'affresco trecentesco nella
cattedrale dì S. Giusto; sappiamo che venne costruito in due tempi,
tant’è che in documenti antichi si trovano citati un palazzo “vecchio” e
un palazzo “nuovo”, a sottolinearne la diversa epoca di costruzione.
L'edificio a sinistra della torre, infatti, rappresenta la parte
vecchia, duecentesca, del palazzo, cioè costruito attorno al 1250, di
stile romanico, con monofore ad arco a tutto sesto, cioè finestre a
semicerchio a una sola apertura di luce; in quello di destra, più nuovo,
finito all’inizio del '300, si caratterizza per le eleganti bifore
gotiche, ad arco acuto.
Nel 1295, appena acquistata la piena autonomia, fu alzata al fianco del
primo edificio una torre, autoritario simbolo del Libero Comune di
Trieste, con un orologio, una loggia e la campana dell’“arrengo” che
serviva a richiamare i patrizi alle riunioni del Consiglio comunale. In
seguito vennero aggiunte anche due figure bronzee che scandivano le ore
e che furono soprannominati del popolo, per il loro colore, "i Mori di
piazza".
(Fig. 5). Il Palazzo Comunale
Il palazzo sorto su un terreno rubato al mare da progressivi
interramenti, aveva la facciata principale rivolta verso l’interno,
sulla Piazza Grande (fig. 5).
Era dotato di porticato e logge date in affitto dal Comune (del resto
come si fa ancora oggi) per ospitare le botteghe di panettieri e
merciai. La demolizione del primo palazzo comunale avvenne nel 1375,
quando i veneziani intrapresero la costruzione del castello Amarina,
costruito allora nell’area compresa tra il Palazzo Comunale e le mura
con le tre torri del porto.
Guardando l'attuale palazzo comunale, più familiarmente chiamato
“Municipio”, costruito nel 1875 dall’arch. G. Bruni, colpisce la
rassomiglianza che si è voluto mantenere col primo Palazzo Comunale: la
presenza di due corpi architettonici ai lati di una torre centrale, la
presenza di una loggia, l’orologio e le campane con i due Mori. In pieno
irredentismo tale scelta voleva, ricordando il primitivo palazzo
comunale e il Libero Comune, ricordare in particolare quel periodo di
libertà, autonomia, indipendenza, temi da sempre molto cari ai
triestini. (
La città nel 1731,
dopo il primo vero censimento effettuato, conta 4.144 abitanti, compresi
108 ebrei e 301 forestieri residenti a Trieste.
L'aspetto politico
e sociale della città è ancora legato alla tradizione di un passato
municipalistico. Gli statuti del 1550 dureranno con progressivi
mutamenti e limitazioni fino al 1812.
Sono sempre le Casade che eleggono i giudici ed i rettori che
rappresentano la massima autorità politica della città; nominano i
vicedomini, scelgono il giudice del maleficio (penale) e quello del
civile, provenienti sempre da città più grandi nelle quali vi sono
centri di studi giuridici; nominano i camerati (ragionieri del comune) e
il fonti-caro al quale è affidato l'approvvigionamento del grano.
Solamente la nomina del capitano è affidata all'autorità imperiale.
La legge degli Statuti è molto pesante, sia per reati di assassinio,
furto o rapina che per i reati più comuni.
L'attività economica si basa principalmente sulla produzione e il
commercio del
sale, che
viene poi trasportato nell'interno, nonostante la concorrenza dei veneti
e dei muggesani, che a volte fa scoppiare aspre contese (specie per il
possesso della salina di Zaule).
Le campagne intorno sono tutte coltivate a orti, vigneti, frutteti e
oliveti; questi prodotti vengono tutti consumati in città.
La carne di maggior consumo è quella di maiale poiché il manzo è
riservato ai ceti più abbienti ed è molto più costoso. Prosperosa è la
pesca.
I cittadini depositano spesso il letame sulla pubblica via e questo dà
luogo a numerose e ricorrenti malattie infettive (vaiolo e colera).
La lotta tra il potere imperiale e la libertà civica comincia
paradossalmente nel momento in cui l'Austria dà avvio a quella profonda
trasformazione economica che porterà a livelli di emporio
internazionale.
All'inizio del XVIII secolo, ammesso che
si possa osservarla dall'alto, la città si presenta sotto forma di
cuore, con la punta rivolta verso la cattedrale di S. Giusto. Tutta
racchiusa, come una noce, nelle forti e possenti mura grigie e turrite;
con in alto il castello, vano spauracchio dei turchi e con il mare che
le fa da specchio. Di sotto il porticciolo interno, costruito nel 1620
dal goriziano Giacomo Vintana e difeso dal molo della Bandiera;
nell'interno vi è un pullulare di barche con lunghe antenne svettanti
tra l'intrico del sartiame. Dopo il tramonto, quando vengono chiuse le
porte della città, una robustissima catena viene tesa tra i due moli
(quello della Bandiera e quello a gomito).
Nella parte bassa tra il Mandracchio e la porta di Riborgo, si stende la
plaga delle saline. Il principale collettore è il Canal Grande, o
Maestro, che riceve l'acqua dal torrente S. Pelagio il quale scende
dalla sorgente di S. Giovanni, anticamente sfruttata dai romani e che si
congiunge al torrente delle Sexfontanis. Altra fonte d'acqua dolce
indispensabile, alimenta il torrente di Colonia che si incanala nella
Valdirif (Valdirivo) e che muove l'unica ruota del Mulino piccolo,
ingrossato dalla fonte di S. Nicoforo, già detta della Zonta. Altra
acqua ancora scorre giù da Romagna e s'incanala nel fossato detto della
Jepa.
Il Canale del Vino o Canal Piccolo, dove si inoltrano le imbarcazioni da
carico, taglia l'ultimo tratto delle saline all'esterno delle mura di
Malcanton e si spinge dentro la città attraverso la Portizza. Dunque il
commercio del vino si sviluppa nella Piazza Piccola, non lontano dalla
chiesa della Madonna del Rosario. Un ponte sul canale assicura il
passaggio lungo il pomerio interno alle mura.
Davanti al Mandracchio si apre la porta della torre del porto, detta
anche dell'Orologio. Sotto l'arcata della torre un cesendolo illumina
una pala della Beata Vergine con i Santi Giusto e Sergio, che sarà
sostituita un secolo più tardi con un'altra immagine venerata della
Madonna, detta Madonna del porto. Qui, ogni sera, dopo il colpo di
cannone che metteva fine alla giornata di lavoro, i marinai pregano e
recitano il rosario tutti riuniti.
Due automi di bronzo segnano i quarti e le ore dell'Orologio, che ha due
quadranti uno interno alla piazza e l' altro esterno, sul porticciolo.
Il popolino ha dato loro un nome – Michez e Jachez – che durerà nel
tempo e forse trae origine dal ricordo di due severi giudici che nel
Medioevo facevano leggere al banditore le loro terribili sentenze a
suono di campana. Sul molo Bandiera si erige maestosa la torre della
Beccheria, dall'altra parte invece domina la torre Fradella.
Dunque le torri del porto sono tre. La cortina prosegue lungo la
spiaggia dove ha sede lo squero della Confraternita di S. Nicolò dei
Marinai, dal quale prenderà nome la prossima torre. La pescheria, che
prima si trovava sulla riva del Mandracchio, si è spostata verso Cavana
da dove l'accesso è facilitato. Oltre ancora troviamo il Fortino, un'
opera di difesa posta al gomito delle mura che da qui salgono verso la
porta di Cavana dove si trova un ponte levatoio. La spiaggia è bassa e
frastagliata e riceve le acque del Fontanone; la zona si presta al
ricovero delle barche. Si costruiscono dei bacini coperti da canne di
paglia che vengono denominati cavane.
Nei pressi del Fontanone, alimentato dall'acquedotto romano, vi è un
grosso bastione e più in su il Barbacane o porta di S. Michele. Salendo
la valle di S. Michele, dove vi è una strada, giungiamo alle mura del
castello, dove non ci sono più porte ad eccezione di alcune segrete di
sortita per l'uscita eventuale di pattuglie in caso d'assedio.
Dall'altro lato della città abbiamo varie porte ben difese dopo la porta
del Vino o Portizza, vi è quella delle Saline, quella di Riborgo
protetta da due torri e dal ponte levatoio con le statue protettrici di
S. Filippo e di S. Giacomo. Più in alto un'importante porta s' innalza:
è quella di Donota. Poi c'è la torre–scudo detta Cucherna (di tutte la
sola superstite che possiamo ancora vedere) alla quale venivano
appiccati i traditori della patria. Tra questa e il castello si erge
un'ulteriore torre detta delle Monache, proprio perché nel 1369 le
Benedettine possedevano una vasta proprietà sotto il castello e lì vi
era il loro convento. Le mura sono ancora quelle restaurate nel 1511
dopo il terribile terremoto giunto dal Friuli che fece crollare anche le
torri del porto.
Fuori dalle mura, la vasta campagna
sparse di casupole è coltivata a orti, vigneti e frutteti e a monte
delle saline vi è una strada che parte da Contovello e porta verso il
Friuli e la Carinzia passando sopra il torrente Roiano. Fuori dalla
porta di Riborgo invece la confraternita di S. Nicolò dei Marinai è
patrocinata dal Comune che riconosce benefici ai marinai inabili, vedove
e orfani. S. Nicolò e la sua proprietà finiscono nella strada che porta
a S. Giovanni dove vi è l'ospedale dei lebbrosi, che poi scomparirà per
fare posto alla piazza Carlo Goldoni.
Lungo la strada per Lubiana ci sono le concerie gestite dagli ebrei e la
chiesetta di S. Apollinare con il piccolo cimitero che raccoglie i
defunti di campagna. Il cimitero israelitico invece si trova oltre la
porta di Donota, dove il monte sale verso il castello. Di là dal
castello vi sono chiese e cappelle ricordate poi nei toponimi di piazze
e vie successivamente sorte. La riva di sinistra è denominata strada di
S. Pelagio dalla chiesetta romanica posta alle sorgenti del corso
d'acqua nella valle di S. Giovanni, che è tuttora esistente.
Interessante è la zona fuori dalla porta Cavana e la località dei
Santissimi Martiri, dove si adagiano alcune piccole imbarcazioni di
pescatori ed il convento dei padri cappuccini con la chiesa di S.
Apollinare, demolita nel 1787. Di fronte all' odierno palazzo Vicco,
sede della curia vescovile, vi è la chiesa dell'Annunziata e l'ospedale
delle donne. A monte la chiesa della Madonna del Mare con la torre e
l'antichissimo cimitero dove si vuole sia stato sepolto S. Giusto.
Importante è anche la chiesa della Beata Vergine del Soccorso, che il
popolo chiama S. Antonio Vecchio nell'odierna piazza Hortis, dove allora
sorgeva il chiostro del convento e subito dietro il cimitero. La chiesa
era sede della confraternita delle Tredise Casade, ossia le famiglie
patrizie triestine chiamate anche con vena canzonatoria dal popolo
Confraternita del Moccolo, poiché i patrizi accompagnavano il Santissimo
nelle processioni solenni con una lunga cappa purpurea, lo spadino e il
cero in mano. Infine sulla destra dell'attuale via Torino, isolato nella
campagna sorge il convento di S. Giusto con l'ospedale per i pellegrini,
amministrato dai frati della Misericordia di S. Giovanni di Dio. Al
tempo sei sono le chiese, due gli ospedali e tre i cimiteri che
caratterizzano la zona fuori porta Cavana; lontana ed isolata sulla
spiaggia dell'altro versante vi è la chiesa di S. Andrea, già esistente
nel XII secolo e restaurata poi nel '600. Nel 1735 l' edificio sarà
circondato da un cimitero durante la guerra di secessione polacca,
quando molti soldati moriranno nel lazzaretto di S. Carlo. Trieste,
attraverso le stampe documenta lo sviluppo urbanistico della città dagli
inizi del Settecento alla fine dell'Ottocento, sulla scorta di un
importante lavoro di ricerche e di archivio. L'itinerario lungo due
secoli ha visto l'antico borgo di pescatori assurgere a dignità di
emporio e di unico sbocco sul mare dell'impero austroungarico. Da
un'immagine di città rinchiusa gelosamente nella cinta muraria (quindi
nelle sue istituzioni, nelle sue chiese, nella sua vita sociale), per
poi documentare con ricchezza ed esattezza il grande sconvolgimento
politico ed economico prodotto da Carlo VI con la concessione del
portofranco (1719). Alla crescita economica si accompagna
inevitabilmente il calo dell'autonomia, sicché Maria Teresa incontra non
pochi ostacoli da parte del patriziato nel suo lungimirante disegno di
"fondere il vecchio e il nuovo".
Nel primo
Ottocento la città conta ormai 65.000 abitanti, compresi i 5.000
contadini che gravitano nei dintorni e che giornalmente si riversano in
città per vendere verdure, frutta e ortaggi e per procacciarsi il
sostentamento quotidiano. Alcuni sono piccoli proprietari terrieri,
altri affittuari o semplicemente braccianti delle campagne e sono
chiamati con il nome generico di mandrieri. Essi si distinguono per il
pittoresco costume che portano (i giovani formano un corpo militare
speciale detto Milizia Territoriale) con la giubba corta e bordata di
vario colore, grossi bottoni di metallo, calzettoni bianchi e scarpe con
fibbia. Hanno il moschetto ed il loro ornamento più bello è un capello
in feltro a larga tesa alla guisa dei Lanzichenecchi.
Nei sobborghi
cerimonie fastose
Anche le donne del
contado si presentano piacevolmente con la testa avvolta di bianco, come
le donne della Carniola, però al posto dell'usuale cuffia imbottita si
sostituisce un leggero fazzoletto. Le maniche della camicia sono di fine
lana bianca e le calzature sono degli stivaletti di pelle nera
fortemente chiodati sia nella suola che nel tacco. La gente è abbastanza
alta, con un bel volto e, a differenza di come si parla in città, usa il
dialetto sloveno.
Molto pittoresche nella campagna sono le cerimonie nuziali: già parecchi
giorni prima delle nozze viene mobilitato l'intero vicinato dai
paraninfi (coloro che con bastoni fioriti e nastri bussano alle porte di
amici e parenti per partecipare l'invito a nozze). La sposa in abito
nuziale fa il giro delle case dei parenti già due giorni prima: essa ha
il corpetto scuro o rosso, le maniche e il copricapo bianchi e finemente
ricamati e la gonna ricca di nastri, infine una corona di fiori e nastri
intrecciati. La musica e i banchetti accompagnano sempre i matrimoni e
così anche i doni in denaro che vengono messi durante la cerimonia in un
dolce a ciambella detto buzzolà. Anche i più poveri festeggiano l'evento
con banchetti meno ricchi, ma nei quali il vino non manca mai. In città
le spose usano coprire il capo con un velo bianco e i viaggi di nozze
non sono ancora molto di moda. Nel 1833 un panorama della città mostra
il borgo teresiano ormai completato: esso ha inizio nella contrada del
Canal Piccolo e prosegue per piazza della Borsa e lungo la contrada del
Corso fino a piazza della Legna (ora piazza Goldoni).
Nasce il centro moderno
Da qui i confini
si spiegano lungo il torrente che scorre a cielo aperto, proveniente
dalla Stranga vecchia (piazza Garibaldi), attraversato da sette ponti e
che giunge fino alla caserma. Qui una contrada fiancheggia il canale
che, dopo un tratto coperto, si riapre nell'attuale via Ghega. Due dei
ponti principali sono uno sulla contrada della Wauxhall (via Roma) e
l'altro sulla contrada del Ponte Nuovo (via Trento).
Sorge una casa pubblica di beneficenza (Pio Istituto dei Poveri) e dalla
piazza del Macello si dà inizio alla contrada del Lazzaretto nuovo che
prosegue fino al torrente Roiano. La strada è fiancheggiata da un
porticato aperto verso il mare dove vi è la corderia Bozzini. Lo strano
nome della contrada Wauxhall deriva da un caffè concerto fondato nel
1786 in via Ghega, nella casa fronteggiante la contrada che porta questo
nome. La contrada della Jeppa (Geppa) si forma là dove il corso d'acqua
delle saline è ormai scomparso. In via Galatti sorge la contrada della
Pesa e nel centro dell'odierna piazza Vittorio Veneto vi è una fontana
che funge da abbeveratoio per quadrupedi. La Posta è sistemata nella
contrada della Caserma (via XXX Ottobre), ma prima si trovava
all'imbocco del Canal Grande; perciò esiste ora anche una riva delle
Poste (via Rossini). Dietro alla Dogana si apre il quartiere Panfili e
tra di loro c'è un grande spazio detto contrada dei Carradori (via
Trento). La contrada della Dogana sormonta il Canal Grande e arriva fino
al Corso passando per Ponterosso, mentre via Filzi è denominata contrada
per Vienna.
