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Nel Settecento,
Venezia vive in campo artistico e culturale una seconda "età dell'oro". La
città si rinnova, assumendo quel volto che per gran parte mantiene
tuttora. In questo secolo si afferma un
genere pittorico fino ad allora sporadicamente praticato dagli artisti
locali: il vedutismo. I pittori riprendono gli aspetti più o meno noti
della città lagunare per soddisfare le esigenze di famiglie patrizie, di
nobili, soprattutto inglesi e tedeschi, ma anche francesi, che visitavano la città nel corso del loro "voyage d'Italie"
(Venezia, Firenze, Roma, Napoli), e di coloro che pur non essendo mai
stati a Venezia, intendevano decorare le loro residenze con vedute
festive o feriali della Serenissima.
I grandi
protagonisti di questa straordinaria stagione pittorica veneziana sono: Canaletto
(Venezia 1697 – 1768),
Luca Carlevarijs
(Udine
1663
- Venezia 1730),
Bernardo Bellotto
(Venezia 1722 – Varsavia 1780),
Francesco Guardi(Venezia
1712 –1793),
Michele Marieschi
(Venezia 1710 - 1744).
All'attività degli esponenti più celebri si affianca quella di pittori
minori, capaci comunque di produrre opere di grande fascino e qualità:
Gaspar Van
Wittel (Gaspare Vanvitelli)
(Amersfoort, 1653 – Roma, 1736),
Johann (Giovanni) Richter
(Stoccolma 1665 – Venezia 1745),
Bernardo
Canal (1664 - 1744),
Antonio Stom (Venezia 1688 – 1734),
Antonio Visentini
(Venezia 1688 – 1782),
Francesco Battaglioli (Modena?, 1718 ca. - Venezia, 1797 ca.), Giovan Battista (Giambattista) Cimaroli (Salò, 1687 - Venezia, 1771),
Appollonio Domenichini (Venezia, 1715 - c. 1770), Francesco Albotto
(Venezia?
1721 – Venezia 1757),
Gabriel Bella
(1730-1799),
Francesco Tironi
(Venezia 1745 – 1797), Giacomo Guardi
(Venezia 1764 - 1835), Vincenzo Chilone (Venezia 1758 -
1839/40) Gianfrancesco Costa
(Venezia, 1711 - 1772)
e Giuseppe Bernardino Bison
(Palmanova 1762 – Milano 1844.
Nell'articolato
panorama del vedutismo settecentesco veneziano, uno dei fenomeni
artistici più significativi del Settecento europeo, la pittura di
vedute, nella sua essenza, si lega alla percezione di un aspetto
singolare, sorprendente e in definitiva capriccioso: il piacere destato
dalla contemplazione di edifici, nobili o rustici che può essere
comparato all'emozione del viaggiatore e dell'artista di fronte al
pittoresco della natura. Anche il capriccio rovinistico, raffigurando le
tracce di una perduta bellezza classica che nobilita il paesaggio con la
sua singolarità estetica, desta nell'amatore il piacere di un'emozione
raffinata e sottile. Vedute e capricci si inseriscono quindi ugualmente
nella memoria di una sorpresa eccitante, malinconica o suggestiva ma
comunque singolare. I generi si confondono: «In Guardi, e perfino nel
minuzioso Canaletto, non è sempre facile distinguere la veduta, il
capriccio, il paesaggio immaginario. Gli amatori per i quali lavorano
domandano ora descrizioni esatte, ora delle immagini incantatrici, anche
a costo di tradire la verità» (Starobinski). Fin dall'inizio del
Settecento vedute e capricci si muovono su piani paralleli che si
intersecano e si sovrappongono, vanificando nei fatti l'assunto di
Bonicatti (1967, p. 23) secondo cui «il capriccio nella sua accezione
settecentesca di genere artistico autonomo viene a costituire
un'antitesi del vedutismo (intendendo quest'ultimo nel tipo canonico di
veduta esatta) ». Se così davvero fosse, rimarrebbe incomprensibile il
continuo e assolutamente disinvolto passaggio di tutti i grandi
vedutisti dalla veduta esatta al capriccio dimostrando la contiguità e
la complementarità – non l'opposizione – dei generi.
