Mostra di Guido
Andloviz - Introduzione
La Civica Raccolta di Terraglia di Laveno Mombello e
Guido Andloviz
Guido Andloviz
La Commedia
Ceramica Guido Andloviz a Laveno Mombello
Enzo Biffi Gentili
Album Puglia,
repertorio dipinto a mano della produzione della Società Ceramica
Italiana.
Guido Andlovitz amava firmarsi Andloviz. L''italianizzazione" del
cognome, che prosegue oltre il crollo del regime fascista, non è a mio
avviso riducibile solamente a una scelta politica.
La mia ipotesi è che l'aneddoto sia significativo di una scelta estetica
fors'anche inconsapevole. Eppure gli inizi dell'attività di Andloviz
(anche a me piace chiamarlo cosi) in campo ceramico, nel 1923, presso la
Società Ceramica Italiana di Laveno, avvengono sotto una costellazione
stilistica d'oltralpe. Le "fonti" di Andloviz (come di Giò' Ponti, coevo
rivale” presso la manifattura concorrente Richard Ginori) sono state a
più riprese individuate da vari studiosi, connaisseur, amatori, da Paolo
Portoghesi a Carla Cerutti a Mario Munari nell'esperienza della Wiener
Werkstätte, di Dagobert Peche e Oskar Kaufman (1). D'altronde, questa
fascinazione proveniente da un'area austro-ungarica non caratterizza
solo gli anni '20 e lo "Stile 1925" nel nostro paese. Prima influenza,
come ha affermato Massimo Carrà, il "Liberty" italiano (2); poi in anni
molto recenti. è dichiarato fantasma figurativo, con le opere ceramiche
di nuovo di Dagobert Peche e con quelle di Michael Powolny per la Wiener
e la Gmunder Keramik, per i designers italiani che si ricimentano con i
vasi nell'operazione Nuova Ceramica Nuove Tendentse (3).
Continuare a insistere su queste fonti e a privilegiare solo il primo
periodo degli anni '20 non rende giustizia ad Andloviz. L'adozione di un
linguaggio internazionale, in variante "bassa" non è di per sè un
valore. O meglio lo diviene se il criterio di giudizio è, come troppo
sovente è avvenuto e purtroppo ancora avviene, extraestetico,
nell'opposizione di calchi o citazioni straniere a una presunta
ufficialità e italianità dell'arte del Novecento e "fascista". Ad
esempio Franco Bertoni, uno dei curatori della recentissima mostra
dedicata al periodo lavenese di Angelo Biancini parla, per Andloviz, e
per l'apparente vanità delle sue prove, di "una sorta di obiezione di
coscienza nei riguardi della cultura dominante... " e del tentativo di
trovare "... la possibilità di dialogare con l'Europa", in una risposta
avvertita e cosciente alle espressioni di un "nazionalismo piccolo e
medio borghese", da borghesia rurale (tra le quali Bertoni colloca il
Futurismo, il solo nostro movimento di avanguardia internazionale in
questo secolo). Del resto, non altrimenti è avvenuto per la celebrazione
di una presunta "resistenza" rintracciabile negli "stupidi ninnoli
graziosi" delle Ceramiche Lenci (4). Insomma, mi sembra di dover
condividere una affermazione di Anty Pansera che, riferendosi alle
ceramiche di Laveno progettate da Guido Andloviz ed esposte alla II
Biennale di Monza del 1925, le giudica talvolta eseguite "con citazioni
troppo vicine alle Wiener Werkstetten", anche se, ed è la parte positiva
della considerazione, "le sue decorazioni proponevano motivi di vita
settecentesca, resi con spirito caricaturale e briosa modernità" (5).
Al di là quindi del rapporto, un poco attardato (molti modelli di Perchè
sono degli anni '10), con l'Oltralpe, molto più interessante è il
rapporto verticale con la storia e la tradizione della ceramica. Il
settecentismo di Andloviz non è solamente riducibile alla moda
dell'epoca, solo "citazionistico". Il rapporto tra tradizione e
innovazione è un argomento un vincolo di progetto e di mercato. Sono le
illustri manifatture settecentesche, lombarde e venete, a fornire temi e
modi al progetto di Andloviz. Sopra e sotto gli smalti delle terraglie
lavenesi ricompaiono trasfigurate, le deliziose figurine della fabbrica
Felice Clerici: ragazze maliziose, il viandante che si riposa (che è
anche la fonte, a mio avviso del celeberrimo Pellegrino stanco di Giò
Ponti) cacciatori, contadinelle, signore in ghingheri, omini, maschere
della commedia. Insomma "le garbate caricature" del XVIII secolo a
Milano sono il vero imprinting stilistico per Andloviz e agiranno, certo
con minore freschezza, sino a dopo la seconda guerra mondiale (si pensi
a un altro tema, quello delle Mongolfiere, anch'esso "pontesco", ma
soprattutto, di nuovo, storico; rammento i decori a "Mongolfiera" della
settecentesca manifattura veneziana di Geminiano Cozzi) (6). Certo
l'elegante umorismo e la bonaria satira con cui vengono raffigurati i
personaggi ceramici di Laveno hanno qualche debito con illustratori
coevi.