Le vie longitudinali sono: la contrada del Balderin (via Valdirivo), la
contrada di Carinzia (via Torrebianca), la contrada dei Forni (via
Macchiavelli), la contrada del Canal Grande (via Cassa di Risparmio), la
lunga contrada Nuova (via Mazzini) che va da piazza della Legna al mare,
e la contrada S. Nicolò. In corrispondenza della contrada di Vienna ha
inizio la nuova strada commerciale. In fondo al canale, nel 1849 verrà
consacrata la nuova chiesa di S. Antonio Taumaturgo, patrono del borgo
teresiano. In contrada S. Spiridione sorge la chiesa degli Illirici
(serbo-ortodossi). Il campanile di destra dà nome alla contrada del
Campanile, ora via Genova alta, che manterrà tale nome anche quando si
procederà alla demolizione dell'opera per difetti fondazionali.
Ponterosso come
la Concorde
Nella piazza
Ponterosso sorge una fontana a tre bocche, è alimentata dall'acquedotto
teresiano. La riva Carciotti prende il nome dal palazzo omonimo, opera
prestigiosa del triestino Matteo Pertsch. Più in là il tempio
greco-ortodosso costruito nel 1786 ed abbellito poi nel 1819 sempre da
Pertsch in forme classiche. La contrada laterale era detta dei Bottai
per le numerose botteghe dei bottai, che dopo la costruzione della
chiesa si chiamerà S. Nicolò.
Sta sorgendo inoltre il nuovo borgo franceschino tra la contrada del
Corono e quella del Molin Grande che corre al fianco del ruscello
proveniente da S. Giovanni. La parte superiore è tagliata dalla contrada
del Ronco, mentre sulla contrada del Coroneo è stato allestito un nuovo
pubblico lavatoio e un orto botanico.
Sulla passeggiata dell'Acquedotto (viale XX Settembre) nuovi edifici
sorgono nel borgo Chiozza e nella via Chiozza (via Crispi), terreno
donato al Comune da Carlo Luigi Chiozza, genovese che aveva un
saponificio nei pressi del Ponterosso. Parallele alla spina centrale
della contrada Chiozza corrono le contrade del Farneto (via Ginnastica)
e quella del Boschetto (via Slataper), al di là vi è l'aperta campagna e
il terreno della famiglia Conti sul quale nel 1833 sorgerà l'ospedale
Maggiore, progettato da Domenico Corti. Il borgo Maurizio si estende
dalla contrada del Tintore (via Tarabocchia) a quella del Solitario (via
Foschiatti), che raccoglie diverse piccole industrie: dalla fabbrica
della maiolica, alla concia dei pellami, e alla fonderia. Anche la zona
della Stranga Vecchia si va arricchendo di numerosi edifici.
Intorno al Mandracchio ci sono il nuovo teatro comunale e la Borsa, il
palazzo governatoriale, residenza dal 1776 del primo governatore di
Trieste, il conte Zinzendorf.
La piazza Grande è ora più larga con la porta sul Mandracchio,
attraverso la quale i triestini nelle afose sere estive vanno a prendere
il fresco sul lungomare. Sulla piazza dello Squero vecchio, dove sorgeva
la Confraternita di S. Nicolò è stato trasferito il mercato del pesce
che durerà sino al 1878, e poi si sposterà tra la via della Stazione e
la riva del Sale, fintantoché nel 1913 verrà eretto l'attuale edificio a
forma di chiesa detto S. Maria del Guato. Una doppia fila di belle ed
eleganti case è sorta anche in piazza Giuseppina (piazza Venezia), molto
alte e massicce intervallate dalla contrada della Sanità Nuova (via
Cadorna). La riva del Lazzaretto vecchio (via Diaz) prosegue verso lo
stabilimento contumaciale.
In periferia
ancora contrasti
Le zone
periferiche di Chiarbola sono ampiamente coltivate a vigneti, frutteti,
giardini e orti; vi è qualche grossa villa padronale e alcune case
rurali. Tra i monumenti più notevoli vi è la villa di Campo Marzio,
meglio conosciuta con il nome di Villa Murat, per essere passata in
possesso alla vedova del vicerè di Napoli. La villa venne demolita ai
giorni nostri per dar spazio ad una pileria di riso che venne poi
abbandonata e bruciata. Un'altra famosa villa è quella di Giovanni
Risnich nell'attuale piazza Carlo Alberto, demolita per far spazio alla
via Franca.
L'edificio di Anna Voinovich sta sul primo passeggio di S. Andrea e
guarda dall'alto della costa la spiaggia sottostante. La stupenda
costruzione dell'architetto francese Champion è la villa di Girolamo
Bonaparte (villa Necker). Sul colle, alla fine della contrada della
Sanza sta la Villa Economo, abbellita da quattro colonne e un timpano.
Sotto la Sanza di S. Vito le ville Budigna e de Dolcetti.
È questa la zona dove i ricchi vanno a villeggiare e i poveri coltivano
gli orti e i vigneti che si allineano floridi nei dintorni.
(A.D.)
Le mire
Austro-Tedesche su Trieste e sul Trentino
Hitler, già nel
1930, aveva detto al capo della Heimwehr austriaca, il principe di
Starhemberg, che Trieste doveva essere annessa alla Germania con
qualsiasi mezzo necessario; fu proprio il principe che l'aveva
raccontato a Mussolini, allora sostenitore dell'Austria contro le mire
annessionistiche della Germania. Quando, nel 1938, Mussolini aveva dato
via libera a Hitler per l'annessione dell'Austria (Anschluss), doveva
essere ben conscio di perdere ulteriore potere su Trieste. L'Anschluss,
annessione dell'Austria alla Germania nazista per formare la "Grande
Germania" era in conflitto con quanto emanato del trattato di Versailles
dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale. L'articolo 80 del 1919
vietò esplicitamente l'inclusione dell'Austria nella Germania; stesso
divieto fu ribadito dall'articolo 88 del trattato di
Saint-Germain-en-Laye. Il primo effetto concreto ed immediato dell'Anschluss
fu un maggior dirottamento del traffico austriaco dai porti adriatici
verso i porti tedeschi del Nord, sicché fu necessario un accordo
italotedesco, nel luglio 1939, per garantire ai nostri porti il 40% del
traffico del periodo prebellico.
Quando venne firmato il Patto d'acciaio tra l'Italia e la Germania, una
dichiarazione semiufficiale germanica parlava della restituzione delle
province originariamente tedesche del Trentino e di Trieste. Ci furono
diverse manifestazioni di protesta dei cittadini italiani residenti in
provincia di Udine e nella zona di Tarvisio. Nel Diario di Galezzo
Ciano, in data 9 settembre 1939, si legge che l'ambasciatore d'Ungheria
aveva comunicato a Mussolini come, a Vienna, si cantasse la canzone:
«Quello che abbiamo lo teniamo stretto e domani andremo a Trieste»; il
duce ne era rimasto molto scosso. Nello stesso diario, in data 23
dicembre 1939, viene riportato il resoconto di una conferenza tenutasi a
Praga, dove emergono le mire germaniche non solo sull'Alto Adige e
Trieste, ma per l'intera pianura padana. Il nostro ambasciatore a
Berlino,
conte BernardoAttolico,
aveva raccolto le stesse informazioni. Seppure tutto venne smentito da
Berlino, il discorso trova le sue fondamenta logiche in una intera
letteratura germanica. Tutto ciò avveniva prima che Mussolini entrasse
in guerra a fianco della Germania, quindi egli non ignorava, quale
sarebbe stato il destino di Trieste, comunque la guerra si fosse
conclusa. L'espansione germanica ai danni dell'Italia, ebbe altre
conferme durante la guerra. In data 18-19 novembre 1940, sempre Ciano
racconta come Hitler gli avesse detto d'essere stato sollecitato da
Horthy a discutere la questione di Trieste, ciò che avrebbe permesso al
Reggente ungherese di porre, a sua volta, delle pretese su Fiume; nel
1941 correvano voci su una prossima annessione di Tarvisio da parte
della Germania. Non dovette costituire meraviglia, quindi, per Mussolini
quanto avvenne nel Trentino e nella Venezia Giulia dopo 1'8 settembre
1943.
All'indomani della
firma di "Cassibile", nella contrada Santa Teresa Longarini di Siracusa,
il Governo Provvisorio italiano siglò alcuni accordi con gli alleati che
rimandavano la definizione dei confini orientali dello Stato al termine
della Guerra.
In risposta
all'armistizio, il 18 settembre i tedeschi occuparono militarmente ed
amministrativamente il nord-est italiano fondando la Adriatisches
Küstenland (comprendente anche i territori delle province di Trieste,
Udine, Gorizia, Pola, Fiume e di Lubiana) controllata direttamente dai
tedeschi fino al 1945.
La Germania, in
particolare durante i quarantacinque giorni del governo di Badoglio,
aveva spiegato le sue forze in modo da conquistare l'Italia in poche ore
se e quando essa passasse dall'altra parte ed in maniera da
impossessarsi della Venezia Giulia, punto fondamentale per la sicurezza
delle forze tedesche impiegate nei Balcani e punto eventuale di
possibili sbarchi alleati. Nella regione giulia l'infiltrazione tedesca
era stata favorita dagli stessi militari italiani, che abbisognavano del
più esperto e spietato aiuto tedesco nella guerriglia contro i
partigiani, sicché, ai primi di settembre, i tedeschi erano già
stanziati non solo nella Slovenia, ma addirittura fino ad Opicina,
immediatamente sopra Trieste. L'urgente occupazione della Venezia
Giulia, per ragioni anche politiche, era stata sollecitata pure dal
Gauleiter, luogotenente del Reich per la Carinzia, Friedrich Rainer,
mentre a Trieste, gli ex-nazionalisti cercavano, invano, di ricostruire
la Compagnia Volontari giuliani, i comunisti italiani tentavano, del
pari invano, di aver contatti con il Fronte di liberazione slavo, che li
respingeva, ed i membri degli altri antichi partiti .prefascisti si
disperdevano in varie azioni, per ottenere modifiche sostanziali e
legali delle disposizioni fasciste da parte del governo di Badoglio o
nel preparare e discutere irrealizzabili rivolte armate, destinate,
però, poi, a sboccare nella Resistenza italiana non comunista. Era stato
creato un Comitato civico antifascista, chiamato anche Fronte
democratico nazionale, che comprendeva pure i comunisti.
Voluta da Hitler per dare un ruolo formale a Benito Mussolini, la RSI
(Repubblica Sociale Italiana), pur rivendicando tutto il territorio del
Regno d'Italia, esercitò la propria sovranità solo sulle province non
soggette all'avanzata alleata e all'occupazione tedesca diretta.
Inizialmente la sua attività amministrativa si estendeva nominalmente
fino alle province settentrionali della Campania, ritirandosi
progressivamente sempre più a nord, in concomitanza con l'avanzata degli
eserciti angloamericani. A nord, inoltre, i tedeschi istituirono due
"Zone di operazioni" comprendenti dei territori che erano state parti
dell'Impero Austro-Ungarico: le province di Trento, Bolzano e Belluno
(Zona d'operazioni delle Prealpi) e le provincie di Udine, Gorizia,
Trieste, Pola, Fiume e Lubiana (Zona d'operazioni del Litorale
Adriatico), sottoposte direttamente ai Gauleiter tedeschi del Tirolo e
della Carinzia, de facto, anche se non formalmente annesse al
Terzo Reich. L'exclave di Campione d'Italia fu inclusa nella Repubblica
solo per pochi mesi, prima di essere liberata grazie ad una rivolta
popolare appoggiata dai carabinieri.
I nazi-fascisti tennero Trieste fino al 1º maggio 1945 quando, dopo
intensi bombardamenti alleati, i partigiani jugoslavi del generale Dusan
Kveder riuscirono ad occupare la città prima dell'arrivo delle truppe
neozelandesi del generale Bernard Freyberg. Kveder proclamò l'annessione
di Trieste e dei territori limitrofi alla nascente Federazione Jugoslava
quale sua settima repubblica autonoma, mentre Tito, appoggiato anche
dalle formazioni partigiane comuniste di italiani che vi operavano,
poteva affermare di avere il controllo di tutta la Venezia Giulia.
Gli
anglo-americani non gradirono molto le manovre di Tito ed il generale
Harold Alexander, su indicazione di Winston Churchill, ottenne con
l'accordo di Belgrado del 9 giugno 1945 il ritiro dell'Esercito Popolare
di Liberazione della Jugoslavia ed il passaggio di Trieste e Gorizia,
nonché (20 giugno) di Pola, ad un "Governo Militare Alleato", che
assunse il controllo anche di Rovigno e Parenzo. Questo stabiliva la
linea "Morgan", ovvero la linea di demarcazione lungo il corso
dell'Isonzo e fino a est / sud-est di Muggia,
Zona A e Zona B
Trieste e l'Istria vennero quindi suddivise in due zone (A e B)
amministrate militarmente dagli alleati e dagli jugoslavi: la prima
comprendeva il litorale giuliano da Monfalcone fino a Muggia più
l'enclave di Pola, la seconda il resto dell'Istria. Il 2 giugno 1946 si
svolse il referendum istituzionale a seguito del quale gli italiani
scelsero la Repubblica, ma la Venezia Giulia (Province di Gorizia,
Trieste, Pola, Fiume), pur essendo formalmente ancora sotto sovranità
italiana, non partecipò alla consultazione a causa delle pressioni
jugoslave presso i governi Alleati. Per calmare gli animi il Governo
militare alleato (AMG in inglese) concesse il passaggio del Giro
d'Italia, poi bersagliato dalle proteste degli attivisti filo-sloveni,
culminate nello scontro di Pieris.
Dal 12 giugno 1945 al Trattato di Parigi del 1947
Allo stesso modo i cittadini della Venezia Giulia non poterono
partecipare alle elezioni della nuova Assemblea Costituente. Il 10
febbraio del 1947 venne firmato il trattato di pace dell'Italia, che
istituì il Territorio Libero di Trieste, costituito dal litorale
triestino e dalla parte nord occidentale dell'Istria, provvisoriamente
diviso da una linea confinaria passante a sud della cittadina di Muggia
ed amministrato rispettivamente dal Governo Militare Alleato (zona A) e
dall'esercito jugoslavo (zona B), in attesa della creazione degli organi
costituzionali del nuovo stato.
Il Territorio
Libero di Trieste fu previsto nel 1947 all'interno del trattato di pace
con l'Italia alla fine della seconda guerra mondiale.
Secondo l'articolo 21 del trattato, il TLT sarebbe stato riconosciuto
dalle Potenze Alleate e dall'Italia, e la sua integrità ed indipendenza
sarebbero state assicurate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite.
La mancata entrata in vigore dello statuto permanente e la mancata
nomina del governatore e degli altri organi di governo del TLT
determinarono uno stallo che mise in dubbio fra gli studiosi di diritto
internazionale l'effettività dell'esistenza stessa di uno stato
denominato Territorio Libero di Trieste, carente di uno degli elementi
costitutivi per essere definito tale – la sovranità – e soggetto
perennemente ad un governo provvisorio militare.
Nell'ambito di questa situazione, si svilupparono delle teorie
internazionalistiche minoritarie, che ritennero che non essendo mai
sorto un TLT indipendente come previsto dal trattato di pace, l'Italia
non avesse mai perso la propria sovranità su tutto il territorio. Di
contro, la teoria predominante considerò parimenti l'insussistenza di
uno stato definibile come Territorio Libero di Trieste essendo quindi il
territorio assoggettato a un regime di occupazione militare, senza
essere nel frattempo soggetto a una sovranità statale. La situazione
di stallo trovò de facto una soluzione con gli accordi di Londra del
1954, e de iure definitivamente nel 1975, quando col trattato di Osimo
Italia e Jugoslavia incorporarono formalmente le zone A e B.
Il TLT era diviso in due zone:
la Zona A di 222,5 km² e circa 310 000 abitanti (di cui, secondo stime
alleate, 63 000 sloveni) partiva da San Giovanni di Duino (slov. Štivan),
comprendeva la città di Trieste e terminava presso Muggia; era
amministrata da un Governo Militare Alleato (Allied Military Government
- Free Territory of Trieste - British U.S. Zone);
la Zona B con la parte nord-occidentale dell'Istria, di 515,5 km² e
circa 68 000 abitanti (51 000 italiani, 8 000 sloveni e 9 000 croati
secondo le stime della Commissione Quadripartita delle Nazioni Unite –
vedi tabella sottostante) che era amministrata dall'esercito jugoslavo (S.T.T.
- V.U.J.A). La Zona B fu, a sua volta, divisa in due parti: il distretto
di Capodistria e il distretto di Buie, separati dal torrente Dragogna
(che successivamente segnerà il confine tra la Slovenia e la Croazia).