Posto in relazione
con il mondo dell'invenzione, del fantastico, dell'irrazionale, il
Capriccio venne riferito all'improvvisazione, ai repentini
passaggi di tema, ai ruoli bizzarri e grotteschi degli istrioni, alle
finzioni ed ai modi burleschi delle maschere della Commedia
dell'Arte, specificatamente nel campo musicale. Nel Discorso
sopra le immagini sacre e profane di Gabriele Paleotti (1582),
l'aggettivo «capriccioso» era ancora ritenuto, nel campo artistico,
sinonimo di «mostruoso» e di «licenzioso». Nel Seicento, grazie alle
interpretazioni grafiche lucide e sfreccianti di Jacques Callot, ebbero
vastissima diffusione le serie di stampe con Capricci di varie figure
dove, sullo sfondo delle città e delle campagne toscane, si agita in
primo piano tutta una composita umanità di mendicanti, girovaghi,
spadaccini, soldati, nobildonne. Puntando sulla preminenza delle figure
rispetto all'ambientazione scenica, Callot esalta il momento ludico,
estemporaneo, della finzione teatrale, facendo emergere una
rappresentazione burlesca e satirica della commedia popolare, esaltata
quale spettacolo della vita quotidiana. L'esasperazione dei contrasti,
dei gesti, delle movenze, delle caratteristiche somatiche dei personaggi
desunti dai modelli della Commedia dell'Arte, viene scandita da
movimenti acrobatici, pose licenziose, sberleffi irriverenti. Al tempo
stesso la manipolazione dell'immagine, giocata su uno sbalorditivo
contrasto tra l'imponente rilievo dei primi piani e la irraggiungibile
lontananza degli orizzonti, sorprende lo spettatore con la sconcertante
novità del colpo d'occhio. Passando dall'accezione di comportamento di
rottura delle buone norme razionali, civili, sociali, educative, il
termine capriccio si qualifica poco a poco nel settore delle belle arti
per designare un prodotto musicale, letterario, pittorico che riesce ad
imporsi grazie alla forza geniale dell'invenzione trasgressiva in
opposizione all'ossequio accademico alle regole codificate.
La tematica capricciosa fu subito ripresa, nel campo dell'incisione, tra
il 1640 ed il 1650 da Stefano Della Bella, che nelle sue serie di
Capricci e di Diversi capricci delineò variazioni paesistiche
animate da putti, pastori al guado, suonatori di ghironda, mendicanti,
fanciulle in cammino, toccando il diapason nella splendida Raccolta
di varii capriccii et nove jnventionj di cartelle ed ornamenti. In
questa suite l'artista intagliò, con spumeggiante fantasia, un
vastissimo repertorio di immagini decorative: tigri e leoni, tritoni e
sirene, putti e aquile, teschi e racemi, tralci e nastri, inseriti entro
una esuberante profusione di sagome e volute.
Con Della Bella il
capriccio tende a connotare il desiderio di evasione, di libertà, di
fuga, di realizzazione delle più intime aspirazioni dello slancio
creativo che l'artista esprime con una tessitura segnica effervescente,
capace di profilare i motivi con una leggerezza capillare e di
trasfondere nei piccoli rami tutto il brio, la freschezza, l'originalità
delle invenzioni. Il capriccio diventa sinonimo di intuizione geniale
con cui l'artista evoca immagini stravaganti e vivaci.
Mentre nell'ambito musicale, nel Settecento, il termine assunse
un'accezione di ricerca sperimentale, di esercizio virtuosistico non
disgiunto peraltro da intenti didattici, nella pittura il concetto si
affinò. Sorto come invenzione bizzarra, anche il capriccio assunse
le sue norme: divenne una irregolarità regolata.
E' a questa definizione che si richiama, con tutta la sua prepotente
carica innovatrice, il capriccio veneziano del Settecento nelle sue
polimorfiche valenze: paesaggistica, rovinistica, architettonica,
grottesca, visionaria.
Dario Succi
Il Capriccio
rovinistico e paesaggistico
Capriccio o veduta? Il genere viene astrattamente fatto dipendere dalla
possibilità di ricognizione della collocazione topografica del complesso
architettonico.