Vaso Monza 1930 ca.
(foto d'epoca)
Mario Munari fa il
nome di Sto, Sergio Troano, pertinentemente e andrebbe riguardato anche
il Tofano meno noto, il disegnatore di riviste di moda; e si deve qui
rammentare un clima di grande "fioritura" dell'illustrazione e della
gravure, almeno per i casi, assolutamente emblematici, di Golia,
Cambellotti, Nonni, Balsamo Stella, protagonisti di più diretti passaggi
tra grafica e ceramica o vetro. Ma è un'altra "ripresa" del gusto
settecentesco, quella dell'esotismo orientaleggiante, della derivazione
iconografica da modelli cinesi e giapponesi che porterà a mio parere
Andloviz molto lontano. Ma se si dovesse obbligatoriamente ritornare
alla ricerca di inflessioni "austriacanti" nel linguaggio del primo
Andloviz, io proporrei la ricerca, sinora intentata, di radici
"astratte" piuttosto che "figurative". La Vienna degli inizi del secolo
conosce infatti nel campo della ceramica e delle arti decorative una
ornamentazione geometrica sovente adottata in bianco e nero su volumi di
severa linearità, sin quasi a configurazioni minimali, come nel caso di
vasi di Michael Powolny solo ricoperti da un reticolato ortogonale (in
una impressionante precedenza dell'arte "minore" sulla "maggiore":
quest'ultima infatti, se si tratta di astrazione, che "applica" le
acquisizioni formali della prima, in una inversione delle gerarchie e
delle suggestioni teoriche).
Anche nel giovane Andloviz, negli anni '20, compaiono decorazioni
astratto-geometriche, seppur in varianti cromaticamente accese,
"giallo-rosse: da un lato però esse, nuovamente, si riconnettono a una
tradizione molto antica", laddove il decorativo è connesso con il
simbolico (e sono, ad esempio, i motivi del meandro, o della svastica,
proposti negli stessi anni nei quali Giò Ponti alla Richard Ginori
ripercorreva figure di labirinti oppure di solidi geometrici tra
neo-platonismo e perspectiva artificialis); dall'altro, paiono
segni, con misteriosa precognizione, di future vibrazioni ottiche (e
sono, come altri esempi, una "struttura periodica" di triangoli ad
avvolgere con implacabile regolarità la superficie di un domestico
cache-pot; oppure le strisce a zig-zag che movimentano
avanguardisticamente il servizio da caffè Pola).
Vaso 630 1930 (foto
d'epoca)
Così, infine, è forse da supporre la conoscenza, da parte di Andloviz,
dei servizi della manifattura viennese di Josef Bock, tra i primi a
considerare l'ornamento se non un delitto un peccato e a privilegiare
campiture monocrome per esaltare lo studio formale del corpo
dell'oggetto.
Gli anni '20 sono quindi un'epoca assolutamente affascinante, ma non
solo per quello "stile di vita mondano" secondo Gian Carlo Bojani,
caratteristico della progettazione ceramica di un Giò Ponti (7), o per
mode geniali e impressive ma sempre caduche; quanto per la compresenza e
la mescolanza degli stili, l'articolarsi e il divaricarsi delle
estetiche, delle poetiche, delle ideologie. Giulia Veronesi e Rossana
Bossaglia hanno ben trattato di queste coesistenze intorno al 1925 (8).
In campo ceramico ad esempio è interessante, in area austro-tedesca, la
convivenza tra le Wiener Werkstätten
al loro sontuoso tramonto e le ceramiche geometricamente decorate
all'aerografo e "proletarie" delle manifatture della Repubblica di
Weimar. Il problema del rapporto tra l'artista-ceramista e l'industria,
sulla qualità del prodotto industriale ceramico, tormentava e
appassionava molti, proprio nel 1925. Se si vanno a rileggere le
interviste che Guillaume Janneau (9) fece a due "mostri sacri" della
ceramica francese, Emile Decoeur e Auguste Delaherche in quell'anno, si
comprende bene la questione e la querelle. Per Delaherche, il
ceramista-artista è come l'esploratore che apre nuovi territori per i
coloni (le industrie) che lo seguiranno. Però, subito dopo, condanna
l'uso indiscriminato nell'industria della tecnica del colaggio,
soprattutto quando serve a generare forme a sezione angolare, secondo
lui illogiche, perchè "Toute forme doit rappeler l'outil qui la crèe"
(ed evidentemente la base ideale di tutte le forme è la sfera, e
accettabili sono tutte le forme che sembrino generate dal tornio).
