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Rosalba
Carriera:
un
ritratto
a
olio
di
Giambattista
Tiepolo
1.
Rosalba Carriera,
Ritratto di Giambattista Tiepolo trentenne.
Venezia, collezione privata.
Gli autoritratti di
Giambattista Tiepolo non mancano di certo: per tutto l'arco della sua vita egli
si è fatto un vanto di raffigurarsi in non pochi dei suoi dipinti, soprattutto,
con una legittima punta di orgoglio e consapevolezza, in quelli di grande
impegno.
Così, per seguire cronologicamente l'autoiconografia tiepolesca, sono ben noti
alcuni esempi, facilmente identificabili data la fisionomia particolarmente
caratteristica di Giambattista. Egli presenta, infatti, un volto accentuatamente
ovale e affilato, il naso molto pronunciato, camuso, ingobbito, col setto nasale
storto e deviato verso la sinistra dello spettatore (parrebbe per un fatto
traumatico, anziché congenito), l'attaccatura dei capelli piuttosto alta, una
bocca un po' piccola e tumida dalle labbra carnose e molto sinuose e sensuali,
il mento leggermente rivolto all'insù, gli occhi chiari. Inoltre, egli non
nasconde di certo il suo carattere, volitivo, quasi aggressivo e, per il suo
guardare lontano, al di sopra e all'infuori di tutto, un certo atteggiamento di
superiorità.
Fra gli autoritratti già noti e quegli altri che a me sembrano tali e indicherò
qui per la prima volta, cercando di farlo in ordine verosimilmente cronologico,
più o meno evidenti, credo anzitutto di poter proporre il "pennacchio", del 1715
circa, all' Ospedaletto con il giovane Apostolo ed evangelista Giovanni,
il cui profilo è eguale a quell'altro autoritratto che ricorre nel disegno
Accademia di nudo di cui si parlerà più avanti ed è lo stesso, in
controparte, del Bacco nel Mito di Fetonte, a villa Baglioni di
Massanzago, da porsi a ridosso del luglio 1718, di cui conferma ulteriormente
l'autografia, intuita da Mariuz e Pavanello e del Trionfo di Davide del
Louvre: una reiterazione della propria immagine diventata stilema. Per la
verità, a ben vedere questa tipologia abituale, forse potremmo riscontrarla
addirittura nel piccolo dipinto su rame (unico a noi noto su questo supporto
assieme alla splendida Madonna col Bambino e San Filippo Neri del 1728,
resa nota contemporaneamente da George Knox in "Arte Documento" e da Gemin e
Pedrocco, che, a mio avviso, riproduce le fattezze di Cecilia e di Giandomenico
(?) coll' Allegoria della morte (?), nel giovane che sostiene il vecchio
avvicinandolo al sepolcro da cui fuoriesce lo scheletro con la clessidra.
Anche per l'ovvietà della situazione che il soggetto comporta si è già
riconosciuto l'autoritratto di Giambattista nel pittore dell' Apelle e
Campaspe
di Montreal, attribuito al 1728-30, dove si raffigura al cavalletto intento a
dipingere la splendida, solare modella che altri non è che l'amatissima, altera
Cecilia.
Ne identificherei il profilo "perduto" nello sgherro che trattiene il Santo nel
Martirio di San Bartolomeo della chiesa veneziana di San Stae, opera
certa, almeno questa volta, documentata al 1722 (vale a questo proposito, quanto
detto per il San Giovanni dell'Ospedaletto, il Bacco di Massanzago
e il disegno con la
Scuola di Nudo).
Proponendosi in posizione frontale, svetta, sia pur con un certo giovanile
imbarazzo, al centro dell'affresco del palazzo arcivescovile di Udine Rachele
nasconde gli idoli, ritenuto del 1727, quando Giambattista contava ormai la
bellezza trentun anni..., anno di nascita del primogenito Giandomenico. È
l'unico caso a me noto, in cui egli si ritrae nella tipica posa
dell'autoritratto, cioè con lo sguardo rivolto diritto verso l'esterno, verso lo
spettatore.