Nella cultura
figurativa veneta settecentesca la tradizione del capriccio si lega al
rovinismo poiché «i due maggiori protagonisti ed iniziatori di tale
fenomeno nella prima metà del secolo – Marco Ricci e Giovan Battista
Piranesi – avevano in comune una formazione di cultura teatrale» e
quindi scenografica (Bonicatti 1967, p. 25).
«Mentre la arbitrarietà dell'invenzione rovinistica si giustificava
nella scenografia con il carattere estemporaneo e lo scoperto
illusionismo dello spazio scenico, al di fuori di tale spazio la rovina
assume un valore diverso di linguaggio immaginativo, che comporta altri
significati [...]. L'interpretazione della rovina come capriccio
proviene allora, nel primo Settecento, dalla nuova arbitrarietà che
assume tale forma uscendo dal contesto della finzione scenica e
facendosi genere artistico autonomo con propri problemi di linguaggio».
Ma come si concilia con siffatta prospettiva il ruolo di Luca
Carlevarijs che, immune da collegamenti con la scenografia teatrale, si
fa promotore della veduta ideata già agli albori del secolo e la connota
con una precisa cadenza veneta? Verso il 1710 Luca affianca alla
produzione di vedute una serie di capricci con porti di mare in cui
prevalgono spunti romani, inventando partiture architettonicamente
sempre più complesse e utilizzando inserti rovinistici identificabili
con monumenti reali. L'assemblaggio di citazioni, interpolate per lo più
da prototipi barocchi berniniani, di monumenti equestri e di fontane ed
il ricorso ad una serie di immagini, non letterali ma sufficientemente
riconoscibili, codificate nei dipinti e nelle incisioni di precedenti
generazioni di artisti, vengono rielaborati da Carlevarijs con
«pittoresca licenza», cioè a capriccio.
Una carica fortemente innovatrice nei confronti della tradizione
scenografica emiliana e rovinistica barocca innerva le vedute ideate del
pittore udinese che per primo a Venezia riscatta le rovine e i monumenti
dell'antichità classica dal ruolo esangue di quinte architettoniche
innestando la tematica rovinistica, già largamente diffusa nell'Italia
settentrionale non meno che a Roma e a Napoli, sul tronco della
tradizione lagunare. Fin dall'inizio del Settecento quindi vedute e
capricci si muovono su piani paralleli che si intersecano e si
sovrappongono, vanificando nei fatti l'assunto di Bonicatti (1967, p.
23) secondo cui «il capriccio nella sua accezione settecentesca di
genere artistico autonomo viene a costituire un'antitesi del vedutismo
(intendendo quest'ultimo nel tipo canonico di veduta esatta)». Se così
davvero fosse, rimarrebbe incomprensibile il continuo e assolutamente
disinvolto passaggio di tutti i grandi vedutisti dalla veduta esatta al
capriccio dimostrando la contiguità e la complementarità – non
l'opposizione – dei generi.
La pittura di vedute, nella sua essenza, si lega alla percezione di un
aspetto singolare, sorprendente e in definitiva capriccioso: le
fabbriche che decorano un panorama emblematico. Il piacere destato dalla
contemplazione di edifici, nobili o rustici, può essere comparato
all'emozione del viaggiatore e dell'artista di fronte al pittoresco
della natura.
Anche il capriccio rovinistico, raffigurando le tracce di una perduta
bellezza classica che nobilita il paesaggio con la sua singolarità
estetica, desta nell'amatore il piacere di un'emozione raffinata e
sottile. Vedute e capricci si inseriscono quindi ugualmente nella
memoria di una sorpresa eccitante, malinconica o suggestiva ma comunque
singolare. I generi si confondono: «In Guardi, e perfino nel minuzioso
Canaletto, non è sempre facile distinguere la veduta, il capriccio, il
paesaggio immaginario. Gli amatori per i quali lavorano domandano ora
descrizioni esatte, ora delle immagini incantatrici, anche a costo di
tradire la verità» (Starobinski). Ritornando a Carlevarijs, anche se
egli prende le mosse per un verso da Eismann e De Heusch e per l'altro
da Van Wittel, lo sdoppiamento tra il pittore delle vedute ideate e il
pittore delle vedute prese dai luoghi, tra l'estroso manipolatore di
monumenti noti e l'accurato illustratore della Venezia dei ricevimenti e
delle regate, in realtà non indica una contraddizione o una mancata
scelta a favore del barocco meraviglioso o della razionalità
settecentesca. «La Roma che appare nei suoi capricci è solo una visione
nata da un viaggio attraverso l'immaginario collettivo, dove traslare i
simboli codificati di tutta la sua storia millenaria, dall'Antico al
Bernini. Non a caso, diversamente che nelle vedute, la ricorrente
immagine del pittore contraddistingue questi capricci: appartato in un
angolo e visto di spalle, sta a indicarci che quelle sono invenzioni
dell'arte» (Reale): il capriccio, appunto, come l'arte dell'arte.