Decoeur è più moderato: per lui "le grand feu purifie tout" e anche la
tecnica del colaggio è praticabile. Ma svolge un ragionamento
sacrosanto, sul maggior pregio ceramico dei pezzi solo smaltati rispetto
a quelli decorati (il pregio viene contraddetto e invertito quando poi
si passa al prezzo al pubblico e alla considerazione del mercato). E
Decoeur proverà poi a introdurre i suoi concetti di "qualità" accettando
di lavorare come consigliere presso la manifattura di Sèvres dal 1939 al
1948.
Il problema del rapporto con l'industria si pone subito invece per il
giovane Andloviz, ventitreenne architetto chiamato alla collaborazione
con la SCI. Illuminanti sugli inizi di Andloviz sono alcuni testi
inediti che ora riproduco in catalogo, e che ho tratto dal fondo disegni
nell'archivio della Società Ceramica Richard Ginori di Laveno e da un
repertorio di forme e di decori, disegnato e dipinto a mano, di
proprietà di Federico Paglia che fu prima decoratore e poi capo reparto
presso la SCI (attualmente il repertorio è nelle collezioni della Civica
Raccolta di Terraglia di Laveno Mombello). Il primo testo,
straordinario, è il disegno originale per il decoro 1065. su di una
forma che verrà poi denominata Monza 15. In legenda, sotto la sagoma
dipinta, si prevede una esecuzione nei colori giallo, rosso, verde,
d'oro, bleu magarin, violetto, porpora con fascia orange al piede e
sfumatura gialla in ogni luce di colore", i contorni sono in nero. Il
motivo decorativo è molto classico, a scaglie. Si tratta, come dire, di
un incunabolo e di un compendio dei modi di progettazione di Andloviz.
Serie di sei piatti Monza
1927
L'arduo tripudio
cromatico, quasi un catalogo di smalti, complicato dalla previsione di
lumeggiature, è un "saggio" sui materiali e le maestranze della SCI, e
tende alla produzione di un "capolavoro" (non nel senso aulico, ma in
quello, industriale e moderno, di capo d'opera, di prova e misura di
un'aristocrazia operaia). Sul regesto del Paglia la stessa forma e lo
stesso decoro sono datati 1923, il che sarebbe davvero emblematico di un
démarrage strepitoso (ma è comunque certo che la forma con il nome Monza
e il numero 15, colloca il progetto negli anni '20). Il vaso in questa
versione, non risulta eseguito. Certo, ci sarebbero state grandi
difficoltà per la sua realizzazione. E qui introduco, con un altro
inedito esempio, il tema del rapporto tra il progettista e le maestranze
incaricate dell'esecuzione. Si tratta di un disegno magistrale di
Andloviz, un'araldica composizione che eguaglia le migliori riuscite di
Ponti. Nell'album di Paglia si ritrova lo stesso disegno, ma con un
leggero spostamento verso l'alto del decoro sulla forma (la Monza 87) in
modo che stendardi e oriflammi pendano agganciati da un filo che corre
in corrispondenza del diametro maggiore del vaso. La capacità di
Andloviz di seguire le tettonica dell'oggetto, evidenziata da Flaminio
Gualdoni e Silvano Sandini (10), certamente molto deve alla traduzione
dei maestri decoratori. Esaminiamo ora una forma nota, la Monza 83 del
1927, che abbiamo ritrovata disegnata in una versione cromatica inedita.
Siamo, di nuovo, tra innovazione e tradizione: da un lato la forma è la
rielaborane di una fiasca da pellegrino cinese; dall'altro il colore
verde dei ramoscelli e delle foglioline conferma la tesi di Mario Munari
per cui sarebbe impensabile mettere nel vaso fiori diversi da quelli
delle foglie dei fiori.
Inoltre l'uso violento dei complementari nell'accostamento del rosso e
del verde riferisce di una ricerca di Andloviz in corso sull'uso del
colore come metodologia scompositrice dell'oggetto, che troverà la sua
migliore applicazione sui servizi da the e caffè. Anche in Germania le
manifatture "razionaliste" della Repubblica di Weimar praticavano sugli
oggetti d'uso la differenziazione cromatica dei componenti. In questa
direzione di lavoro Andloviz, nella SCI, applicò il contrasto cromatico
tra corpo e manici delle tazze da the del contemporaneo servizio Monza
81, come documenta l'album Paglia. Tuttavia riguardando lo stesso
repertorio si nota come sin dal 1920 circa, prima quindi dell'avvento di
Andloviz, iniziasse, seppur su forme tradizionali, la separazione
cromatica dei diversi elementi delle tazze così come, poco dopo,
apparissero multi decori all'aerografo. Insomma, da queste brevissime
note si comprende come uomini e tecnologie della SCI, fornitori (le
decalcomanie venivano importate in gran parte dina Germania) e
"commerciali" (che erano poi quelli che dicevano "guardi cosa fa la
concorrenza" o "questo è quello che va") furono di fatto, coprogettisti
di Guido Andloviz. E' questo va a merito, non a detrimento, del giovane
architetto.