Capodistria divenne la sede dell'amministrazione militare e civile
jugoslava della zona.
Il vizio all'origine del TLT stava nell'asimmetria delle
amministrazioni. La Zona A era affidata in amministrazione a potenze non
confinanti (inglesi e statunitensi), la Zona B ad uno stato confinante,
la Jugoslavia, che aspirava ad annettersi l'intero territorio. In
pratica mai funzionò come un vero stato indipendente. Il suo
funzionamento dipendeva dalla nomina di un Governatore da parte del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La scelta del Governatore si
protrasse per vari anni e i diversi nomi proposti furono
sistematicamente oggetto di veto sia da parte degli Alleati che da parte
dei sovietici.
Nel 1952 nella Zona A alcune competenze (fra cui il Direttorato delle
finanze e dell'economia), vennero affidate a dirigenti nominati
direttamente dal Governo italiano. Il 5 e 6 novembre 1953 vi furono a
Trieste violenti scontri di piazza da parte di coloro che reclamavano la
riunificazione della città all'Italia. Nei disordini vennero uccisi sei
cittadini, cui è stata successivamente conferita un'onorificenza dal
governo italiano.
Il Territorio
Libero di Trieste (in sloveno: Svobodno tržaško ozemlje, in croato:
Slobodni teritorij Trsta, in inglese: Free Territory of Trieste), spesso
colloquialmente abbreviato in TLT, era uno stato indipendente previsto
dall'articolo 21 del trattato di Parigi fra l'Italia e le potenze
alleate del 1947. A norma dello stesso trattato il Territorio Libero di
Trieste sarebbe dovuto essere demilitarizzato e neutrale, governato
inizialmente secondo le previsioni normative di uno Strumento per il
regime provvisorio, redatto dal Consiglio dei Ministri degli Esteri e
approvato dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Tale Strumento sarebbe
rimasto in vigore fino alla data che il Consiglio di Sicurezza avrebbe
dovuto determinare per l'entrata in vigore di uno Statuto Permanente,
allegato al trattato di Parigi. In immediata successione si sarebbero
dovute creare le forme di governo necessarie per il funzionamento dello
stato (un Governatore, un Consiglio di Governo, un'assemblea Popolare
eletta dal popolo del territorio Libero ed un Corpo Giudiziario), nonché
eleggere un'assemblea costituente che avrebbe dovuto approntare la nuova
costituzione del TLT. L'ONU avrebbe comunque mantenuto dei poteri di
controllo sul TLT, per il tramite del proprio Consiglio di Sicurezza.
Il TLT avrebbe compreso nei suoi confini circa 375 000 abitanti (264 000
italiani, 85 000 sloveni, 11 000 croati e 15 000 di nazionalità
diverse), comprendendo la città di Trieste (capitale del TLT), a nord il
litorale fino al Timavo, e a sud parte dell'Istria fino al fiume Quieto,
nonché un Porto Libero a sua volta amministrato da uno Strumento
internazionale.
Il 5 ottobre 1954 venne firmato a Londra un memorandum d'intesa in cui
Italia e Jugoslavia si spartivano provvisoriamente il Territorio
(testo), con il passaggio della Zona A all'amministrazione civile
italiana e la Zona B a quella jugoslava: la linea di demarcazione fra le
due zone venne però spostata a favore della Jugoslavia.
Precedentemente essa tagliava l'abitato di Albaro Vescovà (Škofije) e
proseguendo all'interno della penisola muggesana arrivava sino ad
Ancarano, lasciando nella Zona A le frazioni di Valdoltra, Elleri,
Crevatini (Hrvatini) e Plavia (Plavje): a seguito della stipula del
Memorandum d'intesa anche questi centri abitati furono assegnati alla
Jugoslavia.
Il passaggio dei poteri dall'amministrazione alleata a quella italiana
avvenne il 26 ottobre 1954.
Nel 1975 un nuovo trattato firmato a Osimo dava copertura giuridica allo
status quo tra Italia e Jugoslavia. L'ordine del giorno dell'ONU per la
nomina del Governatore del TLT venne quindi rimosso il 9 gennaio 1978, a
seguito di esplicita richiesta dei rappresentanti italiano e
jugoslavo.
Comandanti di zona del TLT
Lista dei comandanti di zona del TLT suddivisi nelle due zone d'occupazione:
Zona A
16 settembre 1947 - 31 maggio 1951: Sir Terence Sydney Airey (Regno
Unito)
31 maggio 1951 - 26 ottobre 1954: Sir Thomas Winterton (Regno Unito)
Zona B
15 settembre 1947 - marzo 1951: Mirko Lenac
marzo 1951 - 26 ottobre 1954: Miloš Stamatović
Comandante della polizia jugoslava (zona B): Anton Ukmar
Lingue e gruppi linguistici
Zona A
Ecco le lingue ed i gruppi linguistici nella zona A, secondo le stime
approssimative del Governo Militare Alleato fatte nel 1949:
Etnia Numero di abitanti Percentuale
Italiani 239 200 79%
Sloveni 63 000 21%
Totale 302 000 100%
Inoltre erano presenti 5 000 soldati statunitensi della TRUST (TRieste
United States Troops) e 5 000 soldati britannici della BETFOR (British
Element Trieste FORce). Al censimento italiano del 1971 si dichiareranno
di lingua slovena soltanto 24 000 persone, pari all'8% della
popolazione.
Zona B
Stemma utilizzato nella zona B.
Secondo le stime della Commissione internazionale inviata dalle quattro
potenze nel 1946, le lingue e i gruppi linguistici nella Zona B erano
costituiti da:
Etnia Numero di abitanti Percentuale
Italiani 51 000 70 %
Sloveni e croati 17 000 30 %
Totale 68 000 100 %
Inoltre erano presenti 5 000 soldati dell'Armata Popolare Jugoslava.
Forze armate e di polizia del TLT
Il confine tra Italia e Territorio libero di Trieste sulla SS 14 tra
Monfalcone e Duino-Aurisina.
Zona A
Polizia militare alleata Stati Uniti Regno Unito
TRUST (TRieste United States Troops) Stati Uniti
351st Infantry Regiment, su:
Comando e Compagnia Comando
Compagnia Servizi
Compagnia Mortai Pesanti
Compagnia Carri
Tre battaglioni di fanteria, ciascuno su Compagnia Comando, tre
compagnie fucilieri e compagnia armi pesanti.
Nella regione la situazione si fece incandescente e numerosi furono i
disordini e le proteste tra gli italiani: in occasione della firma del
trattato di pace, la maestra Maria Pasquinelli uccise a Pola il generale
inglese Robin De Winton, comandante delle truppe britanniche. In
occasione dell'entrata in vigore del trattato stesso (15 settembre 1947)
corse addirittura voce che le truppe jugoslave di stanza nella zona B
avrebbero cercato di occupare Trieste. Negli anni successivi la
diplomazia italiana cercò di ridiscutere gli accordi di Parigi per
chiarire le sorti di Trieste, senza successo.
Nel frattempo continuavano scontri e disordini a Trieste:
l'8 marzo 1952 una bomba uccise alcuni manifestanti di un corteo di
italiani; nell'agosto-settembre 1953 il governo italiano inviò truppe
lungo il confine con la Jugoslavia; nel novembre del 1953 in occasione
di altri scontri con le truppe Angloamericane si registrarono ulteriori
vittime (Pierino Addobbati, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio
Montano, Francesco Paglia e Antonio Zavadil), che ricevettero in seguito
la Medaglia d'Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
« ...Animato da profonda passione e spirito patriottico partecipava ad
una manifestazione per il ricongiungimento di Trieste al Territorio
nazionale, perdendo la vita in violenti scontri di piazza. Nobile
esempio di elette virtù civiche e amor patrio, spinti sino all'estremo
sacrificio. ... »
L'accordo del 5 ottobre 1954
La situazione si chiarì solo il 5 ottobre 1954 quando col Memorandum di
Londra la Zona "A" del TLT passò all'amministrazione civile italiana:
contestualmente l'amministrazione jugoslava della Zona "B" passò da
militare a civile. Gli accordi prevedevano inoltre alcune rettifiche
territoriali a favore della Jugoslavia fra cui il centro abitato di
Albaro Vescovà / Škofije con alcune aree appartenenti al Comune di
Muggia (pari a una decina di km²). Il 4 novembre 1954 il Presidente
della Repubblica Luigi Einaudi si recò a Trieste. Nel corso del suo
breve discorso egli fra l'altro affermò:
« ... Voi triestini, per giungere alla meta, avete discusso clausola per
clausola, parola per parola, per lunghi mesi l'accordo or firmato. Avete
difeso metro per metro quel territorio che nella vostra convinzione
doveva rimanere unito a Trieste.
Consentitemi di congratularmi con voi per aver dato prova di coraggio.
Operando così, in silenzio, voi vi siete resi benemeriti della patria
italiana."... »
Il 9 novembre 1956 venne conferita alla città la Medaglia d'Oro al Valor
Militare, con la seguente motivazione:
« Protesa da secoli a additare nel nome d'Italia le vie dell'unione tra
popoli di stirpe diversa, fieramente partecipava coi figli migliori alla
lotta per l'indipendenza e per l'unità della Patria; nella lunga vigilia
confermava col sacrificio dei martiri la volontà d'essere italiana;
questa volontà suggellava col sangue e con l'eroismo dei volontari della
guerra 1915 - 18. In condizioni particolarmente difficili, sotto
l'artiglio nazista, dimostrava nella lotta partigiana quale fosse il suo
anelito alla giustizia e alla libertà che conquistava cacciando a viva
forza l'oppressore. Sottoposta a durissima occupazione straniera, subiva
con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a
manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria. Contro i
trattati che la volevano staccata dalla Madrepatria, nelle drammatiche
vicende di un lungo periodo d'incertezze e di coercizioni, con tenacia,
con passione e con nuovi sacrifici di sangue ribadiva dinanzi al mondo,
il suo incrollabile diritto d'essere italiana. Esempio d'inestinguibile
fede patriottica, di costanza contro ogni avversità e d'eroismo. 1915 -
1918, 1943 - 1947, 1948- 1954 »
Trattato di Osimo
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Trattato di Osimo.
Fu però necessario attendere il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975
per la firma di un regolamento definitivo tra Italia e Jugoslavia, che
sancì la sovranità jugoslava sulla zona B e quella italiana sulla zona
A. Il trattato implicò la rinuncia formale da parte dell'Italia a
qualsiasi pretesa sulla Zona B, ma fu un passo molto gradito alla NATO,
che valutava particolarmente importante la posizione sul piano
internazionale della Jugoslavia in quel momento.
La gloria d'arte per cui splendette Venezia lasciando un'orma luminosa
nei paesi del Friuli, dell'Istria e della Dalmazia a lei soggetti, si
arresta alle porte di Trieste, da una parte a Monfalcone, dall'altra a
Muggia. Zaule segnava il confine della repubblica: la nostra città ne
rimaneva esclusa. È vero che Trieste era allora un piccolo borgo e si
trovava sempre in antagonismo con Venezia; ma questa non sarebbe ancora
una buona ragione, perché i suoi negozianti arricchiti non sentissero lo
stesso bisogno dei loro concorrenti veneziani di fabbricarsi delle
dimore sontuose, arredandole con suppellettili d'arte che, naturalmente,
avrebbero dovuto risentire di quella scuola e di quell'esempio, mentre
la nostra città non poteva e non voleva subire l'influsso di una civiltà
di carattere etnico del tutto diverso dal suo, cioè del paese dal quale
politicamente dipendeva. E in ciò consiste il miracolo della sua
italianità: l'influenza tedesca, che per esempio lasciò tracce
notevolissime a Lubiana si da darle una spiccata impronta di città
alemanna, avrebbe potuto benissimo far quattro passi di più e arrivare
fino a noi. Tentò di farli, ma non trovò mai il terreno adatto al suo
sviluppo. Se togliamo dunque qualche singolo edificio che ha l'aria e il
tipo di molti consimili veneziani del tardo Seicento o Settecento, è
necessario arrivare fino all'Ottocento per riscontrare da noi il primo
soffio dell'arte. Giuseppe Caprin nei Nostri nonni » ne parla
esaurientemente. Ma non uno degli artisti che avevano lavorato in quel
periodo era triestino! Il Molari, che disegnò l'edificio della Borsa e
la facciata della Casa Chiozza, era di Macerata; il Selva, che edificò
l'interno del teatro Verdi, era veneto; di origine tedesca il Pertsch
che ne disegnò la facciata e poi il palazzo Carciotti e la casa Panzera.
Gli scultori che collaborarono a queste fabbriche sono il Bosa padre,
Bartolomeo Ferrari, il Banti e lo Zandomeneghi, tutti veneti.
La fabbrica che occupò poi maggior numero di artisti fu la Chiesa di S.
Antonio Nuovo, eretta su disegni di Pietro Nobile, un architetto di
origine svizzera. Le statue dell'attico e gli angeli della tribuna sono
del Bosa figlio. I pittori che ne decorarono l'interno sono anch'essi
forestieri : il Politi da Udine, il Grigoletti da Pordenone, il
Lipparini da Venezia.
Tedeschi sono il Tunner e lo Schönemann. Solo più tardi i quadri della
Via Crucis furono eseguiti da alcuni nostri artisti, come Augusto
Tominz, l'Acquarolli, il Polli, il Guerini, su disegni di Giuseppe
Lorenzo Gatteri.
Sebastiano Santi che dipinse la tribuna dei Gesuiti, la cappella
dell'Addolorata di S. Giusto e l'abside di S.Antonio Nuovo, era
veneziano. Anche la maggior parte degli scalpellini, fabbri e falegnami
che attese a tutte queste opere ci venne dal Friuli, dalla Svizzera,
dalla Lombardia. Forestieri sono i decoratori e gli scenografi dei
nostri teatri: Domenico Camisetta, Lorenzo Scarabellotto e il
valentissimo Sanquirico. Questo primo sviluppo edilizio fece si che
molti artisti, i quali avevano collaborato a queste fabbriche, si
accasassero da noi. Il Pertsch divenne triestino d'adozione e così i due
figli del Bosa, Eugenio e Francesco, e il Bianchi, autore di uno dei due
gruppi delle facciate del Tergesteo. Giovanni Bernardino Bison da
Palmanova viene quasi considerato triestino per i tanti anni che dimorò
a Trieste. E a Trieste nacque il pittore Felice Schiavoni, figlio di
Natale Schiavoni, il quale, vissuto a lungo fra noi, era riuscito a
farsi una fortuna con i suoi ritratti. Il risveglio economico
pronunciatosi allora aveva moltiplicato il benessere e l'agiatezza dei
cittadini. L' amore per le belle arti era cresciuto. Sorsero palazzi e
lussuose abitazioni. Il danaro passava dalle tasche dei negozianti in
quelle degli artisti. Gli artisti sono come i seminatori, dice Giuseppe
Caprin : dietro di loro avviene la germinazione.
Nel 1826 - 27 per la prima volta l'Accademia di Belle Arti di Venezia
premiò i giovani triestini Lorenzo Butti, Giuseppe Solferini e Gaetano
Merlato. La nostra « Società di Minerva » bandiva nel 1830 la sua prima
esposizione di Belle Arti. I partecipanti triestini furono il Poiret, il
miniaturista Luigi de Castro, lo Sforzi, il Goldmann, il Merlato, il
Butti e Anna de Frattnig Salvotti, nipote di Domenico Rossetti, il quale
in una lettera all'architetto Pietro Nobile aveva annunziato il sorgere
di questo nuovo astro con le seguenti parole: (Vedete, anchè dal sangue
dei Rossetti può nascere un'anima pittorica, e più mi consola, che se ne
fossero usciti sei presidenti e ventiquattro consiglieri aulici. « Se
costei in questa proporzione progredisce fino alla mia età, Trieste avrà
almeno da « gloriarsi di una pittrice che lascierà viva memoria di sè.
Ma il tutto sta nel progredire
« veramente. Le donne sono in tutto come le rose : fioriscono all'
improvviso per incantare, « poi restano li per appassire.» Intorno al
1840 convenivano nella casa del mio nonno materno Giovanni Battista
Artelli, giunto qui da Venezia con la famiglia intorno al 1800, tutti
gli artisti di quell'epoca. Egli era amantissimo d'arte e collezionista.
Conservo ancora un vago ricordo de' miei primi anni, il ricordo di
grandi teloni che pendevano alle pareti di casa e che per dissesti
familiari e molti altri, che poi questi ve ne sono riunioni, le quali
erano improntate a sano umorismo. Il primo rappresenta un'adunanza del
Consiglio direttivo della Società, l'altro un ricevimento in onore del
pittore Zoccos. Tre gallerie di quadri antichi, delle quali due aperte
al pubblico, contenevano gemme fulgenti furono dovuti vendere. Egli era
stato il fondatore di una piccola società o, meglio, di un cenacolo di
artisti che si radunava in casa sua e dal quale era stato nominato
Console delle Belle Arti, con patente scritta in latino maccheronico.