Nel Trionfo di Mario, attualmente al Metropolitan di New York, ma
eseguito per il salone di palazzo Dolfin nel 1729, egli sbuca fuori sul lato
sinistro della tela, fisso verso un punto indeterminato, né tutto dentro, né
tutto fuori del dipinto: sarà la sua posa preferita, che ritroviamo, a una certa
distanza di tempo, circa il 1745 (o prima) nel soffitto di villa Pisani alla
Mira, nota anche come villa Contarini per i precedenti proprietari, ora a
Parigi, al Museo Jacquemart-André; poi, più tardi, circa il 1746-47, nel
Convito di Cleopatra di Palazzo Labia, forse accanto all'inseparabile
Mengozzi Colonna. Altro esempio, in controparte rispetto a questo, è nel
modelletto già Broglio per il Martirio di sant'Agata, che sembra,
pertanto, coevo all'affresco veneziano, anche per la stessa età dell'effigiato;
fino al soffitto di Würzburg, del 1753, dove compare a fianco di un
ventiseienne, splendido Giandomenico, che, come si evince dal facile confronto,
doveva aver assunto le proprie caratteristiche fisionomiche tutte dalla madre e
punto dal padre.
Non mi sento, invece, di condividere l'opinione di chi ritiene autoritratto
quello di Palazzo Clerici, del 1740 (a meno di restauri che lo abbiano
stravolto): un vecchio dalla carnagione terrea, sul tipo della servente nella
Danae di Stoccolma, molto segnato dall'età, quale il pittore non si
rappresenta neppure a Würzburg. Curiosamente, invece, non sono riuscito a
ritrovarlo nel soffitto di Madrid, il che mi fa pensare che ciò abbia a
ricondursi, per esempio, a una clausola contrattuale (a meno che non sia
imputabile a mia disattenzione).
Per quanto attiene ai disegni, unico esempio in cui, a mio sapere, compare un
autoritratto del nostro, già rilevato anche dal Morassi, è il giovanile
Scuola di nudo, già Rasini e Morassi: si tratta del personaggio di centro in
primo piano, di spalle a trequarti, che mi sembra identico a quello più su
proposto di San Stae. La porzione visibile del volto, un altro profilo perduto,
allungato e dal naso assai pronunciato, è sufficiente per suggerire
l'identificazione.
Passando alle incisioni, è certamente il nostro Giambattista, quello che figura
alla tavola V della raccolta: Compendio delle vite dÈ pittori veneziani...
con suoi ritratti tratti dal naturale delineati ed incisi da Alessandro Longhi
veneziano... MDCCLXII; il che perdippiù ci fa certi dell'esistenza del
relativo dipinto a olio, ora perduto, eseguito dal giovane Longhi.
Per chiudere, infine, il capitolo dedicato alla grafica, devo dire del ritratto
che la critica ipoteticamente ritiene eseguito da Franz Joseph Degle a
Giambattista. Tale ipotesi è formulata sulla base dell'altro, cosiddetto,
ritratto di Giandomenico (della cui identità sono tutt'altro che certo, in
quanto è del tutto dissimile da quello sopracitato di Würzburg, né l'età del
ritrattato corrisponde all'epoca di esecuzione), ora al museo di Berlino,
effettivamente eseguito dal pittore di Augusta, ma datato 1773 ciò che esclude
analoga paternità per un peraltro sconosciuto ritratto del Tiepolo maggiore. Né
va sottovalutata la possibilità dell'esistenza di un autoritratto di quest'ultimo,
come, peraltro, è indicato nel frontispizio, da cui Giandomenico derivò la prima
della Raccolta di Teste..., ancorché esso risponda a requisiti troppo
laudativi, a differenza di quanto il Tiepolo padre faccia abitualmente, nei suoi
autoritratti, assai più feroce, sincero e pungente.
In mezzo a tanti esempi, però, mancava fino a oggi un vero, autonomo ritratto
del pittore.