Servizio da tavola Vecchia
Milano 1931
Giunti agli anni '30, si può rovesciare l'accusa, in alcuni esiti di
Andloviz, di imitazione del gusto straniero. In Germania infatti il
mondo ceramico va verso l'obbedienza a un nuovo padrone: Kitsch e la
Villeroy e Boch, in clima di "autarchia" e di riscoperta dei valori
nazionalistici, rinnega le innovazioni di Weimar e torna a decori
tradizionali e ovunque si diffondono con inaspettata rapidità,
letteralmente dal giorno alla notte, fiori tedeschi, puntini o bordi
azzurrini tedeschi al posto della decorazione spruzzo anni Venti con i
suoi vivaci colori e il suo vigore formale... "Terraglia tedesca di
argilla tedesca" diceva uno slogan pubblicitario del 1937" (11). Non
diversa ma solo politicamente e non esteticamente, e la posizione, sono
gli slogan della SCI. E vengono documentati, in catalogo come in mostra,
con la ricostruzione di un gigantesco pannello realizzato nel 1938 per
la Mostra dell'Autarchia in Roma (ed è il maggiore evento, il più
spettacolare, di questa esposizione). Sul pannello si legge Prodotti
Autarchici Società Ceramica Italiana di Laveno e sono indicate
materie prime e fonti di energia con le zone di provenienza, tutte
rigorosamente italiane (San Vincenzo, Gattinara, Tremenico, Ticino,
Vizzola Ticino) e per ognuna Andloviz aveva disegnato uno dei suoi
sintetici e gradevolissimi paesaggi. Più in basso, sempre Andloviz aveva
illustrato le lavorazioni tecniche, stilizzando, con più severità del
solito, figure di operaie e operaie. Ancor più sotto, dopo una veduta
del profilo dei monti e delle fabbriche di Laveno, una mensola
sorreggeva una selezione dei prodotti, dai servizi a vasi del settore
Fantasia della SCI (12). E qui compariva con un'anfora intelligentemente
semplificata rispetto alla precedente Monza 58 un vaso, già presentato
alla VI Triennale di Milano del 1936, che giudico un capolavoro di
Andloviz. Si tratta di un altissimo esito espressivo, come avrebbe detto
Le Corbusier, dell'invariabile nella storia dell'arte vascolare.
La forma globulare già brillantemente esperita nel vaso Monza 91,
viene sapientemente ovalizzata e contrasta, in Europa, le più alte
riuscite di una "astrazione" Vascolare sospesa tra Avanguardia e
Tradizione, razionalità di progetto e intuizione degli archetipi, come
gli elaborati, di poco precedenti, editi in Francia dal "purista" Paul
Bonifas, il ceramista che fu anche il segretario della rivista L'Esprit
Nouveau (e con il quale sussistono forti interferenze nel gusto per
una art decò sans decor della quale è tipico esempio il vaso 1264
di Andloviz) oppure le prove fornite in Unione Sovietica dal "suprematista"
Nicolaj Suetin, disegnatore capo della Manifattura di Slam di
Pietrogrado e d'altra parte sovrasta quelle, di poco successive,
realizzate di nuovo in Francia da Emile Decoeur presso la Manifattura di
Sèvres.
Occorrerà attendere nel dopoguerra i vasi schiacciati di Edouard
Chapallaz e le teorie sull'appiattimento dell'oggetto ceramico (come
indice di una tendenza all'"autonomia" estetica e ai valori "visuali")
degli inglesi del movimento dello Studio Pottery, per compiere
altri accettabili paragoni. Il vaso industriale di Andloviz raggiunge
quella atemporalità dell'oggetto che in Germania era stata
predicata bene dal Werkbund ed era, negli anni dell'autarchia, invece
praticata male, (e qui si coglie una sostanziale differenza, progettuale
e morale, dell'industria italiana e tedesca sotto il fascismo e il
nazismo). La forma del vaso, come è naturale, viene sublimata quando la
smaltatura è monocroma, sia pur a volte raffinatamente maculata o
screziata o cristallizzata utilizzando le virtualità tecnico - estetiche
del décor de réaction, rarissimo nel modernismo
italiano, e assume i toni del rosso vesuvio o di quella patina verde
insieme assolutamente tipica di un'epoca (come tipico fu il pur diverso
verde del pigmento del cemento dei vespasiani torinesi Renzi) e
intemporale, archeologica e futuribile.
Quindi Andloviz, che negli anni Venti, secondo la corrente opinione, è
uno dei due Dioscuri Architetti della ceramica italiana con Giò Ponti,
negli anni Trenta va promosso come uno dei due grandi architetti della
ceramica europea, ma sostituendo il partner, che diviene a mio avviso
l'inglese Keith Murray, attivo presso la manifattura Wedgwood. Se
Andloviz lavora anche su vasi "a tre sezioni di cono", nella stessa
intelligente direzione di un'estetica della macchina utensile ceramica e
del suo prodotto agisce Murray con i suoi progetti di oggetti "anulari".