Vice Console era il pittore Dionisio Zoccos da Zante che viveva per lo
più a Venezia, ma veniva spessissimo a Trieste dove lasciò anche qualche
ritratto non disprezzabile. Conservo una distinta dei soci che
componevano quella società; erano in buon numero: Cesare Dell'Acqua e i
due Poiret da Trieste, Giulio Carlini da Venezia, Bartolomeo Gianelli da
Capodistria, l'architetto Giovanni Berlam, i due Gatteri, Giuseppe
Capolino, Edoardo Baldini, Raffaele Astolfi, Domenico Marconetti, tutti
da Trieste; Raphael Jacquemin da Parigi, Giovanni Simonetti da Fiume,
Annibale Stratta da Cagliari e molti altri che poi lasciarono traccia
del loro ingegno in un albo ricco di disegni. Fra due del triestino
Giovanni Polli, che danno testimonianza delle loro riunioni, le quali
erano improntate a sano umorismo. Il primo rappresenta
un'adunanza del Consiglio direttivo della Società, l'altro un
ricevimento in onore del pittore Zoccos.
Ricevimento in
onore di Dionisio Zoccos.
Tre gallerie di
quadri antichi, delle quali due aperte al pubblico, contenevano gemme
fulgenti dei secoli d'oro dell'arte.
Nicola Lazovich possedeva un Giambellino, un Tiziano, un Caravaggio, un
Guercino e un Claudio
Lorenese. Carlo Girardelli vantava altre preziosità del Moroni, di Guido
Reni, di Davide Tèniers, di Rosa da Tivoli, del Cignani, del Padovanino
e del Parmigianino. Alessandro Volpi contava fra le molte tele di grandi
maestri anche un Velasquez. Ma purtroppo tutti questi quadri esularono
dalla nostra città.
Molto importanti
erano le raccolte di quadri moderni, e numerosi i mecenati: Salomone
Parente, Leone Hierschel, Pietro Sartorio, G. G. Sartorio, M. Sartorio,
L. Gechter, la contessa Wimpffen, I. N. Craighero, Carlo Antonio
Fontana, G. Haynes, F. C. Carrey, il conte Waldstein, il barone
Lutteroth, Gracco Bazzoni, Carlo di Ottavio Fontana, Ferdinando De Coll,
Cristo Ranieri.
A loro volta altri artisti vennero a dimorare nella nostra città: Carlo
Gilio da Milano, il ferrarese Giovanni Pagliarini, i tedeschi Augusto
Tischbein, Augusto Seib e il bavarese Mayerhoffer.
Francesco Dall'Ongaro fu nel campo artistico il continuatore dell'opera
della Minerva Fondata la Società Filotecnica in unione con Cristo
Ranieri, un greco che a suo tempo aveva frequentato la casa della regina
Murat, col capo della Comunità inglese Giorgio Haynes e con lo scozzese
O. Carrey, promosse esposizioni artistiche che si susseguirono per otto
anni. Ne era presidente il conte Waldstein. Alla prima Mostra del 1840
figurarono più di cinquecento opere con la partecipazione di Francesco
Hayez, di Massimo d'Azeglio e d' Orazio Vernet. Ma la germinazione
artistica era avvenuta e aveva portato i suoi frutti. A questa mostra si
erano presentati altri valenti triestini: oltre al miniaturista Luigi de
Castro e a Lorenzo Butti, Giovanni Madrian e il capostipite di una
dinastia di pittori, i Tominz, l'ultimo rampollo della quale, Alfredo,
della terza generazione, vive sano e vegeto tra noi, nonchè un fanciullo
di nove anni, Giuseppe Lorenzo Gatteri. L'Accademia di Venezia preparava
intanto un'altra covata: i pittori Augusto Tominz, Raffaele Astolfi,
Francesco Guerini, Cesare Dell'Acqua e Giovanni Polli; e ancora Giuseppe
Gallico, Domenico Marconetti, che divennero poi insegnanti, gli scultori
Edoardo Baldini e Giuseppe Capolino, un forte artista che aveva dato
sicura promessa di sè ma che fu colto dalla morte a trent'anni. E poi
l'architetto Giovanni Berlam, capostipite lui pure di una generazione di
egregi artisti : gli architetti Ruggero, suo figlio, e il nipote Arduino
; inoltre il goriziano Antonio Rotta, il pittore poi tanto in voga per i
suoi interni domestici, e il capodistriano Bortolo Gianelli, pittore di
marine. Con Giuseppe Lorenzo Gatteri, Cesare Dell' Acqua, Giuseppe
Capolino e Giovanni Berlam incomincia la nostra era artistica. La
famiglia dei Tominz apre la serie dei pittori triestini, per quanto il
più vecchio, Giuseppe, fosse nato a Gorizia nel 1790; ma stabilitosi nel
1820 a Trieste, considerò questa la sua città adottiva. Terminati gli
studi a Roma, si dedicò quasi esclusivamente al ritratto nel quale
diventò maestro insuperato. Fu straordinariamente fecondo. Si racconta
che durante la permanenza a Trieste della squadra inglese nel 1830,
dipingesse venticinque ritratti di quegli ufficiali eseguendone uno al
giorno. Fra i ritratti suoi più notevoli vanno annoverati quello del Re
di Napoli Gioacchino Murat e quello del Papa Pio VII, che dovrebbe
trovarsi in Vaticano. Alla Mostra del ritratto tenutasi a Firenze nel
1911 figurarono il suo tanto decantato ritratto del « Nano ostricaro » e
quello della signora Smart di Trieste. Egli fu anche ottimo
miniaturista. Suo figlio Augusto nacque a Roma nel 1818 e mori a Trieste
nel 1883. Studiò a
Venezia col Lipparini e col Politi. A loro volta furono suoi scolari i
triestini Giovanni Rota (appartenente a un' altra triade di artisti, il
musicista Giuseppe e il cantante Giacomo) che prese poi dimora a Parigi,
e Antonio Valdoni che esercitò a Milano. Il Museo Revoltella conserva
tre quadri di Augusto Tominz ed è pure dipinto da lui il soffitto della
sala da ballo nel palazzo dove ha sede il Museo, del quale il nostro
artista fu conservatore dal 1873 fino alla sua morte. Era pure
segretario della Società di Belle Arti che annualmente continuava ad
allestire le sue mostre e che ebbe vita fino al 1882. Opere sue di
genere sacro si trovano a S. Antonio Nuovo: una S. Lucia e tre
quadri della Via Crucis.
Era opera sua anche il Martirio di S. Lorenzo nella Chiesa di
Servola che bruciò nel 1880. Nella Chiesa dei Cappuccini si conserva una
Beata Vergine con varii Santi; a Villa Vicentina dipinse l'Assunta
per la cappella Baciocchi. Lasciò molte opere a Villaco e a Vienna.
Esegui un rilevantissimo numero di quadri di soggetto romantico, in gran
voga al suo tempo, che avevano lo scopo di tener desta la fiamma dell'
italianità. Di ritratti ne esegui un' infinità: si può dire che ogni
famiglia ne possieda qualcuno, oltre alle fotografie, in quel tempo
rinomate, che uscivano dallo studio fotografico che aveva aperto in
Piazza della Borsa.
Augusto Tominz era un mordace burlone. Una volta aveva eseguito un S.
Giuseppe per una chiesa dell'Istria. Pare che prima della consegna
del quadro vi sia stato fra lui e il parroco una divergenza che credo
concernesse una diminuzione del prezzo pattuito. Per vendicarsi il
Tominz pasticciò malamente la testa del Santo, poi inviò la tela a
destinazione. Il prete fece qualche protesta intorno a quel particolare,
al che il Tominz rispose che si provasse a ripulire la testa con un po'
di acquaragia. Il parroco esegui l'istruzione e, dopo una buona
pulitura, ne usci fuori un S. Giuseppe con la testa di Garibaldi.
Un'altra volta fu un negoziante montenegrino, l'Opuich , che protestò
per un suo ritratto ordinatogli e che poi non volle accettare. Il Tominz
se ne stizzì. Sul ritratto dipinse delle sbarre di ferro che si
incrociavano a quadrati. L'Opuich figurava in prigione: e cosi fu
esposto sotto il pronao della Borsa, dove allora il Rose, il Rieger, il
Grubas, il Malacrea e altri mettevano in mostra i loro quadri. L'Opuich
ne fu avvertito e non frappose indugi nel mandare a comperare il
ritratto. Una bella gli toccò nel 1848, mentre usciva dal Teatro Corti
insieme con suo fratello Raimondo, ch'era stato in origine maestro di
musica, ma poi, divenuto troppo pericoloso per le sue allieve, aveva
dovuto cambiar mestiere e diventare ispettore delle pubbliche
piantagioni. Molti devono ancora ricordarlo. A ottant'anni ne mostrava
trenta di meno.
Pareva uno zerbinotto. Era di una vitalità
sorprendente, di un umore indiavolato. Marciava d'inverno in giacca con
un bastoncino in mano: pareva che andasse sempre alla conquista di
allori femminili. Mori a ottantasei anni cantando un'aria della
Traviata. Costoro dunque uscivano dal Teatro Corti dopo una riunione
patriottica che pare avesse dato ai nervi del presidente della Camera di
Commercio, Vicco. Questo diede incarico a certo Accerboni di aspettare i
due Tominz all'uscita col mandato speciale di bastonarli. I due,
sopraffatti, si buscarono qualche cazzotto. Intervennero i bochter
(specialissimo vocabolo triestino di quei tempi, storpiatura del tedesco
Wächter, cioè poliziotti).
Bastonati e bastonatori furono scortati al Direttore di Polizia. Gli
assalitori furono condannati a qualche giorno di oscurità, ma dopo
qualche ora liberati. I due Tominz furono consigliati di esulare per
qualche tempo. Partirono per Udine. A Prosecco si incontrarono con lo
stesso Vicco e con l'Accerboni. Scesero dalla carretta, si precipitarono
sui due malcapitati e si presero una rivincita ad usura. Arrivati poi a
Udine, il Gazzoletti li accolse e furono festeggiati. A un banchetto
egli lesse una sua poesia che ricordava l'episodio irredentista del
Teatro Corti, i cazzotti e la rivincita. Intanto il gusto e l'interesse
per le arti si accentuavano maggiormente, e aumentavano gli amatori e i
mecenati. Dal 1840 al 1880, oltre a Pasquale Revoltella, del quale
parlerò poi diffusamente, i mecenati furono molti.
Il palazzo Brambilla in Via SS. Martiri era divenuto proprietà dei
baroni Elio e Giuseppe de Morpurgo che vantavano nella loro raccolta
opere insigni, fra cui tre quadri di Palma il Giovine.
Raccolte d'arte tenevano pure i baroni Rittmeyer e il barone Lutteroth,
l'Oblasser, il barone Zanchi, il De Coll, il Bontempelli, Giuseppe
Sartorio, Giorgio Galatti, il Kalister, il barone Parisi e Marco Amodeo.
La Società di Belle Arti continuava ad allestire le sue mostre annuali
che si tenevano nella sala della Borsa e poi nel palazzo Revoltella.
Ma un'altra istituzione sorse con intendimenti affini : la Società per
l'Arte e l' Industria. Ne era presidente il barone Reinelt e segretario
l'architetto Giovanni Berlam. Essa promosse l'esposizione che si tenne
nel 1871 su quell'area denominata « Campagneta che dal giardino pubblico
andava fino alle alture di Via Chiozza dove oggi sorge il Politeama
Rossetti. In questa esposizione vi era un po' di tutto e non vi mancava
un padiglione per le Belle Arti. Giuseppe Caprin nel suo periodico
intitolato « Libertà e Lavoro » aveva segnalato tra i quadri dei nostri
triestini l'opera di un giovane al quale auspicava un brillante
avvenire.
Il quadro, intitolato Amleto era di Eugenio Scomparini. Il Makart vi
aveva mandato un enorme telone di soggetto fantastico e Antonio Rotta il
suo « Ciabattino , che furoreggiò.
La mostra sotto il
pronao della Borsa. Giuseppe Rota.
Gli amatori trovarono poi nei due tedeschi Vendelino e Giuseppe
Schollian i fornitori di quadri per i loro appartamenti. Ambidue
tenevano dei locali di esposizione, l'uno al Corso e l'altro in via del
Ponte Rosso, ora Via Roma, e vi accoglievano le opere dei nostri
artisti. Tuttavia la mostra caratteristica rimaneva ancor sempre sotto
il pronao della Borsa. Quel posto era il preferito dagli artisti e anche
non dai più modesti, perché a tutte le ore vi passavano gli uomini
d'affari e... il resto si capisce.
Oltre al Malacrea, vestito alla fiamminga, che esponeva le sue frutta e
i suoi fiori, v'era il Grubas che dipingeva vedute di Venezia, il Rose
autore di quadretti satireggianti i nostri contadini e certo Tumme che
faceva il paio col Malacrea descritto dal Caprin.
Questo Tumme era un tedesco e parlava un triestino sassone composto di
voci peregrine di un'armoniosità poco comune. Il nostro dialetto che più
di una volta aveva dovuto subire le carezze linguistiche dei nostri
padroni d' un tempo e dei nostri vicini, dovette certo meravigliarsi
delle proprie elastiche qualità di adattamento nel servir da incrocio a
un gergo che rassomigliava molto all'abbaiar dei cani e a certi suoni
che parevano uscir dalla bocca del Tumme come da una catapulta. Egli
abitava una soffitta rischiarata da un grande abbaino. Di mobili non
vantava un gran lusso: un canterano, nei cui cassetti erano riposti alla
rinfusa sacchetti di colori, fiaschette d'olio, un macinino, dei
frammenti di budella per insaccare i colori preparati, dei pennelli
induriti; un tavolo aveva chiesto l'equilibrio a una parete alla quale
era addossato; alcune scranne capaci di tradimento verso chi si fidasse
troppo delle loro staticità. Un'abbondante nevicata di polvere dava
un' intonazione grigia a tutti gli oggetti, perfino a un vecchio cane
che sonnecchiava in un canto; un panchetto faceva argine a un mucchio di
rifiuti. Sulla parete triangolare del fondo stava inchiodata una lunga
fascia di tela, divisa in tanti rettangoli. In ognuno di questi egli
dipingeva un quadretto. Non era specialista in un genere solo ma, da
eclettico, eseguiva paesaggi e marine, nature morte, fiori, scene
campestri, allegorie. Procedeva cosi : preparava diversi pentolini di
colori che servivano per l'acqua, per l'aria o per il color locale e li
distendeva simultaneamente su tutte le parti che quei dieci soggetti
richiedevano. Poi finiva ciascuno a sè con un' abilità e rapidità
straordinarie, curiose a constatarsi ancora oggi. Terminato il
quodlibet lo portava tutto d'un pezzo al posto dell'esposizione e vi
si metteva di fianco rimanendo in attesa come fa l'uccellatore. Il
cliente, prima o dopo, ne era adescato ed egli con le forbici tagliava
fuori a richiesta sia la natura morta, che il paesaggio o l'allegoria.
Francesco Beda conobbe da ragazzo questo bel tipo, che andava a trovare
di quando in quando. Era un pezzo d'uomo alto e forte e già oltre la
settantina. Da buon tedesco era entusiasta della musica e quando
l'ascoltava, per godersela meglio, si ficcava il dito pollice della mano
destra in bocca e lo succhiava e, come correva sempre in cerca di
delizie musicali, il suo dito portava visibili tracce di corrosione.