La consueta tematica della fontana, dell'arco trionfale, delle imponenti
rovine, ricorre nell'accostamento di strutture architettoniche romane e
medioevali.
Sulla via percorsa da Carlevarijs si inserisce, con esiti profondamente
innovatori, Marco Ricci e con lui entra in scena Joseph Smith – il
grande illuminato mecenate, conoscitore, collezionista – a partire dagli
anni venti quando, in significativa coincidenza con l'inizio della
reciproca frequentazione, si verifica un mutamento di registro nelle
opere di Marco, che accentua l'interesse per i capricci rovinistici dopo
aver maturato una concezione paesistica splendidamente nuova.
Sotto un cielo palpitante e mutevole si stendono paesaggi immobili con i
profili dei monti modificati da antichi paesi, mentre fiumi argentei
solcano pianure indorate dal sole meridiano. Protetti dalle rigogliose
fronde di alberi secolari dai tronchi contorti, pellegrini e cavalieri
arricchiscono con fresche macchie di colore le visioni nostalgiche di
una terra la cui bellezza è fuori del tempo. L'alternarsi delle stagioni
si condensa in luoghi senza nome, astratti ma familiari, immediatamente
riconoscibili per la pluralità del linguaggio architettonico che rimanda
alla stratificazione del territorio italiano.
Come annota Annalia Delneri, la componente psicologica dei paesaggi
ricceschi è determinante: «La natura è un rifugio, un luogo per placare
gli affanni della disordinata vita cittadina — la città è quasi sempre
vista come oggetto lontano, impalpabile presenza affidata alla labile
memoria di chi vuole dimenticare — fondata sulla mercificazione dei
valori e assillata dai mille obblighi e scadenze del commercio». Non a
caso Anton Maria Zanetti sottolineava che Marco «quasi tutti gli anni
soleva colà portarsi [nel bellunese] a rinnovare le immagini, diceva
egli, che stando in città si andavano perdendo».
«I brani presi dai luoghi diventano pittoreschi, cioè pittura,
invenzione, capriccio: l'arte assolve il compito di trasformare la
natura. Ma questa costruzione tutta mentale non ha mai il gusto
sgradevole della menzogna: nella calma atemporale dei paesaggi eroici
dominati dalla qualità del silenzio non si inseriscono personaggi
mitologici; gli eroi sono viandanti, lavandaie, boscaioli, cavalieri
senza meta, la semplice umanità di tutti i giorni. In una superba
sintesi Marco Ricci concilia il colorismo veneto e il messaggio ideale
di una natura protagonista, già scoperta da Tiziano, con l'acutezza e il
piacere per il racconto immediato, per la descrizione aneddotica
scoperta dai fiamminghi e trascritta senza nulla concedere alle rustiche
bambocciate». In tale ottica il peso che nell'arte di Marco ebbe la
lezione di Magnasco, evocante una natura barbara e tempestosa, si rivela
meno consistente di quanto solitamente si reputa, anche se sono
innegabili le affinità iconografiche riferibili soprattutto alla non
ancora sufficientemente chiarita esperienza giovanile A Ricci spetta
pure il merito di aver promosso nell'area lagunare il rinnovamento della
tradizionale decorazione scenografica prospetticamente impostata secondo
le indicazioni del gusto bibienesco carico di macchine inverosimili, di
fughe di colonne, di esuberanti barocchismi, di grovigli architettonici.