Così, anche il figlio d'Albione è "pittore monocromo", dalla tavolozza
meno robusta di quella di Andloviz eppur sofisticatissima con i suoi
lunari, paglierini, avoriati bianchi e giallini o i suoi
orientaleggianti cilestrini e verdini.
La decorazione in Andloviz, è però assiduissima pratica, pienamente e
felicemente accettata. In lui non vi è quindi nessuna teorica
dichiarazione di un "assoluto" ceramico da opporre a vezzi ornamentali.
Ma anche nel campo del decoro Andloviz si rivela un importantissimo
innovatore partendo, di nuovo, dalla storia e dalla tradizione del
mezzo. Ho già detto della divertita riscrittura settecentesca, e della
ripresa della "cineseria'', tematica e cromatica (e Reggiori ha
rinvenuto un contenitore Monza che adotta il bianco-blu, tradizionali
cifre di questa tradizione) (13). Ma oggi sappiamo che il '700 non fu
solo secolo di gusto orientaleggiante in ceramica, ma anche epoca, in
filosofia e nell'estetica, di messa in discussione dei canoni
proporzionali e simmetrici. Gillo Dorfles ritiene che gli empiristi
inglesi furono i primi, con Burke, a dichiarare che la bellezza non
aveva "anything to do with calculation and geometry" (una geometria così
come era concepita sino ad allora in Occidente) (14). Si guardi ora ad
un piccolo capolavoro di Andloviz, un disegno inedito di decorazione
"alla cinese". È evidente subito l'andamento diagonale della
composizione, sintomatico di una lettura strutturale dell'arte
dell'estremo Oriente. Ma anche quando il soggetto non è esotico, come
nel caso dei paesaggi lacustri, lagunari e comunque italiani, Andloviz
sovente conferma una obliquità del disegno, fughe visuali sghembe, usi
accorti del vuoto, in una sottile deriva verso l'assimmetria (e, dal
punto di vista pittoricistico, pensando ai suoi monti, tecniche
chiaroscurali, giochi di profili, atmosfere e sfarinamenti e
annebbiamenti dei tratti quasi zenisti) (15). Anche segni ed emblemi,
dall'adozione diretta, rinvenuta nell'album del Paglia, di un classico
mono giapponese su una tazza da colazione del 1925: sino al
marchio LAVENIA con le sagome dei monti e delle onde, sono sigle di un
"giapponismo" di Andloviz e della SCI (16).
Cineseria e giapponismo produrranno poi esiti rivoluzionari nella
decorazione dei servizi. La rieducazione dello sguardo compiuta con il
passaggio a Oriente induce al privilegio di angoli visuali esterni dei
"margini" della composizione, rinunciando alla "centralità" e a sterili
giustapposizioni in gabbie ortogonali. Il decoro Lago, sulla forma
Vecchia Milano ma soprattutto sulla forma Pomezia (un nuovo brano basico
del design nel perfezionamento di una tipologia canonica) è fondamentale
snodo e modello della storia della ceramica. Questo tipo di approccio
diverrà radicale negli anni '50 con i decori sulla forma Urbino: gli
angoli visuali da esterni divengono estremi, figure e oggetti vengono
resecati e piegati, vuoti e pieni sono in bilico, ma miracolosamente;
l'ornamentazione si capovolta sul pezzo e si aggancia e allaccia tra i
pezzi in una calcolatissima, prestabilita disarmonia (dove poi
l'intervento dell'utilizzatore, di chi apparecchierà la tavola, di chi a
quella tavola mangerà e sposterà e ruoterà i pezzi, aumenterà le
possibili differenti configurazioni). La radice di questo design è però
antica, la luce che lo fa intendere è sorta a levante.
Il design di Andloviz non si applica, nella SCI, solo a un "artigianato
meccanizzato", ma a una e vera e propria produzione industriale. I
volumi produttivi importanti, nelle SCI, venivano realizzati nella
"tonderia (i piatti) e in genere nei reparti dedicati ai "servizi". Sin
dal servizio Monza del 1925 (altrimenti, familiarmente, ma
propriamente, chiamato "servizio margherita") Andloviz si dimostra
industrial designer "moderno", capace di un disegno denso di analogie
con l'organico e i processi di crescita del mondo naturale e vegetale.