Viveva solo, ma oltre al vecchio cane che gli faceva compagnia dormendo,
teneva un merlo che saltellava per lo studio e aveva una spiccata
predilezione per quel mucchio di scopature che talvolta diventava
montagna. Era là che l'uccello si spassava e un po' col becco, un po'
con le zampe si ingegnava di far ritornare al posto di origine ciò che
la scopa aveva avuto cura di ammucchiare. I veri padroni di casa erano
però i topi che vi regnavano dispoticamente. Per rabbonirseli e perché
non gli rosicchiassero le tele, aveva gran cura di far trovar loro ogni
terzo giorno dei saltimpanza (panini dolci) freschi. In cambio le
bestiole non trovavano altra maniera di dimostrare il loro gradimento
che saltando insolentemente sulle ginocchia di quei visitatori che si
soffermavano più di un quarto d'ora nello studio. Il suo orologio a
pendolo era un capolavoro d'ingegnosità. I cilindri metallici che lo
facevano camminare, col tempo, chi sa come, erano spariti. Il Tumme, da
uomo di metodo, insofferente di inesattezze, alle quali la mancanza di
un orologio avrebbe potuto farlo incorrere, li aveva sostituiti con due
bottiglie di forma differente che già avevano contenuto del vino Terrano
» per il quäle aveva una spiccata predilezione, e l'orologio non si era
punto accorto di essere messo in moto dai due fiaschetti d'acqua, ai
quali il Tumme dava la piena quando necessitava. Aveva poi una
fisionomia caratteristica: le labbra incorniciate da due grossi
mustacchi bianchi, che portavano costantemente tracce di umidore anche
nei giorni di gran bora. Per un difetto delle glandole, aveva una
salivazione abbondante, e distribuiva a destra e a sinistra
costantemente delle spruzzatine, senza far caso se a riceverle fosse la
sua grande tela o il canterano o il malcapitato visitatore che si
trovava a portata. Tanto è vero - raccontava il Beda - che più di una
volta rincasando dopo una visita fattagli, portavo le tracce di quel
secondo battesimo ed era mia madre ad accorgersene, perché mi redarguiva
: «Ti xe sta ancora da quel vecio pitor tedesco, xe vero ? ., e prendeva
una pezzuola e mi asciugava.. Non aveva delle abitudini speciali nel
vestire, portava la giacca del taglio di quel tempo abbottonata fino al
mento. Appariva decente. Solo forse i suoi indumenti intimi accusavano
qualche leggero inconveniente. Mutava di camicia solo quando aveva
bisogno di uno straccio per pulire i pennelli. Vendeva abbastanza bene i
suoi quadretti. Da ultimo trovò uno che ne fece incetta insieme con
quelli del Malacrea, cioè quel libraio Czerwinsky, al quale successe poi
lo Schimpff in Piazza della Borsa.
Dopo il 1860 il numero dei nostri artisti si era accresciuto di molto.
Oltre al Gatteri, al Berlam, al Capolino e a Cesare Dell'Acqua, che
lasciò Trieste in quel torno di tempo per stabilirsi nel Belgio, si
notavano il Collamarini, il Moretti, il Fabretto, lo Hönigmann, lo
scultore Cameroni, l'Acquarolli, lo Zuccaro, il Marconetti, il Cortivo e
gli scultori Spaventa e Depaul: tenevano convegno al Caffè Chiozza.
Altri vivevano separati, come l'Astolfi, il Mayerhofer, il Baykoff, l'
Haase, il Fiedler, l' Höning, questi ultimi tutti stranieri.
Giulio Carlini da Venezia vi faceva annualmente delle soste abbastanza
prolungate ed eseguiva ritratti. Cosi fu poi di altri due ritrattisti:
il Sorio, veronese, e il pastellista Della Valentina.
Pasquale
Revoltella. (Da una litografia di Kriehuber - Vienna 1855).
Pasquale Revoltella, mecenate e filantropo per eccellenza, fu il più
gran signore che abbia avuto Trieste. Nato a Venezia nel 1795,
apparteneva a una famiglia umile e poverissima di macellai, nella
parrocchia di S. Geremia. Rimasto orfano di padre fin da bambino, fu la
madre Domenica che con stenti lo allevò, supplendo come potè alla sua
istruzione che allora era troppo difettosa nelle scuole. La sua infanzia
fu rallegrata da questo affetto materno, che gli lasciò memoria di
gratitudine e di venerazione e impresse un tratto caratteristico alla
sua vita.
Venne qui nei primi anni del 1800. Dopo dure prove, seppe farsi strada
da sè, fondò una casa di commercio che importava legnami e granaglie e
col tempo si arricchì a dismisura.
Vado debitore di gran parte di queste notizie all'amico Alfredo Tominz,
che le seppe per bocca di suo padre il quale visse molto vicino al
Revoltella, come pure da suo zio Carlo Marussig, che fu uno dei
procuratori della ditta. Abitò la casa Fontana in Piazza del Sale fino a
che non fu compiuto il palazzo che stava costruendogli l'architetto
Hitzig di Berlino, autore del teatro reale di Dresda Il palazzo fu
inaugurato nel 1858 con un gran ballo al quale intervenne anche
l'arciduca Massimiliano, allora governatore della Lombardia. Fu un
animatore di tutte le arti; letterati, artisti e scienziati furono da
lui splendidamente onorati. Fu un impareggiabile suscitatore di energie.
Fondò con Francesco Gossleth la Scuola Triestina di disegno che prese
poi il nome di Banco Modello. Francesco Gossleth era falegname edile.
Gran parte del mobilio del palazzo Revoltella e del castello di Miramare
è opera sua. Abitava nel suo palazzo di via Bellosguardo, oggi proprietà
del barone Leo Economo nel Viale della III Armata. Armonia, ribattezzato
poi Teatro Goldoni e malauguratamente demolito ai nostri giorni. Creò e
finanziò la Compagnia Drammatica Bellotti-Bon e si era quasi accordato
con Gustavo Modena per istituire a Trieste un teatro stabile di prosa,
progetto questo che poi, non so per quale ragione, non potè essere
effettuato. Nel suo palazzo si succedevano feste, balli, grandi
ricevimenti ai quali partecipavano le famiglie più cospicue della città.
Balli, feste e fiere di beneficenza a pagamento si alternavano con
grande larghezza ed il ricavato andava per lo più devoluto all' Istituto
di Beneficenza del quale fu uno dei fondatori e per il cui incremento
nessuno contribuì quanto lui.
Ebbe sempre parte
attivissima come presidente nelle esposizioni annuali della Società di
Belle Arti. Erano di casa sua i pittori Butti, Haase, Augusto Tominz, lo
scultore Bottinelli, Pizzolato, Gioacchino Hierschel (in arte Van Hier),
ottimo pittore di marine, e lo scultore Depaul.
D'estate partiva per le spiagge nordiche di Ostenda, del Belgio, della
Francia e terminava solitamente a Parigi, viaggiando sempre nella sua
berlina, fornita persino della cucina e di ogni sorta di comodità.
Talvolta villeggiava al "Cacciatore", nel suo casinetto rustico, in
mezzo al magnifico parco, affidato alle cure di un sapiente e rinomato
giardiniere, Severino Milanese, che fra le piantagioni più rare
coltivava nelle serre quei famosi ananas che comparivano ai grandi
pranzi del signore. In questo parco fu terminata di costruire nel 1867
la cappella dove dovevano riposare i suoi resti mortali accanto a quelli
della madre, provvisoriamente collocati sotto l'altare della Beata
Vergine delle Grazie da lui fatto erigere nella Chiesa dei Gesuiti (S.
Maria Maggiore).
Tutto ciò che questo magnifico e munifico Signore operò - scrive l'abate
Luigi de Pavisich - fu a incremento e decoro della sua città di
adozione. Fu per sua iniziativa che sorse il grande albergo Hôtel de la
Ville, dapprima nominato Metternich. Fu uno dei promotori e il più forte
azionista nella costruzione del Tergesteo, della Villa Ferdinandea, del
Bersaglio, del Teatro Armonia, dello Stabilimento Tecnico Triestino e
della fabbrica di birra Dreher.
Alle chiese non diede soltanto il suo obolo, ma molte devono a lui gran
parte delle ricchezze in esse custodite. Contribuì con ingenti somme
all'erezione della Chiesa dei Cappuccini. Donò un ostensorio e molti
arredi sacri, che erano stati rubati poco prima, alla Chiesa di S. Maria
del Soccorso, facendovi pure il pavimento di marmo. Fu munifico verso i
Conventi delle Monache Benedettine di Trieste e dei Francescani di
Capodistria, nonchè verso altri dell'Istria, della Dalmazia e della
Bosnia e verso quelli delle Servite Eremitane Scalze di Venezia e di
Chioggia. Si deve pure alla sua generosità se la Chiesa di S. Geremia a
Venezia, dove il Revoltella fu battezzato, può vantare quella magnifica
facciata ed il sontuoso pavimento. Volle che la Chiesa dei Mechitaristi
di Trieste avesse il suo organo. Donò lampade d'argento e un baldacchino
alla Chiesa di S. Giacomo Una lampada ricchissima donò pure al convento
di Ramie in Terra Santa. Altre chiese del Friuli, del Goriziano, del
Trevigiano, di Spalato, di Prevesa, di Antivari, della Turchia, della
Svizzera, quella votiva di Vienna, ebbero da lui doni e contributi.
Ma sopra tutto gli istituti di beneficenza furono sempre da lui
prediletti. Contribuì largamente all'erezione del nostro Civico
Ospedale. A lui devono riconoscenza 1'Ospedale Infantile, la Società di
Mutuo Soccorso per Infermi, l'Istituto dei Sordomuti di Gorizia, quello
delle Pericolanti di Venezia, degli Orfani dei Pescatori di Chioggia e
delle Convertite e Scarcerate. Fece generose elargizioni per il riscatto
dei fanciulli cristiani in Turchia e per i neofiti maomettani ed
israeliti.
Molte cose utili alla cultura morale e intellettuale della sua cara
Trieste ideò e compi, e fra le altre menzionate è, si può ben dire,
opera sua la Scuola Superiore di Commercio oggi Regia Università di
Scienze Commerciali, che, secondo il suo testamento, doveva intitolarsi
« Fondazione Pasquale Revoltella ». Da lui venne edita in 10.000
esemplari l'elegante Guida in lingua italiana, tedesca e inglese Tre
giorni a Trieste, scritta dal Formiggini, dal Kandier, dallo Scrinzi e
da lui stesso e pubblicata in onore dei delegati della Società delle
Ferrovie che nel settembre 1858 si riunirono a Trieste. Apprezzando i
sommi vantaggi che alla nostra città apportava il Taglio dell' Istmo di
Suez, ne fu a Trieste il primo e caldissimo propugnatore : perciò la
Società lo acclamò riconoscente suo Vice Presidente, e quindi, quale
Presidente della Camera di Commercio, fece parte della Commissione che
doveva riunirsi in Egitto col Lesseps per trattare di quella grande
impresa.
Pasquale Revoltella era celibe: un bellissimo uomo, alto e imponente di
persona e vivacissimo di modi. Pareva una figura napoleonica, elegante e
irreprensibile nella sua redingote color noce, i calzoni attillati, il
panciotto a fiorami e la tuba di castoro. Suoi amici inseparabili erano
il barone Hierschel, Pietro Kandier, i Sartorio e de Minerbi. In sul
mezzogiorno arrivava al suo posto di osservazione dinanzi al negozio
Tropeani, in Piazza della Borsa. Non conosceva il francese, ma al
passaggio di qualche bell'esemplare femminile faceva scappar di bocca
due o tre paroline in quella lingua. Fu un grande conquistatore di cuori
femminili e vuolsi che di molti abbia avuta assoluta padronanza. Ai suoi
pranzi ristretti conveniva anche quell'ineffabile e dotto medico che
portava il nome di dottor Alessandro de Goracuchi e che quarant'anni or
sono camminava ancora per le vie di Trieste a tutte l'ore in marsina,
con largo sparato della camicia e i polsini a bracchette.
Costui faceva sempre molto onore alla tavola del Revoltella, che
quand'era di buon umore si spassava delle sue trovate più o meno
scientifiche. Il dottor de Goracuchi, quando s'assideva a tavola poneva
il suo gibus a terra, fra i piedi. Ciò che non arrivava ad ingoiare, lo
faceva pian pianino scivolare dal piatto nel suo cappello. Il Revoltella
mandò a studiare all' Accademia di Venezia i pittori Francesco Beda e
Alberto Rieger e fu il protettore di Cesare Dell'Acqua e di Giuseppe
Lorenzo Gatteri.
Mandò la figlia del suo maggiordomo, Rosina Voena, cremonese, a studiare
il canto al morte di lui, vennero a mancare alla protetta i mezzi
necessari per la continuazione degli studi, fu il barone Giuseppe de
Morpurgo che continuò a sussidiarla. Essa divenne una cantante celebre e
con la famosa Kupfer esordi all'Apollo di Roma.
Durante la catastrofe del 1860 e lo scandalo delle forniture nella
guerra d'Italia del 1859 sorse un sospetto di correità anche su Pasquale
Revoltella che fu deferito al Tribunale di Vienna; egli però fu assolto
da ogni imputazione per mancanza di prove, e un anno dopo nominato
barone.
Pasquale Revoltella mori nella sua villa «al Cacciatore » nel settembre
del 1869 a 74 anni. La salma venne trasportata in città ed esposta nella
grande sala del secondo piano del suo palazzo, convertita in cappella
ardente. Tutta Trieste prese parte ai suoi funerali.
In lui la città nostra perdette un distinto e benemerito cittadino, -
scrive un giornale del tempo - che anche dalla tomba con la generosa
eloquenza delle sue beneficenze e dei suoi provvedimenti pare che
imponga silenzio a ingiusti avversari, ed ecciti i migliori a seguire il
suo esempio. Ultimo monumento che egli pose a se stesso è il suo
testamento. Da esso vedesi come egli amava la nostra città, come ne
desiderava il progresso, la prosperità, il decoro. Quanti seppero,
quanti sanno fare altrettanto? La pratica delle mercature fu il campo
dove egli colse tesori. Con la moderazione e con la rettitudine arricchì
per arricchire gli altri, per largheggiare coi poveri, per promuovere
utili e pratiche istituzioni, e da vero mecenate, allogando lavori
d'arti belle, incoraggiando chi per l'arte sentiva in sè ardere la
scintilla dell' ingegno. Ebbe per la madre un potente affetto e fu la
sola donna che egli amò davvero. Al posto della casa meschina ove egli
passò con essa i primi anni di vita nella più pura armonia di affetti,
elevò più tardi all'Armonia: un elegantissimo teatro, e la casetta
prossima ai suoi magazzini fu poscia da lui convertita in un palazzo che
per magnificenza, splendore e sontuosità è il gioiello della nostra
città. La solennità alla quale andiamo incontro, quale è appunto
l'inaugurazione del canale di Suez, ricorderà a onore e speranza di
Trieste la parte vivissima che egli prese in quest' opera di
civiltà. Fu sua madre che sempre lo incitò e incoraggiò a non disperare
di se stesso, a ripromettersi tutto dalle proprie risoluzioni ed a
formarsi quella temprata energia dell' indole che lo distinse poi in
tutto il corso della sua vita. Fu acclamato padre dei poveri e con
gentile pensiero li volle sempre partecipi nelle feste della carità. Fu
religioso ma senza ostentazione ed egli si era preparato già da lunga
pezza con filosofica e cristiana rassegnazione a rinunciare alla vita
presente.
Egli lasciò erede il Comune del suo palazzo con tutte le collezioni
d'arte, numismatiche, libri, mobili, a condizione che questo venisse
convertito in un Museo di Belle Arti, e vi aggiunse una generosa
dotazione. Mercé la generosità di questo suo figlio adottivo oggi
Trieste può vantare una istituzione che è di gran lustro e decoro del
paese: il Civico Museo Revoltella. Per la saggia amministrazione del
capitale fondazione, dovuta ai suoi Curatori, esso potè arricchirsi in
seguito di opere egregie.
Spero che questo Museo, - egli scrive nel suo testamento - prenderà
gradatamente quello sviluppo, che è nelle mie migliori intenzioni, e che
il Municipio non gravato da altre spese, tranne quelle d'imposta, di
custodia, della conservazione dello stabile e degli oggetti, vorrà
secondare le mie speciali raccomandazioni, dedicando la sua premurosa
sollecitudine ad un istituto che tornerà ad ornamento e decoro di questa
città tanto da me affezionata. Lasciò inoltre un capitale di tre milioni
di fiorini in legati e opere di beneficenza a Trieste e a Venezia.
Non dimenticò la Chiesa di S. Geremia in quest'ultima città, lasciando
un rilevante importo destinato all'ultimazione della medesima. Il
podestà dott. Massimiliano d'Angeli, commemorando il trapassato in una
seduta del Consiglio Comunale, deplorò la perdita di un uomo sotto ogni
titolo meritevole della riconoscenza della città, il quale, sebbene non
nato a Trieste, diede le più ampie prove di affezione e di simpatia a
questa città, ed anche morendo volle darle testimonianza del suo
affetto.
(C.W.)
"Isolato dei Berlam". Grattacielo di Arduino e
Palazzo Gopcevic di Giovanni Andrea
Alla metà esatta del XIX secolo Giovanni Andrea Berlam fissa l'esordio
dello storicismo eclettico in Trieste, elargendole il primo prospetto
rinascimentale sul Canal Grande nel colorismo veneto del Palazzo
Gopcevic. Radioso e conciliante, inaccessibile alla banalizzazione, sarà
lo stimolo esemplare per gli architetti delle generazioni successive,
almeno fino a quella del nipote Arduino, che un'ottantina d'anni più
tardi salderà a questo fabbricato il fervore policromo del suo
'Grattacielo' sancendo un'ideale continuità di visione trascendente
l'evolversi dei modi e delle mode. Che sono stati tanti.
