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Franco Barbieri
Per il catalogo di Giulio Carpioni: Daniele nella fossa dei leoni
7. Castello di Montebello Vicentino, chiesetta di San Daniele.
Il giovane profeta ebreo esule alla corte di Babilonia, reo d'aver adorato il Dio d'Israele contravvenendo ai decreti reali, vien gettato nella fossa dei leoni: Dio però interviene a chiuder le fauci delle fiere, che non gli fanno alcun male. Così tramanda la Bibbia, al Libro di Daniele, capitolo 6, versetti 1-20. Nel dipinto, Daniele, in ginocchio entro una sorta di grotta — aperta in basso sulla destra verso breve squarcio di paesaggio — e con ai piedi accovacciati due leoni, apre supplice le braccia levando al cielo lo sguardo implorante: dall'alto, in un nimbo di luce e sul globo terrestre a Lui sottomesso, l'Eterno Padre, accompagnato da angeli tripudianti, abbassa compiaciuto lo sguardo salvifico. Attorno, si rivolgono a Lui, in atto di adorazione, i santi Antonio da Padova (a destra), Francesco d'Assisi e Gaetano Thiene (a sinistra).
1. Giulio Carpioni, Daniele nella fossa dei leoni con l'Eterno Padre in gloria adorato dai santi Antonio da Padova, Francesco d'Assisi e Gaetano, 1676 ca. Proprietà privata (pala della chiesetta di San Daniele, Castello di Montebello Vicentino).
La bella tela (cm. 200 x 100, proprietà privata) è la pala d'altare della chiesetta di San Daniele, al vertice di nordest nel cortile maggiore del Castello di Montebello Vicentino. Edificata con ogni probabilità dai conti Maltraversi, quando, nella seconda metà del secolo XI, ricostruirono il Castello — eretto forse su di un antico fortilizio romano, distrutto durante le invasioni barbariche, sostituito (secolo IX?) da un fortilizio conteso tra Vicentini e Veronesi e demolito dai Vicentini attorno al 1000 — la chiesetta condivide in seguito le vicende della munita roccaforte. Così, dopo il dominio dei Maltraversi circa dal 1050 al 1242, essa conoscerà quello più breve (1242-1260) di Ezzelino da Romano e un fugace ritorno (1260-1265) dei Maltraversi e del Comune vicentino (dal 1265) per passare poi in proprietà (1313-1387) dei veronesi Scaligeri che, dando al Castello l'assetto definitivo in gran parte conservatoci, la dovettero restaurare: lo proverebbe l'iscrizione mutila, del 1362, sulla porta laterale. Esaurita la parentesi (1387-1404) della Signoria lombarda dei Visconti, San Daniele sarà quindi, dall'aprile del 1404, della Repubblica Veneta e da questa alienato con il Castello, nel 1597, alla Comunità di Montebello. Venuto poi il Castello, dal 1676, in mani private, la chiesetta sarà oggetto, nell'Ottocento, di interventi di gusto romantico e neogotico: oggi se ne spera prossimo radicale restauro.
2. Giulio Carpioni, Le Virtù teologali, 1677-1678. Vicenza, oratorio di San Nicola.
3. Giulio Carpioni, Concerto d'angeli, 1677-1678. Vicenza, oratorio di San Nicola.
4 - 5. Giulio Carpioni, L'Obbedienza e La Castità, 1677-1678. Vicenza, oratorio di San Nicola.
6. Castello di Montebello Vicentino, chiesetta di San Daniele: l'altare.
L'altare, unico, è distanziato dalla parete di fondo e fiancheggiato da due più bassi muretti ove s'aprono due porte: sistemazione abbastanza frequente nel secondo Seicento e primo Settecento a Vicenza e nel territorio come particolarmente adatta a separare dalla navata uno spazio retrostante variamente utilizzabile. Nel cartiglio sopra la trabeazione leggesi: D. O. M // D. DANIELI PROPHETAE COELESTIQUE CURIAE // DICAVIT FRANCISCUS VIVIANUS I.C. // ANNO DOMINI MDCLXXVI(A Dio ottimo massimo, a Daniele profeta e alla curia celeste dedicò [questo altare] Francesco Vivian e insieme lo consacrò l'anno del Signore 1676). Poiché è proprio questo, come abbiamo visto, il momento del passaggio del Castello ai privati, risulta evidente la loro premura di abbellirne la chiesa subito erigendovi il nuovo altare. Di sobria eleganza e ben aderente ai canoni di una tipologia assai frequente nella Vicenza e nel Vicentino del secondo Seicento e primo Settecento — tipologia divulgata in prevalenza dai tanti Maestri d'estrazione lombarda presenti all'epoca tra noi — esso innalza sulla mensa, dal marmoreo paliotto policromo a disegni geometrici, un'edicola impostata su due semicolonne corinzie con architrave, cornice a dentelli, timpano curvilineo spezzato e cartiglio centrale: degna cornice destinata ad accogliere la pala. Per la quale calza appropriato il riferimento allo stesso millesimo 1676 relativo alla dedicazione e consacrazione dell'altare: preziosa gemma incastonata nel simpatico assieme, la pala si rivela infatti opera notevole della fase tarda di Giulio Carpioni, il pittore (1613-1678) oriundo veneziano ma sin dal 1638 attivo a Vicenza dove, in vivace dialettica con il gran teatro barocco di Francesco Maffei, «manieron che stupir fa tutti quanti», realizza quel suo originale programma classicistico nutrito di ascendenti neotizianeschi come di mediate aderenze poussiniane e tuttavia non scevro di felici influenze naturalistiche assorbite soprattutto tramite il Saraceni e il Le Clerc. Appunto della caratteristica «lucidità grafica e formale» nonché della spiccata capacità carpionesca di esibire liscie campiture di colore purissimo e ghiacciato» rende piena testimonianza la zona inferiore della tela, specie dopo il recente accurato restauro (Alda Bertoncello, luglio-agosto 2000): vi si godano le pieghe crepitanti delle vesti di Daniele, con i loro colori acidi, salienti al diapason nel giallo squillante del mantello. Nel contempo, l'episodio superiore si rivela giusto in linea con l'evoluzione manifesta in esiti di altri "prodotti" specifici degli estremi anni di Giulio: a esempio, i consimili dipinti, di poco posteriori alla pala in oggetto, nel soffitto del vicentino oratorio di San Nicola, dall'agosto 1677 all'incipiente gennaio 1678 ultima fatica dell'artista «in limine vitae»; morirà infatti il 29 di quel mese. Davvero negli angeletti svolazzanti, dall'inconfondibile volto di bambini precocemente invecchiati, e più nelle figure dei santi e dell'Eterno galleggianti sulle nuvole corpose sotto l'affocato riverbero dell'Empireo, cogliamo, qui a San Daniele, chiara anticipazione di quanto il Carpioni presto dispiegherà su scala ben maggiore nel ricordato soffitto di San Nicola: un analogo, caratteristico addensarsi, contro la «tesa luminosità dei fondali opachi ed immoti», di «masse plastiche» ormai quasi «consumate da una pittura orlata, tutta lembi piatti, lisce stesure di carni, dilatarsi di nubi tonde e scorporate: e dove la macchia di colore tende persino a frangere, ad annullare il contorno, sfumando con presentimenti di Amigoni e Pellegrini».
Franco Barbieri
P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.
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N°15
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