Trovo pertanto di gran momento il poter segnalare una recentissima scoperta, che
viene a colmare questa strana lacuna. Si tratta di uno splendido dipinto,
raffigurante il nostro Giambattista Tiepolo all'età di circa trent'anni, quindi
databile attorno al 1726, in posa spavalda, quasi drammatica, e abito molto
elegante. Il ritratto ha aspetto monumentale, il personaggio riempie la tela con
assoluta padronanza spaziale, la pittura è quella veneziana della più alta
qualità. La stesura del colore è morbida e lieve, con una larga gamma di
tonalità chiare sia per l'incarnato, dove la materia pittorica si arricchisce
per accentuare la luminosità, sia per la stupenda giacca celeste pallido su cui
spiccano alcuni guizzi di luce. Le ombre sono tenere e fredde, così come freddo
e incipriato e gessoso è il tono generale del dipinto; il disegno del viso, sul
lato sinistro rispetto allo spettatore, dove è situata la fonte luminosa, è
sfumato e cresce non per velature, come sarebbe normale per un pittore abituato
all'olio, ma per stesure successive: se ne possono contare nitidamente tre
parallelle che intensificano col loro progredire la luminosità del volto; dalla
parte opposta, sul collo, è segnato con una linea larga e diritta, un bordo
netto, come quando si vogliono delimitare i contorni col carboncino. Lo zabò
(jabot), svolazzante e quasi impalpabile merletto che si sprigiona con
grande sapienza dallo scollo nero della giacca, vivifica il dipinto con eleganza
impressionante e vi si propone come centro visivo - la foggia dell'abito
contribuisce perfettamente a confermare la datazione proposta -, esplode in una
gamma di bianchi che si esaltano nei grumi candidi di luce sul fondo grigio
della camicia in ombra. Lo sfondo è uniforme, salvo che per due diagonali
parallele che servono a creare un senso di movimento, leggero al fine di non
distogliere troppo l'attenzione.
Il tutto denota una scelta di colori e una tecnica tipica di chi è abituato a
lavorare il pastello con grande abilità, congiunta a superbe qualità pittoriche.
Caratteristiche che possono appartenere solo a Rosalba Carriera, correttamente
in un periodo posteriore al suo viaggio a Parigi.
Mi corre l'obbligo di richiamare l'attenzione sulle ipotetiche alternative
"locali" a Rosalba. Attorno al nostro anno 1726, operano a Venezia e possono
essere considerati, chi più chi meno, ritrattisti: Lazzarini, Sebastiano Ricci,
Piazzetta, Amigoni, Nogari, Grassi, Rotari, oltre a Giannantonio Pellegrini,
cognato della stessa Rosalba e con lei a Parigi nel corso del suo viaggio, nel
1720-21. Della ritrattistica di tutti questi abbiamo una conoscenza sufficiente
per poterne escludere ogni coinvolgimento. Rimarrebbe ancora di dire di
Bartolomeo Nazzari, bergamasco, attivo a Venezia fra il 1716 e il '36, di cui
sappiamo dai documenti che eseguì i ritratti di vari pittori. Fra questi avrebbe
dipinto, a pastello, per il console Smith anche quello di Tiepolo dal quale
potrebbe derivare l'incisione di Giovanni Cattini; ma gli altri ritratti che si
conoscono, come, per esempio, quello del Carlevarijs dell'Ashmolean Museum di
Oxford o il Sebastiano Ricci già di proprietà privata in Germania, per loro
stessa natura escludono qualsiasi possibilità nel senso ipotizzato.
So di lanciare il proverbiale sasso nello stagno. In anni lontani, fui tra i
pochissimi a oppormi decisamente all'idea sostenuta da molti, fra quelli che
erano i più accreditati studiosi, di dipinti a olio della Rosalba, operazione
che, in quei casi - lo confermo tuttora - ubbidiva forse più a logiche di
mercato che a indicazioni culturali. Lo stesso cosiddetto
Ritratto di Augusto III di Polonia, per verità assai modesto, del
Kunsthistorisches Museum che la Sani mantiene a titolo di ipotesi nel catalogo
della pittrice, più che altro per esterne ragioni storiche come ben si evince
dal testo, non ha nessuna caratteristica che possa far pensare all'opera a olio
di un'abituale pastellista e ritengo ne sia spiegabile la provenienza da Rosalba
come un oggetto che la stessa può aver portato a Venezia dal suo soggiorno
parigino o le sia stato comunque donato e, rimasto sempre nel suo studio, passò
poi, per forza di cose, nell'asse ereditario.
Assume pertanto straordinaria importanza la trascurata lettera di Nicholas
Vleughels a Rosalba, con cui egli accompagna il dono (o vi si riferisce) di un
suo dipinto, evidentemente rimasto danneggiato o i particolari del quale
comunque non la soddisfacevano: "Même vous pouvez, si vous voulez, le
raccomoder aux androits qui vous paraîtront les plus deffectueux; vous savez
assez peindre à l'huile pour corriger de pareils ouvrages". A ben leggere,
quindi, egli ribadisce la norma per la veneziana di una tecnica diversa, ma le
riconosce altresì senza possibilità di equivoco, la capacità di avvalersi
dell'olio.