Trieste,
Chiesa Evangelica
Augustana
Trieste, Tempio Serbo-ortodosso
Il revival del
Gotico – ortodosso o composito – e la fascinazione per l'Oriente (testi
essenziali: la Chiesa Evangelica Augustana, il Castello di Miramare e il
tempio Serbo-ortodosso) preparano la strada al più coraggioso intervento
monumentale nella città: il progetto della nuova Piazza Grande.
Trieste, Municipio
Trieste, Palazzo
Modello
Così,
nel 1875, Giuseppe Bruni, dopo il brillante assaggio angolare del
Palazzo Modello, darà al Municipio il magnifico apparato di chiaroscuri
e torre che resterà per sempre a sigillo della prosperità dell'emporio
nel pieno della sua ascesa.
Trieste, Palazzo
Lloyd Triestino
Trieste,
Prefettura
Sulla platea, finalmente aperta al mare,
ulteriori istanze stilistiche metteranno poi a confronto le sedi del
Lloyd Triestino e della Luogotenenza; ma affinché questo accada si dovrà
oltrepassare la soglia del nuovo secolo. Nel frattempo, Ruggero Berlam
onora il padre dando corpo al sogno della renovatio urbis tra
colpi di teatro (comunque perdonabili come peccati di generosità) e atti
di autentica poesia architettonica. Nutrito dell'insegnamento
neomedievalista di Camillo Boito all'Accademia di Brera, sarà ricordato
dagli storici soprattutto come l'artefice del risarcimento
italianizzante per una città che – come è noto – languiva nell'inazione
mentre la civiltà dei Comuni stava fornendo al Paese il suo lineamento
edilizio forse più genuino (quella che il Boito definiva la 'maniera
municipale del '300'). Casa Leitenburg (1889) avrà in tal senso la forza
di una dichiarazione d'intenti, oltre che di stile: lo si definisca
fiorentino o centroitalico, resta in grado di operare una vera e propria
sospensione d'incredulità, tanto più straniante quando se ne valuti
l'impatto nella sua ubicazione assai lontana dal centro storico. Il
merito specifico delle creazioni del Berlam risiede a ben guardare in
questa loro singolarissima capacità di irradiante integrazione
dialettica nell'assetto urbano. Progressivamente, e in una continua
diversificazione delle proposte stilistiche che accetteranno via via il
lessico rinascimentale, manierista e barocco, i suoi progetti tenderanno
a conferire tono e atmosfera ai luoghi cittadini quasi a prescindere dal
rispetto o dallo sprezzo delle preesistenze, e come se possedessero il
dono d'improntare i rioni con risorse di gran lunga maggiori rispetto a
quelle limitate nella mera dimensione catastale. Il fascino di questi
progetti nasce dalla loro concezione intimamente medievaleggiante –
apporti a una città da comporre, da dipingere pezzo per pezzo – e non da
una verniciatura indistinta, o proditoria, di secondo livello.
Trieste, Case
Aidinian, via Benedetto Marcello
La
'città della' Aidinian (cinque fabbriche sulla pendice occidentale del
colle di san Vito culminanti in un blocco-fortezza munito di quattro
inconfondibili torrette di spigolo),
Trieste,Palazzo
Vianello
il palazzo Vianello con la sua
cornucopia di applicazioni scultoree, la Scala dei Giganti modellata in
una sorta di antropomorfismo presurreale, sono le tappe fondamentali di
questo itinerario.
Trieste, Palazzo
RAS
Trieste, Sinagoga
In seguito, nel periodo della piena maturità, il
contributo del figlio Arduino sarà prezioso per l'elaborato più calibratamente spettacolare di organismi in cui la magniloquenza delle
facciate varrà da preludio a una coltissima orchestrazione cromatica e
ornamentale degli interni: il Tempio Israelitico (1912), dove la vena
storicistica si avvale di sapienti recuperi archeologici, e la sede per
la Riunione Adriatica di Sicurtà (1914), curata in ogni singolo
dettaglio d'arredo, dai ferri battuti agli stucchi, dalla boiserie alla
mobilia, per non parlare della formidabile fontana col Gladiatore
realizzata in marmi assortiti dal fedele collaboratore Gianni Marin.
G. Marin, Fontana
del Gladiatore
Forse anche in ragione di tale patronato ( Raimondo D'Aronco ebbe a
definire i Berlam "padreterni dell'architettura") il gusto Art Nouveau
s'inserì nella facies urbana con spirito più di protocollo burocratico
che di effettivo ammodernamento, a meno che il demone dell'horror
vacui non moltiplicasse i segni convenzionali dello stile in un
parossismo decorativo abile a ritrovare proprio nell'eccesso una
paradossale freschezza (Casa Smolars di Romeo Depaoli, 1907).
Trieste,
Casa Smolars
Trieste, Narodni Dom
Ma le voci
dei giovani forti di un bagaglio culturale aggiornato all'indirizzo
viennese della Wagnerschule fanno da contraltare all'eclettismo in una
maniera appena poco meno che sorprendente; ed ecco in Max Fabiani,
Giorgio Zaninovich e Umberto Fonda la declinazione dello Jugendstil
secondo cifre di volta in volta ascetiche (la Narodni Dom che porge la
guancia al citato Palazzo Vianello;
Trieste,
Casa Bartoli
Trieste,
Casa Valdoni, particolare
Casa Bartoli che – perlomeno
nell'aspetto odierno – si ricorda di essere floreale giusto nei festoni
che scrosciano dalla cimasa), 'debussiane' (Casa Valdoni in via
Commerciale, sognata con un piglio vagamente fantascientifico) oppure,
ed è il meriggio più terso, di aurea prosodia
Trieste,
Casa Fonda, angolo
via Navali via Segantini
(case Fonda agli incroci Carpison/san Francesco, Testi/Galleria e soprattutto sull'angolo
Navali/Segantini, baciato dall'ispirazione del capolavoro).
Come nell'architettura, così nella pittura. Smessa l'attrazione per la
classicità, la nuova generazione, per un certo tempo non ancora incline
a seguire percorsi di formazione alternativi al collaudato magistero
delle accademie veneziana e viennese, attinge agli spunti trovati ora in
un passato più recente e ricco di linfa coloristica, ora più
semplicemente nella realtà, apprezzata in quanto tale e indagata con
crescente amore della verosimiglianza ottica.
E. Scomparini, Il
Genio incorona la Musica
Eugenio Scomparini (1845-1913) può considerarsi l'iniziatore di questa
nouvelle vague; di fatto, sarà la figura dominante nell'ambiente
artistico triestino, quella con cui, in un modo o nell'altro, si
sarebbero dovuti fare i conti. Una pittura, la sua, che agli occhi della
committenza altoborghese o istituzionale doveva apparire il non plus
ultra del 'bel decoro', tra pompa e circostanza, sfondati tiepoleschi -
opportunamente modernizzati con un pittoricismo dedotto dal Fortuny – e
ritrattistica delle grandi occasioni.
E. Scomparini, Se mi vedesse
E. Scomparini, L'Odalisca
E. Scomparini,
Ritratto di Margherita Gauthier
Malgrado la sua fama riposi in
particolare sulle sgargianti icone femminili (sia pure per opposte
ragioni, è difficile non cedere al fascino della Margherita Gauthier
o della fraschetta che maliziosamente fantastica Se mi vedesse...)
e i cicli allegorici di un Olimpo sempre piuttosto bene in carne, gli
spiragli di maggior interesse sulla sua anima di pittore sono concessi
dalle opere a dimensione di miniatura o poco più, dove la tecnica sempre
squisita si rende traslucida a un soffio di poetica intimità (la
Signora in abito bianco con cane, l' Odalisca).
G. Barison,
Autoritratto
Meno sofisticato e più raffinato al tempo stesso si manifesta Giuseppe
Barison (1853-1931), nei cui dipinti – essenzialmente ritratti, marine,
scorci paesaggistici e d'interno – circola un lume adamantino che
asseconda gli accordi di fragranti cromie, nella concentrazione di un
silenzio da controra. Artista assennato per il quale l'insorgere
dell'Impressionismo dovette apparire assolutamente logico e doveroso,
piuttosto che scandaloso e inintelligibile.
G. Barison, Quasi
oliva speciosa in campis (particolare)
L'occasionale frequentazione
del soggetto sacro gli farà inoltre consegnare alla città (per una volta
sia consentita l'iperbole) la più bella e intensa immagine devozionale
dai tempi della vestizione musiva capitolina, quella Quasi oliva
speciosa in campis esposta a Monaco nel 1899 e ivi acquistata
dall'architetto Giacomo Zammattio.
G. Barison, Veduta
di Pegli
Monaco, appunto. Agli inizi degli anni '80 alcuni ragazzi cui i consueti
circuiti di apprendistato risultavano ormai troppo ristretti, compiono
il gran salto e scelgono la capitale bavarese per il perfezionamento
degli studi. Vi menano, com'è prevedibile, vita bohemienne e assorbono
le suggestioni dell'Impressionismo attraverso la vulgata fattane da
pittori quali Max Liebermann, oltre al richiamo courbetiano verso la
raffigurazione del vero come recepito da un Wilhelm Leibl; né trascurano
l'esempio degli illustri modelli seicenteschi, da Rubens a Velazquez a
Rembrandt, interiorizzato oltre che per visione diretta anche grazie
alle fiammeggianti revisioni del von Piloty o del Lenbach.
I. Gruenhut,
Caricatura di Carlo Wostry
Tre sono i pittori che dal soggiorno monacense trarranno speciale
partito: Carlo Wostry (1865-1943), Isidoro Gruenhut (1862-1896) e
Umberto Veruda (1868-1904).
C. Wostry,
Autoritratto
Figura quanto mai versatile, ricca di un talento che avrà modo di
esprimere con la penna oltre che col pennello (sua la Storia del
Circolo Artistico di Trieste), Wostry incontrerà tuttavia nel suo
stesso eclettismo l'ostacolo principale a fissare un proprio canone
d'individualità.
C. Wostry,
Caricatura
di Isidoro Gruenhut
C. Wostry,
Caricatura di
Marcello Dudovich
C. Wostry,
Caricatura di Umberto
Veruda
Per giunta, una disposizione conservatrice molto meno
recondita di quel che potrebbe sembrare gli impedirà di mettere a frutto
le ulteriori esperienze straniere (quella parigina in primo luogo), che
non varranno a superare la qualità dei risultati raggiunti dalle opere
compiute entro il penultimo decennio del secolo.
C. Wostry,
Ritratto di Giuseppe Garzolini
C. Wostry,
Ritratto di Pietro Sartorio
Licenziate nel 1887 le
quattordici vaste tele della Via Crucis per Santa Maria Maggiore,
invero degne di nota per il costruttivo svolgimento della materia
chiaroscurale, stabilisce il suo primato in alcuni vigorosi ritratti 'larger
than life' (Giuseppe Garzolini, buia sagoma ritagliata all'impiedi
contro tenue fondale, Pietro Sartorio nerovestito, assiso fra un
tripudio di tappeti e broccati) e sfiora il capolavoro nel modernissimo
Autoritratto in controluce.
C. Wostry, Martirio di san Giusto
Da questo momento, sfrangia il
percorso in un'esuberanza un poco fine a se stessa, per quanto non venga
a mancare la possibilità di isolarvi attimi di indiscussa riuscita, come
nel toccante Martirio di san Giusto, cui spetta l'onore
dell'ostensione basilicale, o nella maliarda grazia neorococò della
Scena boschereccia, o ancora nella calorosa istantanea del Quartetto
triestino.
C. Wostry,
Scena boschereccia
C. Wostry, Fede servita da Penitenza e Carità
Eccezioni a una torpida regola. Quando poteva già essere
troppo tardi, eccolo però escogitare un riscatto retrospettivo quanto
meno curioso. 1924, chiesa di San Vincenzo de' Paoli: se per l'anagrafe
stilistica l'affresco della Fede servita da Penitenza e Carità non esce
dalla tassonomia di un generico preraffaellismo all'italiana, la sincera
contrizione d'una mano messa al cuore prima ancora che agli strumenti
del mestiere compie il piccolo miracolo, arresta l'obsolescenza e
accorda all'impresa la Salvezza di un equilibrio finalmente atemporale.
Tempra più coerente quella rivelata dal Gruenhut, morto a Firenze a soli
trentadue anni, non prima, comunque, di aver profuse le sue doti
eccezionali in pitture dove semplicità e pregnanza di visione concertano
una sintesi altrove irreperibile nella pittura nostrana dell'epoca, e
forse non solo.
I. Gruenhut,
Ritratto di Umberto Veruda
I. Gruenhut,
La bambola
Due sono sufficienti a definire la grandezza di questo
artista che Wostry con ironico affetto soleva soprannominare 'il Gobbo':
il Ritratto di Umberto Veruda, essenziale quanto erudito, omaggio tra i
più spettabili mai tributati a Velazquez, e La bambola, il cui fatato
stupore non sarebbe dispiaciuto, si può credere, al giovane Edvard Munch.
U. Veruda, Sii onesta!
U. Veruda,
Terzetto
Vita breve e talentuosa, quasi atto di solidarietà col destino
dell'amico Gruenhut, toccò pure al Veruda, salutato ai tempi come il più
audace innovatore tra i locali. Sodale di Svevo, cui fungerà da modello
per lo Stefano Balli di Senilità, dandy irrequieto, delizia dei
caricaturisti, sarà in grado di destreggiarsi con slancio appassionato
tra le sirene della mondanità (la perfetta fotografia belle époque del
Terzetto, i fruscianti ritratti di dame e maggiorenti – servano a
esempio quello di Nina Janesich Rusconi per le prime;
U. Veruda,
Ritratto di Nina Janesich Rusconi
U. Veruda,
Ritratto di Delfino Menotti
U. Veruda,
Ritratto di
Guido Grimani
del baritono
Delfino Menotti per i secondi – oltre che di colleghi, tra i quali è
doveroso ricordare la sopraffina effigie di Guido Grimani) e un
patetismo 'larmoyant' sempre e comunque temperato dalle ragioni della
pittura autentica: si apprezzino la sorprendente litote del Sii onesta!,
acquistato con lungimiranza dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di
Roma, e la bruna massiva partitura del De profundis.
U. Veruda,
Fondamenta a Burano
U. Veruda, Nudo di schiena
Nelle ultime opere
si accentua l'emancipazione del tocco: conquista ben visibile in modi
virtuosistici nelle Fondamenta a Burano, ma affatto inediti nel
frazionamento pulviscolare del Nudo di schiena, impegnativo ed
enigmatico saggio di gusto addirittura sperimentale, quasi caleidoscopio
postimpressionista, non a caso raccolto, alla morte dell'artista,
dall'amico Italo Svevo.
A. Fittke,
Fanciulla con bimbo
La scomparsa altrettanto prematura di Arturo Fittke (1873-1910) fu
tragedia anche più dolorosa: incapace di pervenire a un armistizio con i
suoi fantasmi, si diede la morte con un colpo di pistola. Schivo,
modesto, rimase ignorato da quel successo di cui, in diversa misura,
poterono invece beneficiare parecchi suoi colleghi; sfibrato
dall'assillo di carpire alla natura i segreti della luce, circonfuse
d'un alone tutto introspettivo la visione impressionista, appresa, come
oramai era prassi, in quel di Monaco. Impressionismo sussurrato a fior
di labbra, crepuscolare persino in pieno sole, e carico di trattenuta
afflizione. Stringata la gamma dei soggetti: ritratti (per lo più teste,
e in massima parte di bambini), cantucci fioriti, spicchi di paesaggio.
A. Fittke, Funerale del bambino
(1909)
Se insorge la tentazione della 'scenetta', originalità compositiva unita
a struggente lirismo di illuminazione scongiurano il rischio del
disimpegno interlocutorio: il Funerale del bambino (1909), col suo
taglio fotografico accarezzato di chiarore 'plein air', sta a provarlo
in umile solennità.
"Aristocratico distacco" è formula nel complesso azzeccata per
inquadrare la figura di Arturo Rietti (1863-1943), a patto che la si
spogli di connotati snobistici e la si riconduca all'elezione di una
nobiltà schiettamente sentita.
A. Rietti, Donna che legge
Pastellista provetto (poca pittura a olio
nella sua produzione), attratto dalla Scapigliatura lombarda, trae da
questo medium difficile ed elitario effetti di soggiogante ricercatezza,
in una trama d'atmosfere prossime al versante più psichico e notturno
del Simbolismo europeo: la Donna che legge ne sonda con scaltrita
affabulazione gli esoterici territori.
A. Rietti, Dalla terrazza di Palazzo Carciotti
La concretezza tutelare
dell'ammiratissimo Degas lo riaccompagna, talora, verso esiti meno
capziosi. Come capitava agli stessi simbolisti, Rietti è poi anche in
grado d'intuire l'avanguardia: un cosino di quadretto (parlando
beninteso di dimensioni!) quale Dalla terrazza di Palazzo Carciotti,
trattato a grossi fiotti di materia, proclama un abbandono pressoché
astrattista;
A. Rietti, Veduta di Barcola
la Veduta di Barcola incorniciata entro il controluce d'una
balaustra si approssima al Balla delle prove precedenti d'un millimetro
la sintesi futurista. Coincidenze? Sicuro. Per singolare presa di
posizione, il nostro si professa infatti ostile sia all'accademia sia
agli "ismi" di rottura.