Il sopraricordato servizio Urbino degli anni '50 è interessante,
come hanno notato Sandini e Gualdoni, per la forma ottenuta da sezioni
longitudinali di cilindro. Ma la sperimentazione di forme geometriche
elementari come base di progetto è precedente: rammento la "quadratura
del piatto" del servizio Orvieto ma soprattutto l'estrema pulizia
dell'oggetto, la purissima bassa ciotola (dal piatto scompare la tesa,
la tradizionale "ala" del servizio Vittuone, un esito
anticipatorio del razionalismo e del minimalismo. Il funzionalismo di
Andloviz tuttavia non sarà mai "scandinavo" e puritano. Nemmeno nel
secondo dopoguerra, quando alle Triennali di Milano come quella del 1951
vengono notati e premiati gli oggetti di Stig Lindberg, Kaj Bojesen, Rut
Bryk, Axel Salto, Max Lauger, il lavoro di Andloviz perde il suo
carattere di "italianità" (e se davvero e per forza si volesse
individuare una falsariga iperborea occorrerebbe tornare all'anteguerra
e ad alcuni suoi vasi in terraglia del 1937-40 dalle pareti ondulate,
che probabilmente qualcosa dovevano alla visione del famosissimo vaso in
vetro Savoy di Alvar Aalto presentato alla Triennale di Milano del
1936).
Al contrario, è come se negli anni Cinquanta emergessero alcuni tratti
di quel neoclassicismo che negli anni Venti-Trenta accomunava progetti
di Ponti, Andloviz e poi del loro fratello minore ceramico Giovanni
Gariboldi. Il neoclassicismo lombardo, stile nato nell'architettura e
poi propagato nelle arti applicate, che aveva tra i suoi maggiori
rappresentanti, secondo Alberto Clementi (17), Emilio Lancia, Tommaso
Buzzi, Ottavio Cabiati, Alpago Novello, Giuseppe De Finetti, Ferdinando
Reggiori. Michele Marelli, Paolo Buffa, Guglielmo Ulrich e Mechiorre
Bega, nella sua costitutiva ambiguità eclettica conteneva anche valenze
anticipatorie. E a Milano, in Lombardia, è stile sopravvivente alle
datazioni convenzionali: basti pensare, per quanto riguarda la mobilia,
all'opera di Guglielmo Ulrich negli anni Quaranta, che a una analisi
strutturale di molti suoi connotati (rastremature e sinuosità, andamenti
fusiformi e archeggiati, una fluida linearità) appare
insieme epigonale e novatrice, postliberty e neoliberty, storicista e
avanguardista (18).
E per quanto concerne il campo specifico della ceramica, esempio
esplicitamente neoclassico, a partire dalla sua intitolazione, è il
servizio di porcellana Impero del 1951, prodotto, su un progetto
dell'architetto Care Lacca, proprio dalla SCI di Laveno sotto la
direzione artistica di Guido Andloviz.
Andloviz stesso offre con un altro servizio, l'Arezzo del 1955,
una prova riassuntiva di alcuni tra gli stilemi più alti degli anni
Cinquanta in ceramica (la forma a "clessidra" di Fausto Melotti, gli
smerli di Giovanni Gariboldi, le asimmetrie bicromatiche della Campi,
magari solo come "nota" nelle prese) e prodromi neoliberty (19) a
comprova di una permanente vivacità e intuitività progettuale, in
contraddizione con il corrente giudizio su di una presunta "stanchezza"
dell'ultimo suo periodo di direzione.
L'originalità e il talento anticipatorio di Andloviz si applicano, ed è
il terzo caso, anche nel settore della progettazione di apparecchi per
impianti sanitari. Ho discusso con Antonia Campi del carattere
rivoluzionano delle serie Adamello (1937), Cevedale (1940)
e Marmolada (1943).
Quest'ultima
rappresenta un vero e proprio climax creativo e la base di tutto
il futuro industrial design del sanitario (ma anche il lavabo della
Cevedale dal lato anteriore rientrante, è una svolta storica dal
punto di vista di preoccupazioni ergonomiche). È da impugnare il primato
sinora riconosciuto a Giò Ponti in questo campo con la serie Ponti Z
del 1954. E non è solo questione di date; il disegno di Ponti per il
lavabo è geometricamente "duro" (con qualche conseguente difficoltà
produttiva), e tutto l'oggetto trasmette dinamismo e aggressività (e
l'elegante scatto formale psicologicamente è errato). Il superamento
dello squadrato e del monumentale era ottenuto. meglio, con il "dolce"
invaso dei lavabi di Andloviz.
Ma vi è anche in Andloviz un vero e proprio talento predittivo, che non
si misura in anni ma in decenni. Penso alla fondazione del concetto di
serie variabile: la possibilità di fornire, per la stessa forma, diverse
decorazioni. Questo avveniva per la produzione "di massa" dei piatti, ma
anche per le serie limitate del settore "Fantasia" della SCI (vasi,
scatole, complementi ecc.). I cataloghi della SCI, per ogni forma,
proponevano cinque tipi di finitura: smalto bianco o avorio, smalti
semplici, smalti cristallizzati, smalto Vesuvio, decorazioni
varie, piane e a rilievo. È l'ultima provvisoriamente, attestazione di
geniale modernità: il modello cerami-co, come oggi il modello
automobilistico, viene venduto con diverse "vernici" o "allestimenti" (e
recentissime esperienze, sempre in campo ceramico, di variazioni
ornamentali sullo stesso tema formale, quella da me curata, per
l'Agenzia Polo ceramico di Faenza e quella curata da Alessandro Mendini
per Tendentse Alessi qualcosa devono all'exemplum di Andloviz)
(20).