Al di là di questo documento, peraltro, a mio avviso, totalmente probante, non
abbiamo alcun testo pittorico, riconosciutole o storicamente provato, che avalli
l'ipotesi di una Carriera pittrice a olio, anche se, a onor del vero, non vi
sono neppure esplicite indicazioni contrarie.
Nel dipinto che stiamo studiando, invece, le affinità con alcuni pastelli della
Rosalba, certo fra i più belli, soprattutto come il Ritratto di Lord Boyne
(e quelli cosiddetti di Thomas Middleton e di Lionel, quarto
conte di Dysart) sono inequivocabili. Identica è la partitura luministica,
sovrapponibile l'impostazione generale, uguali stesura, vaporosità e resa
pittoriche. Eccezionali, in entrambi i casi - del ritratto Tiepolo e di quello
Boyne dico - la concezione spaziale, la caratterizzazione, la resa fisionomica,
anche se con un pizzico di spavalderia e di immediatezza in più nell'ovviamente
meno azzimato "collega" a olio.
Certo: nulla ci assicura su una Rosalba Carriera pittrice a olio. Tuttavia, a
ben leggere il diario della stessa Rosalba notiamo che alcune volte ella
specifica che le sue opere sono fatte in miniatura, altre a pastello, altre
volte ancora, la maggioranza dei casi, non dà indicazioni.
In particolare, può esserci utile al riguardo quanto essa scrive domenica 29
dicembre 1720: "Fui introdotta nel gabinetto del Re, perché vedessi dove potea
attaccarsi il di lui ritratto in pastello; il quale ritratto si portò a Palazzo
solo in tal dì con gran cornice... Per parte sua il Malamani (p. 148), così
trascrive: "Stata introdotta nel gabineto del Re perchè vedessi dove si potea
attacar il ritratto di pastello dello stesso Re, che fu portato sol in quel
giorno con gran soaza".
Ovviamente, riferendosi a un'opera la cui localizzazione richiedeva o almeno
consigliava addirittura la supervisione dell'autore ed era racchiusa in una
cornice di grandi dimensioni, non poteva trattarsi di una miniatura, altro
"genere" abituale per Rosalba; sicché lo specificare che si trattava di un
pastello lascia supporre che ella, forse, si misurasse anche con l'olio (e
quest'ultima tecnica sarebbe stata probabilmente più adeguata per l'opera in
questione), anche se, di certo, la prima sarà stata quella che più le veniva
richiesta, in cui più si esercitavano leggerezza e finezza di esecuzione.
Poiché ho più sopra considerato l'aspetto fisico di Giandomenico, a quanto
appare dai ritratti in nostro possesso così simile al più giovane fratello
Lorenzo, occorrerà spendere alcune parole per richiamare l'attenzione su
un'attribuzione non per tutti pacifica. Mi riferisco all'ormai famoso Ridotto,
visto nella mostra Fanti e Denari a Palazzo Loredan Vendramin Calergi nel 1989,
attribuito a Lorenzo Tiepolo per il quale il Pavanello dà invece per certa un'ascrizione
al Tichbein per confronto con l'analogo soggetto del tedesco. È possibile che
una per vero stretta derivazione formale e iconografica abbia indotto in un
errore di valutazione critica, ma non è necessario un esame particolarmente
approfondito per riscontrare l'evidente dipendenza, a livello di copia,
dell'opera del modesto Tischbein: sgraziata, statica, pacchiana in ogni sua
componente, sgradevole volgarizzazione, per incapacità di far di meglio, nella
sua Mascherata della Gemäldegalerie di Kassel (chissà poi perché questo
titolo, quando è evidente che si tratta di una partita a carte e che l'unica
maschera - intesa come oggetto: è una moretta - è in mano di quella che a
Venezia sarebbe stata una simpatica damina - com'è nel
Ridotto di Lorenzo Tiepolo - e che, invece, per la grossolanità del
pittore, qui particolarmente manifesta, ha l'aspetto di uno stereotipato
manichino vestito, una lignea e colorata piàvola de Franza). Nel dipinto
veneziano tutto ha verve, profumo di cipria, grazia, eleganza e,
soprattutto, immediatezza, quanto, invece, rimasticato e pesante appare quell'altro
ed è chiarificatore il confronto di ogni personaggio col suo ornologo teutonico
per essere certi della derivazione, della poco riuscita esercitazione di
copiatura, del vero Tischbein dal vero Lorenzo Tiepolo, per cui, almeno fino a
più convincente prova contraria, sarà opportuno mantenere l'attribuzione al più
giovane dei figli di Giambattista. Mi sono occupato, in questo intervento, con
una certa insistenza della fase giovanile del Tiepolo; mi permetterò ancora di
spendere alcune parole sulla proposta, degli stessi validi Autori più sopra
richiamati, di riconoscere la mano di un precoce Giambattista in un piccolo
soffitto affrescato nella sacrestia della chiesa di San Giovanni Crisostomo a
Venezia.