A. Rietti, Statuina giapponese inginocchiata
Non che ciò esaurisca le sorprese; la presenza
della Statuina giapponese inginocchiata (culmine a un ciclo tardivo –
siamo nel 1935 – di eterodosse nature morte) non può dirsi, a essere
obiettivi, Metafisica in senso stretto, eppure non ci si troverebbe
tanto facilmente a corto di prove se si volesse legittimare un qualche
vincolo di parentela.
M. Dudovich, Novità estive,
1908
Ad una generazione per la quale il mo(vi)mento Jugend rappresenta,
ormai, soltanto una tappa giovanile appartiene Marcello Dudovich
(1878-1962): a rigore, egli farà fruttare appieno le sue qualità di
cartellonista negli anni '20. Nonostante questo, gli affiche che
inventa, ad esempio, per la Federazione Italiana Chimico-industriale di
Padova (Fisso l'idea, 1899) o per i Magazzini Mele & C. di Napoli
(Novità estive, 1908) valgono come interpretazioni tra le più
intelligenti di quella temperie; nella prima, segnatamente, agisce anzi
una distillazione del messaggio pubblicitario che, pur accettandone in
tutto la fisionomia – Beardsley è a un passo – travalica in ultima
analisi le istanze dello specifico momento stilistico incarnando una
modernità senza aggettivi.
Nato a Trieste il 20 settembre del 1854, Ruggero Berlam è l'esponente
intermedio di una dinastia di costruttori che dalla metà del XIX secolo
al primo quarantennio del Novecento impresse un sigillo ineguagliabile
alla fisionomia architettonica e urbanistica della città: il padre
Giovanni Andrea (1823-1892) era stato il primo ad introdurvi i modi di
un revival stilistico (quello che genericamente si conosce col termine
assai equivocabile di 'eclettismo') valido a riprendere su tutt'altro
registro l'insegnamento dello storicismo neoclassico, mentre il figlio
Arduino (1880-1946) ne avrebbe perpetuata la lezione temperandola con le
istanze più fresche della modernità, oltre a distinguersi nel campo del
grande arredo navale.
Dopo una prima formazione compiuta presso l'Accademia di Venezia
(1871-74), Ruggero perfeziona gli studi nel triennio successivo nella
milanese Accademia di Brera, sotto la guida di Camillo Boito, all'epoca
il maggior teorico del rinnovamento architettonico italiano, il cui
esempio (elaborare un linguaggio nuovo coll'"annodarsi a uno stile del
passato" perdendone però "il carattere archeologico" e ispirandosi al
temperamento "incontestabilmente italiano" dell'architettura lombarda o
delle "maniere municipali del Trecento") gli rimarrà imprescindibile
fino al termine della carriera, pur allargando il raggio della
rivisitazione stilistica ai modelli più maturi del Cinquecento o del
Barocco, facilitato di suo da un talento grafico eccezionale. Vale
sempre la pena ribadire la celebre osservazione di Pietro Sticotti
secondo la quale "egli fece il pittore per tutta la vita, anche quando
architettava".
Fin dal principio il nostro ha modo di confrontarsi con progetti di
largo impegno, tra i quali vanno segnalati quelli per la sede della
Cassa di Risparmio locale, per il rifacimento – che immagina in accenti
goticheggianti – della facciata del duomo goriziano e soprattutto per il
secondo concorso internazionale del Vittoriano a Roma.
L'esordio fisico in città coincide con l'arricchimento di due ambiziose
imprese paterne, tra 1878 e 1880. La casa all'attuale civico 24 della
via Carducci, all'epoca accolta dagli applausi della critica, integra il
prospetto con un entusiastico prontuario di soluzioni
tardorinascimentali: sarebbe sufficiente citare le specchiature a
graffito e la parte inferiore delle semicolonne giganti cinta da putti
in carosello, ma è difficile tacere dei gruppi leonini chiamati a
sostituire il fogliame in tutti i capitelli maggiori. Se, com'è
prevedibile, patisce d'un eccesso di severità da parte della
bibliografia più recente, le rimane, per consolazione, il primato della
fantasia tra i prospetti che fanno ala a questa importante strada di
scorrimento. Gli interventi su palazzo Hermanstorfer (via Battisti 6),
dal canto loro, giocano sulla promiscuità contraddicendo l'archiacuto
nelle aperture del pianterreno con stratagemmi chiaroscurali di stampo
manierista nel comparto centrale (protomi di nuovo leonine per i
mensoloni sfaccettati sotto il balconcino del secondo piano; ghirlande,
rivestimenti embricati e testoni intorno alle quattro finestre mediane
dello stesso).
In una decina d'anni (1884-1893), Ruggero sparge altrettante costruzioni
sul colle di san Vito: quattro risultano commissionate dai Bazzoni.
All'incirca come un segnale d'allarme trilla il villino al civico 4
della via omonima (1888); le munizioni cilindriche d'angolo e
soprattutto gli slittamenti affannosi imposti agli strombi delle
finestrelle toscaneggianti palesemente non sono estranei a trame
caricaturali. Un anno dopo, comunque, eccolo riacquistare disciplina
nella ferma impostazione volumetrica della villa Haggiconsta, ritirata
in un parco sul viale Romolo Gessi. La redazione finale del progetto
sfronda gli accenti fiabeschi del concepimento e affida al corpo
occidentale l'intensificazione d'un torretta appena leggermente
capricciosa, il cui modulo verrà ripreso di lì a una quindicina d'anni
per i rinforzi del quinto caseggiato Aidinian in via dei Giustinelli.
Casa Leitenburg (1889) ha la perentorietà del capolavoro e il carisma
del simbolo. Affermazione di piena consapevolezza artistica non meno che
ideologica, è il reinvestimento definitivo del sempre presente auspicio
boitiano nel contesto congenitamente ricettivo della città irredenta.
Incunabolo locale di uno stile che Pietro Sticotti appellò 'fiorentino'
ma che secondo l'analisi degli studiosi successivi si inclina a recepire
suggerimenti da un più ampio circondario centroitalico, sospende
l'incredulità e s'installa nell'indaffarato crocevia Giulia/Rossetti con
felice voracia appropriativa. Tonante, piena di grazia e maestà, si fa
forte di una deferenza mimetica personalissima che non incrinerebbe
l'assetto di via de' Tornabuoni a Firenze, Piazza Tolomei a Siena o
Corso Vannucci a Perugia. Tutti i caratteri della famosa 'maniera
municipale' agiscono a piena potenza spazzando via ogni imbarazzo: la
sfida è decisamente vinta da questo palazzo 'in stile' tra i pochi a non
avere il birignao e dove non si annusi la polvere dell'accademia. Le due
fronti – più rappresentativa quella su via Giulia – accoppiano o isolano
finestre architravate nel primo piano e a pieno centro nel secondo e
terzo, ove sono rimarcate, di contro lo sfondo minuto del cotto, da
estradossi a conci più larghi che le assecondano in un quasi
impercettibile dirottamento archiacuto; la cimasa, infine, riceve la
calda stesura dell'affresco e proietta degli sporti in legno a sostenere
la rustica linea di gronda. I ferri battuti che scandiscono il prospetto
in riccioli di disegno araldico sono richiamati nella affilata lucerna
appesa allo spigolo, arieggiato più su dalla stupenda loggia a pianta
pentagonale: questa si esalta nello stacco cromatico delle balaustre e
del fusto in pietra bianca che illuminano il profilo della
portafinestra, ancora distintamente affrescato a fiorami (e bianco
sarebbe, a onor del vero, anche il partito di pietra svolto nei primi
due livelli, ovvero fino all'altezza della loggia, se gli scarichi dei
veicoli in traffico costante non l'avessero intriso con una spessa
patina di nerofumo).
Un equilibrio mai eguagliato dalla miriade di imitatori o infatuati
(fino al 1940 sorgeranno oltre duecento fabbricati in quest'ispirazione,
specie nel distretto di Barriera Vecchia), ma nemmeno dallo stesso
ideatore. Berlam ritenterà il colpo nel 1906, di nuovo sfruttando un
incrocio, e questa volta oltremodo decentrato (vie Piccardi/dell'Eremo).
Brachilineo cassettone asperso d'ingentilimenti sottili sottili, il
palazzo scala la fronte secondaria sul dislivello di via dell'Eremo, ciò
che comporta un effetto ponderale rovinoso, da piombo nelle ali, anche
se questa stessa pesantezza, da un altro punto di vista, può
trasformarsi nello spettacolo di una potenza selvaggia, espressivamente
oltre la portata di tanti altri interventi architettonici del periodo.
Ritorna l'incantamento e l'insegnamento specifico di Casa Leitenburg a
disegnare un Medioevo più vero del vero, e le finiture poche volte sono
state altrettanto intonate: le cartelle a saporite sfumature d'affresco
sull'attico, il balcone foggiato alla veneziana, i listelli marmorei che
striano in orizzontale la densità della massa, ecc.; malgrado tutto,
qualcosa di importante si è perso, o non è riuscito a filtrare. Così, la
ricchezza di concetti che aveva presieduto alla creazione del prototipo
adesso si traduce in una spoglia senza dubbio evocativa, ma ormai vacua
e scaricata, orfana del significato iniziale.
In rapporto al filone, quest'opera può dirsi la battuta d'arresto. Fino
a questo momento (per non dire di quello seguente), comunque, le strade
intraprese saranno quasi sempre costellate di riuscite, in una gamma di
proposte, per giunta, sorprendentemente ampia; come se in effetti
l'artista potesse operare in modo davvero proficuo solo a patto di
praticare la differenziazione sistematica della cifra linguistica.
Tornando agli anni 1890, vediamo che lo spirito in qualche modo
pacificato così come espresso nella villa Haggiconsta, fissa uno
standard di eccellenza per il versante più classicista dello storicismo
eclettico con un progetto a beneficio del Circolo Artistico di Trieste,
consistente in un salone elevato sopra il caffè del Teatro Fenice e
schermato da una facciata (via san Francesco) di aureo senso
proporzionale, esemplare per nitidezza e semplicità. Sarà necessario
attendere lo scadere del decennio perché il Berlam ripristini una
analoga felicità d'ispirazione. Tornando all'isolato Leitenburg, eccolo
quindi contrassegnarne il capo opposto, all'angolo con la via
Piccolomini, col marchio di un caseggiato che Marco Pozzetto annoverava
tra i più belli costruiti in città alla fine del secolo. Difficile dire,
tra parentesi, se per l'apprezzamento delle sue linee il massiccio
maquillage cui è stato sottoposto da poco sia meno nocivo dello
scadimento cromatico e dell'immancabile annerimento da smog subiti in
precedenza. Il palazzo (via Giulia 5) resta prodigo di sottigliezze. Al
pianoterra, sfilata di arconi sorreggenti un'indovinatissima teoria di
oculi circolari, per la cui valorizzazione è di rigore un mezzanino in
sordina; piano nobile arbitro d'eleganza con finestre e portefinestre
(tre i balconi) rimarcate dal cesello delle candelabre, non concesso
invece alle aperture rettangolari nel livello superiore, che l'assenza
di marcapiano rende compositivamente partecipi dello stesso settore;
ripasso di ghiere intorno alle finestre dell'ultimo piano, siglato col
grafismo erudito del cornicione rinascimentale.
Se anche a Trieste sono maturi i tempi per la fioritura del Liberty, il
nostro si dichiara avverso alle sue novità. Le due villette edificate
per i Modiano sulla via Rossetti (civici 77 e 79) provano ad adattarne
qualche locuzione, ma l'esercizio appare svolto controvoglia. L'unica
maniera, del resto, che Ruggero (almeno in ambito cittadino) trova per
attuarlo con profitto è quella di contraddirne gli assunti saggiandone
l'applicabilità al suo bagaglio storicista. Risultato, quella bizzarra
creatura che è la casa al numero 36 di via Piccardi. Decorata in
libertà, zeppa di consapevoli incongruenze (il derisorio parato floreale
dalla qualità meno che scolastica, l'impiego dei mattoni a vista), sa
chiaramente di truffa. Indicativo comunque dei suoi gusti e disgusti,
sorta di confessione burlesca, anzi, il lavoro sarà rettificato nel
palazzo adiacente sopra descritto (civico 38), non a caso senza troppa
soluzione di continuità nella scelta dei materiali, per riaffermarne la
correttezza d'uso.
Palazzo Vianello (1905) cerca la meraviglia a qualsiasi costo. Lo
stentoreo manto orchestrale che lo affardella di obelischi, statue,
concrezioni, applique e arzigogoli rasenta la perversione, segnando il
punto di non ritorno nella ricerca ornamentale del nostro. Diamo atto
che la costruzione non assomiglia da vicino a nessun'altra di quelle che
l'hanno anticipata, così da non accusare alcun segno di stanchezza e
vanificare la spinta a eventuali confronti. Per quanto ingombrante possa
risultare, vive in effetti di personalità propria. I motivi della
facciata fioccano con tutta l'energia possibile e distolgono
l'attenzione dal repertorio profuso sugli altri lati, dove pure non
mancano occasioni d'interesse: quasi sconosciuto, infatti, il fianco su
via XXX Ottobre, sul quale si apre un portone stravagante per esubero di
marmi, nel cui tettuccio due medaglioni dipinti con le effigi di
Leonardo e Michelangelo alludono ancora una volta al 'genio italico'.
Sarà questa connotazione, insita nel barocchismo flamboyant del
complesso, che la critica strumentalizzerà per contrapporlo
ideologicamente all'ascetica proposta 'jugend' della Narodni Dom di Max
Fabiani, edificata nello stesso momento quasi dirimpetto, prima che
un'insulsa replica del Vianello venisse piazzata all'altro capo dello
slargo, dirimendo in modo irrimediabile la vitalità del contrasto.
Nel biennio 1903-1905, Ruggero, avvalendosi per la prima volta della
collaborazione del figlio Arduino, architetta su commissione del
maggiorente armeno Giorgio Aidinian una vera e propria cittadella,
sfruttando una balza del colle di san Vito. Sfugge la leggerezza di
battezzarlo appunto 'quartiere armeno', questo paraggio residenziale che
nel ricordo e persino alla visione diretta trascolora in un esotismo
Romantico col quale in realtà non ha niente da spartire. L'insieme,
sincretico, è articolato in cinque blocchi. Come si presenta? Il primo
lotto (via Giustinelli 3) sta appresso la già esistente chiesetta dei
Mechitaristi. Procurando di non rubarle la scena, inventa a tergo un
prospetto, aperto sul pendio, con bifora centrale entro arcone a sesto
pieno sovrastato dal cornicione su cui siede una coppia di sentinelle
leonine, il tutto concluso da un fastigio mistilineo; la seconda casa
(civici 2 e 4 della stessa via), impersonale, si presta come complemento
volumetrico; lungo la sottostante via Benedetto Marcello s'inerpicano
due palazzi gemelli, temporaleschi nella loro progressione di bifore 'in
maggiore' – il marcapiano degli attici, fittamente dentellato, prevede
il rinforzo di mensole scalate e colonnine che insistono a loro volta su
mascheroni in rictus. Troneggia per finire (via Giustinelli 5) un
casamento fiero delle sue astruse torrette angolari: lo si scorge da più
e più zone della città.
Il permanente rispetto del dettato boitiano (torna la propensione
'medievalista' nelle case gemelle) e il vincolo della citazione (il
manierismo del Sanmicheli e dell'Alessi – palazzo Marino a Milano -
rivisitato dall'edificio-fortezza) non inibiscano l'ammirazione, ché
sono proprio questi a permettere lo sfogo di umori insospettati: una
reverie pseudoepica, nella cui concertazione al portamento guerresco si
aggiunge una sottolineatura iniziatica, quando non deliberatamente
sinistra.
Se un simile effetto non si attiva con la Scala dei Giganti (1907), la
colpa va addossata unicamente alla funzione urbanistica che il manufatto
deve assolvere: saldare cioè il colle di san Giusto con lo snodo viario
cruciale della Città Nuova (piazza Goldoni). Le rampe ammantano il
traforo, e il frastuono, della Galleria Sandrinelli, sacrificando
giocoforza le loro risorse poetiche, d'indubbia originalità; una
vigorosa stimolazione ancora una volta neomanieristica modella il
progetto su connotati vagamente antropomorfi.
Entro la Prima Guerra Mondiale, i Berlam – adesso associati a tutti gli
effetti – firmano la maturazione del loro programma comune con due
imprese che s'impongono a consuntivo e superamento di un'intera
concezione estetica.