Si tratta qui non solo di un Andloviz designer, ma art director,
pienamente consapevole dei suoi vincoli di progetto. Vincoli di
tecnologia. ma anche vincoli di mercato, che può essere di massa come di
"nicchia" che esigono una strategia dell'attenzione alle "oscillazioni
del gusto". Si può ben comprendere così, ora, il dislivello qualitativo
dei progetti di Andloviz, e supporre, persino, un uso forse consapevole
del kitsch. Lo smisurato amore collezionistico, la cultura del
modernariato e del mercatino, che pur tante benemerenze hanno avuto
nella ricostruzione di un patrimonio che sarebbe stato trascurato dalla
"cultura colta" sono naturaliter acritiche. Anche le cadute di
livello, che vanno riconosciute, in Andloviz e nella SCI, vengono
riscattate dalla coscienza della rilevanza e della connessione dei
momenti a monte (la ricerca) e a valle (la commercializzazione) del
processo produttivo, e di problemi di "gestione della complessità", come
direbbe Andrea Branzi.
Causa finale. Occorreva rovesciare alcune
"idee ricevute" sul lavoro di Andloviz. Sui quasi quattro decenni della
sua attività, andava rivisto, Anche attraverso testi inediti, il periodo
degli anni '20 e andava ingrandito il periodo degli anni '30. Il
blow-up operato ha consentito l'individuazione di alcuni
fondamentali plessi progettuali, formali e decorativi, che collocano
Andloviz con tutta legittimità come protagonista del proto-design
italiano, o di una "via italiana al design". Lo stesso carattere
ornamentale, di larga parte della sua produzione rispondeva sia a un
rapporto critico ma stretto con la tradizione, sia a esigenze
industriali e di mercato (inoltre, oggi i termini decorativo o
calligrafico hanno finalmente perduto una pronuncia di disvalore).
La stessa coincidenza della "fioritura" di Andloviz con una fase
politica molto discussa è da riesaminare criticamente. Del resto,
studiosi insospettabili come Enzo Frateli hanno affermato che la stessa
politica dell'autarchia in Italia è stata uno stimolo per la produzione
di nuove idee e nuovi modelli. La stessa Triennale autarchica del 1936 è
ceramicamente di importanza mondiale per il confronto assolutamente
paritario tra campioni della forma pura e del proto-design come
Andloviz, lo spagnolo Antoni Cumella, la tedesca Prude Petri. Il
"revisionismo" adottato e la proclamazione di "italianità" non si
fermano tuttavia all'aneddoto, seppur di grande importanza documentaria
(come la pubblicazione in catalogo di inediti riguardanti un rapporto
tra Andloviz e Giò Ponti per la realizzazione di un grande pannello
ceramico per la sede del "Popolo d'Italia") né indulgono a tentativi di
interpretazione di minuzie testuali (pur molto divertenti, come
l'analisi che Mario Munari compie su pomoli e manici di zuppiere di
Andloviz che raffigurano la lettera M, nella supposizione di un omaggio
a Mussolini).
Ho voluto intitolare questo breve saggio La Commedia Ceramica
riferendomi soprattutto a Dante (ma rammento anche un bel titolo di
Tommaso Buzzi. Il teatro ceramico per una esposizione dei prodotti
dell'ICS alla Triennale del 1930). L'Alighieri, nelle sue Epistole
(e più precisamente nella XIII) ci dice che il genere della commedia si
caratterizza per un modo "piano e umile" dell'espressione, per una
lingua "volgare", comprensibile anche per "le donnette", con venature
persino "rustiche". E in volgare, in italiano, alle "donnette" (che
compravano i piatti) occorreva anche parlare. Ma poi questo eloquio
veniva trasfigurato dal plurilinguismo e dalla "mescolanza degli stili":
così, ceramicamente Andloviz era insieme intelleggibile per un vasto
pubblico ma suscettibile di diversi livelli di gradimento e di
interpretazione. La materia del suo lungo racconto era quella "sublime",
nobile dell'oggetto "da parata" ma anche quella "triviale"
dell'apparecchio sanitario, attraverso infinite approssimazioni a questi
due poli estremi, e infinite contaminazioni di forme e decori. Dante
però afferma anche un'altra caratteristica del genere della Commedia: la
sua materia "termina prosperamente". Nel paragone che ho adottato (e che
certo, deve essere inteso nel mantenimento del senso delle proporzioni)
questo lieto fine non può essere applicato. La vicenda umana di Andloviz
e quella industriale della SCI non si concludono "prosperamente". La SCI
è stata assorbita dalla Richard-Ginori e anche il suo nome non esiste
più. Ma da poco, la Richard-Ginori ha rimesso in produzione un servizio
Lago di Andloviz. Il Municipio di Laveno Mombello, la Civica
Raccolta di Terraglia, l'Amministrazione di Grado e la Regione Friuli
Venezia Giulia hanno organizzato importanti mostre. Forse da queste
celebrazioni di Guido Andloviz può nascere un nuovo desiderio, per la
ceramica industriale italiana, di progetto, e di decoro.