La nuova scenografia pittorica, in opposizione a quella prospettica, si
innesta sul cambiamento del rapporto tra opera rappresentata e
allestimento scenico: «Non più scenografia spettacolare, o decorazione
scenica, ma ambiente. Luogo in cui si recita, si balla, si canta. E un
lento, quasi inavvertito rinunciare al fantastico, al sorprendente, per
giungere ad un valore più contenuto della scena. Una conquista che passa
inosservata, come un dono che viene dato e preso senza la coscienza che
sia stato fatto» (Povoledo). Le ridondanze bibienesche cedono
gradualmente il passo alla ventata innovatrice della ricerca di una
scena-ambiente alla quale la pittura paesistica offre un contributo
sostanzioso, suggerendo la proposizione di scene prevalentemente risolte
in un fondale decorato con temi di paesaggi e di rovine classiche. Come
appunto doveva verificarsi negli scenari eseguiti da Marco Ricci, di cui
rimangono preziose indicazioni nel consistente gruppo di Stage designs
della Royal Library di Windsor Castle, dove l'artista propone un
repertorio di motivi che troveranno coerente sviluppo nella produzione
pittorica della maturità.
Se l'esperienza teatrale è quindi una componente essenziale dell'arte
del bellunese, la sintesi tra invenzione paesistica e creazione di
fondali scenografici si compie nei capricci rovinistici in cui culmina
l'esperienza dell'artista, nei dipinti non meno che in alcune stupende
acqueforti che ci restituiscono l'immagine di un artista quasi assillato
dal sogno monumentale. Mentre i ruderi lievitano nel silenzio di un
universo fantastico evocante la grandezza di un antico prodigiosamente
costruito, i rapporti chiaroscurali si stemperano nelle raffinatezze di
una tavolozza calda in cui spesso fioriscono delicati tocchi rosati,
lilla, violetti. Negli ultimi anni Marco moltiplica l'impegno per
rendere tangibile la qualità fisica della luce, tentando di applicare
alla pittura i principi della teoria newtoniana sulla luce e sul colore,
riuscendo alla fine a creare uno spazio che, fondato «sulla fisicità dei
corpi diversamente colorati per la ineguale incidenza della luce, è pura
rappresentazione mentale. Ed è proprio avendo in mente l'invenzione di
questo spazio pittorico che Antonio Canal svilupperà la sua ricerca
luministica» (Delneri).
L'esempio di Marco Ricci si pone come il caposaldo normativo cui
guardano tutti i migliori paesisti e vedutisti del Settecento veneziano,
da Canaletto a Visentini, da Marieschi a Zuccarelli, da Francesco Guardi
a Zais.
I pregnanti fermenti insiti nei modelli scenografici ricceschi, con i
loro solenni contrappunti chiaroscurali, suggestionarono il giovanissimo
Marieschi allorché, verso la fine del terzo decennio, entrò in contatto
con il mondo del teatro e delle macchine effimere. Come per Canaletto,
anche per Marieschi l'esperienza teatrale costituì l'humus sui
cui si innestò il passaggio alla pittura di cavalletto nella forma del
capriccio paesaggistico e rovinistico.
Mentre nelle tele di Marco le superbe rovine, levigate dai secoli, e le
figure, cristallizzate in gesti composti, sono esaltate in una
dimensione densa di risvolti intellettuali, nei capricci dell'esordiente
Michiel le rovine e le emergenti architetture sono innestate in un
contesto carico di richiami al pittoresco mondo della laguna veneziana.
Ritagli desunti dal vero si coordinano con torri medioevali, servite da
scalinate che portano verso grottesche dimore, o con umili casupole
delicatamente toccate nell'evanescente panorama di una fiaba
incantatrice.
Anche nella fase estrema dell'artista, morto giovanissimo nel 1743,
rispunta, genialmente filtrata come in un ricordo nostalgico, quella
predilezione per gli spunti ricceschi che traspare fin dagli esordi e
che egli seppe sfruttare in favore di una resa pittorica assolutamente
personale la cui modernità normativa non è stata ancora riconosciuta.
Quando il mosaico delle sue opere verrà ricomposto, spezzando finalmente
la trama delle facili attribuzioni che la inquinano, gli estrosi
capricci e le spettacolari vedute restituiranno al maestro veneziano
quella posizione di rilievo che gli compete nella storia della grande
pittura veneziana del Settecento.