Inaugurato nel 1912, dopo un avvicendarsi di traversie burocratiche non
poco ambigue, il Tempio Israelitico di Trieste ha fama di essere il più
grande d'Europa. Vero o no, qua importa evidenziare che si tratta
dell'architettura meno neo-qualcosa compiuta in città da oltre un secolo
in quella parte (escludendo le realizzazioni liberty degne di essere
definite tali, beninteso). Le deduzioni storiche sono riassorbite in un
discorso finalmente autonomo dall' 'eclettismo' come professione di
fede, che anzi si vede convertire metaforicamente da Bibbia a
vocabolario. I prestiti stilistici – a maggior ragione dotti e
abbondanti come mai erano stati nelle edificazioni eclettiche del posto
– ora valgono quali ideali medaglie al merito, esautorati dal ruolo di
motivazione portante grazie alla quale (e a nient'altro) l'architettura
poteva considerarsi degna d'essere praticata o dichiarare un senso.
Per scrupolo d'inventario ne vanno perciò citate le soluzioni
decorative, dalla stella di David estrapolata a rosone (lato su piazza
Giotti) al fermento elettrizzante del portale maggiore, dal dado merlato
sullo spigolo del modulo principale, alla proiezione dell'organismo
absidale nel lato su via Zanetti (memore dei modi normanni nella Palermo
di Ruggero II) fino al paramento policromo per la parte interna dello
stesso, designato a esaltare l'Arca Santa tra il nero marmoreo
dell'emiciclo e la calotta indorata. Presumibilmente per volere di
Arduino, domina e impone all'edificio il suo vero carattere una norma
progettuale fondata sull'articolazione monumentale dei puri volumi.
La sede per la Riunione Adriatica di Sicurtà (tra 1911 e 1914) è davvero
un imponente sforzo corale. La regia dei Berlam, infatti, spartisce, la
riuscita con le maestranze all'opera nel completamento scultoreo e
accessorio. Va ammesso che almeno in parte quest'ultimo non gioca a
favore dell'impresa: mentre il Palazzo Vianello accettava come necessità
strutturale l'apparato di Gianni Marin, ora le sculture in facciata
(piazza della Repubblica), dovute allo stesso autore, cui si affianca
Giovanni Mayer, sembrano messe là per dovere d'ufficio. Convenzionalità
tuttavia riscattata dal lavoro di Domenico Calligaris, 'mago' del ferro
battuto cui spetta il corredo d'inferriate che schermano le finestre su
tre lati del pianoterra, oltre alla regale cancellata in bronzo e gli
ingabbiamenti delle colonne all'ingresso sulla piazza. Questa griglia
d'ammirevole artigianato prelude allo spettacolo che Ruggero teatralizza
superbamente con l'imbotte trapuntata di stucchi puro Rinascimento,
l'alternarsi del bianco e rosa per il marmo delle colonne nel vestibolo
avanti fino alla quinta sgargiante del disegno per la fontana del
Gladiatore, nella cui realizzazione il Marin riprende la sua vena
migliore seducendo con la variopinta sinfonia del bronzo dorato, il
rosso di Verona per i leoni e il bianco di Carrara per l'anatomia
dell'eroe. Su per lo scalone d'onore (parapetto con dischi a traforo,
scudi in bronzo alle pareti, soffio di stucchi sui soffitti) e gli
ambienti di rappresentanza prosegue incessante la ricerca cromatica e
formale, magnifica in tutti i particolari, come ininterrotto si svolge
il fraseggio chiaroscurale su tutti e quattro i lati del palazzo, a mo'
di parata, nel candore della pietra d'Aurisina, e con un gusto della
grandeur attribuibile in tutto alla mano di Ruggero, per quanto il
figlio non si esenti dall'alleggerirne il tono col freschissimo
tassellato degli accessi secondari (vie santa Caterina e Dante
Alighieri). Rispetto all'emancipazione tanto vistosa manifestata nel
Tempio per la comunità ebraica, l'edificio in esame attesta un ritorno a
posizioni decisamente più conservatrici. In ciò non è obbligatorio
riconoscere una regressione della tempra inventiva da parte dei Berlam,
ma piuttosto – soprattutto per quel che attiene a Ruggero – un monito
esplicito e vagamente malinconico a non dimenticare, sull'orlo di una
rivoluzione assoluta tanto per la storia quanto per l'arte, ciò che in
passato è stato utile a costruire l'immagine della grandezza e
dell'impulso ottimista di una città per molti versi unica.
Sugli affreschi che decorano le navate della piccola basilica
dell'Assunta sul colle di Muggia Vecchia esiste ormai una ben nutrita
bibliografia. La pionieristica indagine di Pia Frausin aprì nel 1947 la
strada ad una serie di studi che sono serviti a gettare luce - ma forse
in maniera non ancora definitiva - sulla datazione e sul complesso
retroscena culturale di queste pitture,
che continuano ad affascinare come un piccolo ma terribilmente intricato
enigma storiografico, nonché per il loro valore artistico, che agli
occhi di chi scrive regge e risponde magnificamente con tutta la classe
della sua araldicità al reiterato rimprovero di 'provincialismo' che
salta fuori ad ogni piè sospinto nell'eventuale confronto con altri
documenti della cultura pittorica romanico-bizantina.
Molto è stato scritto e molto è stato chiarito, dunque;
quasi sempre ferma restando l'acquisizione di completezza dei frammenti
- si perdoni l'ossimoro - che dei vari cicli ci sono pervenuti: a parte
il rinvenimento di un larvato strato ornamentale preesistente alla
stesura delle figure e delle scene sui pilastri e la parete di sinistra
nella navata centrale,
sembra che non rimanga altro da scoprire su questi muri dai quali tanta
pittura è caduta sparendo per sempre. È vero che, comunque, la nostra
cultura ancora tardoromantica sovente ci predispone a un interesse più
accorato verso la rovina che verso il monumento intatto: pur premettendo
di dovere il si parva licet componere magnis mi sento di
affermare che, appunto in virtù del loro stato lacunoso, queste vestigia
acquisiscono una qualità suggerente non dissimile da quelle della
sepoltura tebana della regina Nefertari. E così, accanto a campiture che
hanno superato piuttosto bene la prova del tempus edax (ma qui si
tratterebbe di determinare una volta per tutte l'esatta entità
risarcente dei restauri più volte effettuati nel corso degli ultimi
cent'anni), specie negli episodi mariani e martiriologici della nave
principale, permangono, nel mutismo assoluto della calce, brandelli
dall'aspetto d'essudato salino, evanescenti lemuri che conservano
trepidanti un qualche ricordo di colorazione e conformazione. A che
cosa, per esempio, potrebbero riferirsi quel pesce e quel remo che
chiazzano l'imposta dell'arcata sul quarto pilastro della navatella a
destra? Contentiamoci di rilevare il più che discreto indugio
ittiologico qua e là dispiegato nel nostro santuario, dal ricco
campionario acquatico del torrente guadato dal san Cristoforo alla
misteriosa traversata di quel barchino affollato di testine romaniche,
la cui pagaia affonda in profondità ben pescose (sarà quindi forzatura
il citare la terminazione pisciforme del pastorale retto dal san Zeno a
memoria delle sue origini marinare?).
Eppure, quanto a rinvenimenti, potrebbe non essere stata detta l'ultima
parola.
Nel citato saggio della Frausin si trova in nota, infatti,
un'indicazione di riporto circa la sussistenza primonovecentesca di una
scena raffigurante il Battesimo di Gesù, ubicata genericamente nella
navata di destra. Ma l'autrice riferisce di seguito che di tale affresco
"ora non è traccia".
Rimanendo in questo settore della chiesetta, la studiosa non fa comunque
menzione dei resti, in sé decisamente vistosi, di un' immagine - che
Giuseppe Cuscito ipotizza possa trattarsi di un Albero della vita
- stesa sulla parte interna del pilastro addossato alla controfacciata,
piuttosto ben conservata nonostante il drammatico accartocciamento della
muratura; ma è da credersi che all'epoca il cantuccio fosse ingombrato
da qualche arredo.
La porzione s'interrompe a circa due metri d'altezza dal pavimento; più
in alto permane una chiazza con tracce colorate e nulla di più. Ecco che
però se volgiamo lo sguardo sul muro attiguo (contro il quale è
attualmente sistemato il confessionale), verso l'alto, noteremo
un'ulteriore chiazza che a dispetto della sua davvero esigua estensione,
pare, al confronto, assai più eloquente.
2. Muggia, basilica
dell'Assunta,
parte sinistra della
controfacciata.
Alla tangenza della parete
col pilastro di cui sopra emergono i tratti di quello che sembrerebbe proprio un
braccio sinistro piegato a "V" e con la mano aperta (fig. 1): il pollice e le
altre quattro dita sono nettamente distinguibili, con in più, a mo' di
bisettrice dell'angolo formato dalla "V", un elemento verticale che potrebbe
essere un bastone. Per il resto si direbbe che la parete taccia del tutto:
nient'altro che traspaia alla sua superficie. Superficie tuttavia in gran parte
celata da un quadro entro semplice cornice in legno, rappresentante, per quel
che la densa penombra di quest'angolo di navata permette d'intuire, l'Assunta
con il Bambino e santi nei modi alquanto rudimentali dell'arte provinciale
(fig. 2). Ombra fitta, difficoltà per l'indagine muraria ravvicinata. E se in
effetti fossero stati per lungo tempo i custodi involontari di un qualche
segreto? Se il santuario volesse ricompensarmi per gli assidui pellegrinaggi -
sia pur prettamente laici - che da una dozzina d'anni non mi stanco di
tributargli, con una emozione che di volta in volta non si affievolisce, ma si
sviluppa articolandosi, per così dire, in un'architettura emotiva sempre più
salda, a modo suo progressiva acquisizione di fede?
Non deciso a rassegnarmi (un po' come David Hemmings in Profondo rosso,
sempre si parva licet) m'impongo un supplemento d'indagine e monto sulla
seggiola messa accanto al confessionale per por-tarmi il più vicino possibile -
la mano saluta dall'alto di almeno tre metri e mezzo - e quindi con la dovuta
cautela provo a scostare il vecchio quadro sacro, manovrandolo per l'angolo in
basso a destra della cornice; ed ecco la ricompensa: quasi in linea con
l'incorniciatura stessa, quel tanto che basta per essere sottratto alla vista,
scopro col naso all'insù un altro brandello di muro dipinto, un'area
approssimativamente triangolare al cui lato (lo definirei un triangolo
equilatero, ma non potendo beneficiare d'una visione frontale potrei sbagliare)
attribuisco la lunghezza d'una sessantina di centimetri, ed entro la quale si
sviluppa un triplice sistema di linee, alquanto elaborato (fig. 3): fluide
quelle nella parte più bassa (fig. 4),
più brevi e componenti una
sorta di schema a marezzatura quelle verso il centro (fig. 5), e convergenti al
margine 'polarÈ di una forma tondeggiante che ricorda il disegno d'un globo con
tracciati i meridiani quelle più in alto (fig. 6, a sinistra) - alla sinistra
delle prime, ancora qualche pennellata a uncino: tutte a contorno di tinte
delicate che richiamano all'istante - così come accade per il lacerto
della mano sopra descritto - quelle che i visitatori del santuario possono
apprezzare nei preziosi affreschi che ben conosciamo; caratteri, questi, di
linea e colore che mi paiono inequivocabili, a dispetto della gibbosità che
affligge anche questo tratto di parete.
Ma questi due frammenti da soli non potrebbero certo inverare quell'informazione
di un secolo fa che sembrava purtroppo irrimediabilmente smentita già ai tempi
dell'analisi della Frausin. La mano mozzata e i reticoli di strie semiastratti,
non si dimostrano affatto sufficienti per comporre la sia pur remota ossatura
grafica di una rappresentazione come quella di cui la studiosa aveva preso nota,
compiangendone lo smarrimento. Perlomeno, non ancora ... o dovrei dire invece
non esattamente? La Frausin, per la cronaca, citava anche un'antica
osservazione di Max Dvorak su "un frammento di rappresentazione dell'ultimo
giudizio nella facciata interna, di cui ora non c'è più traccia"7.
Nulla di singolare, a livello iconografico: la scena era di prammatica nelle
controfacciate dell'epoca - si pensi soltanto all'esempio preclaro di Santa
Maria di Torcello, o, più tardi, a quello giottesco dell'Arena. Ebbene, a rigor
di logica l'ubicare il battesimo di Cristo nella navata destra e il
succitato brano nellafacciata interna non significa, ai fini del
nostro problema, violare il principio di non-contraddizione, siccome la facciata
interna comprende, ovviamente, i termini di tutte e tre le navate, destra
inclusa. I due insiemi s'intersecano in coincidenza della famosa parete: se mai
affresco ancora visibile a Muggia Vecchia all'inizio del Novecento deve essere
rintracciato, ebbene questo va cercato proprio qui. E, pur essendo gli appigli
quasi infinitesimi, non comincia forse a convincere sempre meno la conciliazione
di quella mano aperta con la necessità finora intravista di integrarla - anche
se con la pura e semplice immaginazione - nella scena cristologica cui dovrebbe
appartenere? Come mano del Battista persuade punto o poco, e il braccio risulta
per di più panneggiato: san Giovanni non è sempre figurato a braccia nude?
Quanto a mano di Gesù non è neppure il caso di discutere in tale contesto: è
retorica la domanda sul perché non avrebbe dovuto svestirsi. In tale contesto,
attenzione! Dimentichiamo un attimo la composizione standard del Cristo come
asse di simmetria nella scena del Giudizio, e proviamo invece a
immaginarcela decentrata, magari fino al margine del quadro o dell'affresco;
proviamo addirittura ad adattare, a questo punto, il modello medievale del
Cristo giudice a quei pochi resti oggetto della scoperta di cui stiamo
riferendo. Potrebbe quadrare? Non intendo affatto rinunciare a procedere coi
piedi di piombo, ma non posso trattenermi dall'avvertire un fortissimo sospetto
di congruenza: ora sì che la disposizione del braccio acquisterebbe un senso in
rapporto alla falsariga dell'ipotetico soggetto (e quindi quel
'bastone-bisettricÈ di cui dicevo andrebbe riqualificato come parte dello
schienale di un trono), tanto più che quelle 'linee a meridiano' nella zona
superiore del lacerto sotto il quadro ritmano una porzione che collima
cromaticamente con la manica (un tono mattonoso), assumendo l'aspetto del gomito
panneggiato del braccio destro; i meridiani sarebbero perciò le pieghe della
tunica (fig. 6). Sulla scia di questo spunto, andiamo avanti: finiremo coll'assegnare
a quelle `linee fluidÈ della zona inferiore la funzione d'alludere al ricadere
della veste del Redentore tra i suoi piedi, uno dei quali - il destro - parrebbe
adesso decisamente ravvisabile in quelle pennellate 'a uncino' (alias il
contorno della dita), che suddividono due campiture cromatiche tra cui una
dall'intonazione carnicina. I tasselli disponibili per la soluzione del
rompicapo finiscono qui, ma resta ancora da dire la cosa più importante: ossia,
che su questa parete, e solo su questa parete della chiesa, i resti degli
affreschi non costituiscono una pellicola rialzata rispetto la superficie della
parete che li conserva, bensì appartengono a un film pittorico ad essa
sottostante: in altre parole, i brani in questione sono soltanto quanto
oggi
emerge da uno strato d'intonaco steso al di sopra d'una superficie
dipinta di ampiezza indefinita e che, in teoria, potrebbe anche interessare una
vasta parte del muro da cui occhieggiano con la loro fin adesso inudita
richiesta di liberazione.
7 - Ricostruzione grafica
dell'affresco.
Se in effetti l'intonaco venisse scrostato, la parete potrebbe restituire nella
sua (si spera) intatta nudità proprio quella scena escatologica che per il
momento, nella mia idea (fig. 7), sarebbe potenzialmente allusa dal filo
d'Arianna di quel paio di lacerti che, pure, sono sempre sfuggiti all'attenzione
degli studiosi o, al limite, poichè da più parti si legge di non meglio
precisati 'frammenti sparsi' che nella genericità della definizione potrebbero
comprendere pure quelli di cui ho parlato, male interpretati nella loro realtà
stratigrafica. Per concludere, mi ripropongo di tornare su quanto
l'eventuale e fortemente auspicabile risarcimento delle tracce che ho descritte
ricomporrà, ci si augura ricongiungendole, in una forma finalmente definibile da
un qualsivoglia nome o titolo.
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Museo Teatrale Carlo Schmidl | Biblioteca dei civici musei di storia ed
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Trieste | Stadio Nereo Rocco | Riserva Naturale della Val Rosandra | San
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Piazza Unita 26 ottobre 2014 |Reperti
fossili di Trieste e della Venezia Giulia|