1) P. Portoghesi, A Pansera,
Giò Ponti alla Manifattura di Doccia, Milano 1982; C. Cerutti,
Arti decorative del novecento, Art decò. Novara. 1985; M. Munari
Guido Andloviz, Ceramiche di Laveno 1923-1942, Roma 1990.
2) M. Carrà, Spazi, forme, colori, Torino 1992.
3) P. Scarzella, Vasi comunicanti, Milano 1988.
4) G. C. Bojani e F. Bertoni,
(a cura di) Angelo Biancini tra Faenza e Laveno. Ceramiche 1937 -1940,
Firenze 1993. Il libro-catalogo, comunque pregevole per la ricerca su
Biancini e per gli apparati, è introdotto anche, con abituale sicurezza,
da Gian Carlo Bojani. Lo stesso Bertoni, quando dimentica l'ideologia,
porta un utile contributo di conoscenza alle vicende della SCI. Per
quanto riguarda la Lenci, vedi M. Appiotti,
Lenci, vita di bambola, in "La Stampa", 25 Marzo 1990.
5) A. Pansera, Storia e cronaca della triennale, Milano 1978.
(6) Sulle manifatture settecentesche e la decorazione dei servizi
consultare il volume di S. Levy, Tazzine Italiane da collezione,
Milano 1968.
7) G.C. Bojani. Introduzione
in L'opera di Giò Ponti alla manifattura di Doccia della Richard
Ginori. (Catalogo della mostra) Faenza 1977
8) G. Veronesi, Stile 1925, ascesa e caduta della Art Decò, Firenze
1978; R. Bossaglia, I saggi fondamentali. Il Decò italiano, Milano 1975;
eadem Arti Decorative e decò in La Metafisica: gli anni 20,
Bologna 1980; Guide all'architettura moderna - L'Art Decò, Bari
1984, e Il giglio, l'iris, la rosa, Palermo 1988.
9) G.Janneau,
Formes Nouvelles et Programmes Nouveaux. Parigi 1935.
10) F. Gualdoni e S. Sandini,
Ceramiche di Guido Andloviz (Catalogo della mostra) Gualdo Tadino, 1981.
11) T. Buddensieg. Terraglia:
dal surrogato di porcellana all'articolo di massa, in
Ceramiche della Repubblica di Weimar. (Catalogo della Mostra),
Milano 1984, pp.17-22.
12) L'originale disposizione del pannello e i prodotti della SCI esposti
all'epoca sulla mensola sono documentati in una fotografia riprodotta in
A. Minghetti, Andloviz Guido, ad vocem. Enciclopedia
Biografica e Bibliografica italiana Ceramisti, Milano 1939, XLI,
p.25.
13) Si veda The blue and
white tradition in H.M. Fletcher (a cura di). Techniques of the
World's great masters of pottery and ceramica. Oxford 1984.
14) G. Dorfles, Il problema dell'asimmetrico, in Elogio della
disarmonia, Milano 1986.
15) Sulla pittura cinese e il
taoismo e lo zenismo in arte offrono un buon orientalismo i volumi di
P.C. Swann, La Peinture chinoise, Parigi 1958
16) Sul giapponismo è
fondamentale il volume di S. Wichmann, Giapponismo, Oriente-Europa;
Contatti nell'arte del XIX e XX secolo, Milano 1981; sulla
"cineseria" è un classico il precedente saggio di H. Honour, L'arte
della cineseria, Immagine del Catai, Firenze 1963.
17) Sul neo-liberty come
positiva reazione a una maniera di imitazione di moduli danesi o
finlandesi e insieme voluta o in volontaria imitazione del passato resta
attuale la recensione di Gillo Dorfles alla mostra Nuovi Disegni per
il mobile italiano (G. Dorfles, Una mostra a Milano, in
Domus, n.367, giugno)
18) E. Biffi Gentili, (a cura
di) L'Apprendista stregone, Milano, 1991; 100% MAKE UP.
Alessandro Mendini and...La Fabbrica Estetica, Novara 1992.
19) A Clementi. Storia dell'arredamento (1850-1950), Milano 1952.
20) F. Biffi Gentili. Gli
stili passano lo stile resta, in U. La Pietra (a cura di). Guglielmo
Ulrich, Milano 1994.
P.S.: Dal testo originale sono
state omesse la maggior parte delle immagini
tratto
da:
Guido Andloviz
©
Edizioni della Laguna
ne del genio architettonico di Mario Botta, deve aver
vissuto lo sgombero della mostra come una vera, propria e liberatoria
evacuazione.