Innanzitutto, l'affresco raffigura non già "San Gerolamo in veste
cardinalizia"
come essi indicano, ma in realtà un patriarca (senza aureola, quindi certamente
non santo) come dimostrano anche le insegne che si trovano nelle due piccole
porzioni decorative sui due lati corti della decorazione (non riprodotte dagli
Autori). Non è oziosa la precisazione, anzitutto perché è comunque interessante
partire da una corretta identificazione, poi perché attraverso di essa si può
più facilmente giungere alla datazione dell'opera e alla definizione
dell'iconografia. Qualora non faccia riferimento alla figura allegorica di un
metropolita della chiesa veneziana, potrebbe trattarsi, a mio avviso, di San
Gregorio Barbarigo, come sembra confermare il confronto con la statua
dedicatagli in Santa Maria della Salute. Il di lui "processo di beatificazione"
inizia nel 1724 e la proclamazione a beato è del 1761: l'esecuzione del dipinto
dovrebbe verosimilmente porsi in prossimità della prima di queste date. Alla
specifica attività del Barbarigo di istruzione religiosa ai fedeli e di
formazione del clero, dal quale pretendeva perfezione evangelica, fa riferimento
l'indicazione della croce alle sue spalle: "Il libro che voi, miei carissimi,
dovete studiare sempre è il Crocifisso".
2a.
Giambattista
Tiepolo,
Ritratto ideale
del doge Marco Cornaro,
particolare. Venezia, collezione Scarpa.
2b.
Giambattista
Tiepolo,
Ritratto ideale
del doge Marco Cornaro,
particolare. Venezia, collezione Scarpa
Per molti anni anch'io, spinto dall'abitare nei pressi di quella chiesa, mi sono
sovente fermato a interrogare quel minuscolo e particolarmente malandato
soffitto, compresso in un ambiente troppo basso e troppo stretto e gli ho, sul
terreno attribuzionistico, girato attorno, attratto dalla notevole forza
dell'abito rosso e da quella mano destra, così apparentemente vicina a quella
del doge Marco Cornaro (ma solo apparentemente, ahimé!) che è uno dei primi
capolavori di Giambattista e dal tiepolismo della figura in giallo di fondo;
sempre respinto, però, oltre che dalla obbiettiva "povertà" pittorica dello
stortignàccolo vescovo, dall'innaturale sott'insù della sua testa, incassata in
un "petto in fuori, braccia indietro", testa che dovrebbe non essere attaccata
al collo per potersi torcere in tal modo all'ingiù. Per questo ho sempre
ripiegato su posizioni più pacifiche, finendo per dirigermi, come faccio
tuttora, ... dalle parti di Giambattista Mariotti, egli pure grande manipolatore
di rossi, come dimostra il notevole dipinto delle Gallerie dell'Accademia
Sant'Ignazio di Loyola davanti al pontefice.
In realtà, delle figure sullo sfondo, quella femminile in giallo, peraltro quasi
completamente rifatta (non certo i due giovani sulla sinistra che nulla hanno di
tiepolesco e che, con il loro aspetto di mendicanti, possono far riferimento
all'azione del Barbarigo presso i poveri e gli appestati di Trastevere) sembra
nei modi e, soprattutto, del tempo di Giandomenico, che potrebbe essere il ...
responsabile di una tarda - forse in concomitanza con la beatificazione, nel
1761? -, incongruente e sgradevole aggiunta, tale da trarre in inganno
l'inesperto osservatore superficiale e perfino i validi Autori citati.
Pietro
Scarpa
P.S.: sono state omesse, per motivi di spazio, le note dell'autore.
ARTE Documento
N°10
©
Edizioni della Laguna