Alla lezione di Marco si richiama anche Zuccarelli, che ne scoprì il
fascino attraverso la ricca collezione di Anton Maria Zanetti di
Girolamo. Ma fu partecipando alla realizzazione della Veduta della
facciata di San Francesco della Vigna e della Veduta dell'interno della
chiesa del Redentore, i due emblematici «manifesti» a più mani (Visentini-Tiepolo-Zuccarelli)
commissionati da Algarotti nel 1744 per la propria galleria, che
l'artista entrò a far parte, grazie alla presentazione del letterato,
della cerchia degli artisti protetti da Smith, l'onnipresente
collezionista allora appena nominato console inglese presso la
Serenissima. «Nel fervore del dibattito architettonico che voleva
configurare i luoghi del futuro, Zuccarelli veniva chiamato a
rappresentare lo scenario della natura ideale che doveva accogliere le
fabbriche modello: un mondo perfetto che mediava sogno e realtà nella
favola abitata da una umanità felice simboleggiata da ridenti pastorelle
e da cavalieri con magnifici cappelli piumati» (Delneri). Il caso di
Zuccarelli, amato dai più – contemporanei e moderni –, dimostra la
soggettività del giudizio che deve esprimersi sull'eccellenza relativa.
Francesco Zuccarelli non può essere facilmente liquidato quale
stucchevole travisatore della realtà ed effimero decoratore dei salotti
di vacui committenti. Haskell ci ricorda che l'artista «riuscì a
guadagnarsi [gli elogi] da parte persino di coloro che più decisamente
respingevano le concezioni dell'Arcadia; scrisse ad esempio su di lui
parole entusiastiche il Baretti, principale fustigatore dell'effeminata
cultura veneziana e amico intimo del dottor Johnson. Ma più di ogni
altro, parla di lui Giambattista Biffi, amico del Beccaria e del Verri,
con un trasporto che non espresse per nessun altro pittore: «Se lei
vedesse questo Rè dei pittori paesista, che morbidezza, che fresco, che
batter di fronda; le carte sue unicamente non bastano a farne conoscere
il preggio, quantunque belle. Quelle acque limpide veri Cristalli anche
sulla tela, le più vive, e significanti macchiette spiritosissime
imparadiscono».
Nel variegato
panorama della pittura del Settecento veneziano, il capriccio assume
tutte le sfumature, all'interno dei singoli generi, delle classi
costituite a posteriori nel tentativo di classificare, etichettare il
flusso impetuoso delle immagini di una realtà caleidoscopica che,
avvalendosi di elementi sempre uguali a se stessi, si rinnova senza posa
costringendoci sulle sabbie mobili dell'interpretazione datata in ogni
sua inflessione. (Annalia Delneri )
Agli inizi degli anni
quaranta – gli anni ruggenti per l'arte veneziana del Grand Siècle – si
accentua in Canaletto l'interesse per il capriccio in un'accezione non
più scenografica ma razionalmente architettata, mentre si moltiplicano
gli scarti tra immagine e oggettività topografica. La fedeltà della
percezione ottica alla realtà che sembrava guidare il pittore nelle
interminabili serie di vedute del decennio appena concluso, cede di
fronte al vivace interesse per la manipolazione del dato, che l'artista
continuamente scompone e ricompone quasi divertendosi a rendere
instabile ciò che sembrava fisso ed immutabile. Ed è proprio con la
sperimentazione acquafortistica che Antonio Canal sembra acquisire
maggiore consapevolezza del fascino della poetica della metamorfosi. La
stessa tecnica esecutiva, più rapida ed immediata rispetto alla stesura
pittorica, si prestava quasi naturalmente a portare avanti una
esperienza focalizzata non più sulla consueta veduta gratificante, ma
sull'ambiguità del capriccio capace di suscitare interesse e sorpresa e
stimolante inquietudine nei conoscitori e nei committenti più avvertiti.
Il panorama veneziano fissato in uno spazio certo e consolidato, la
sicurezza di una topografia irrigidita nella verità solare, avevano
lusingato l'artista al momento della svolta luminosa sul finire del
terzo decennio. Allora Giovanni Antonio sembrò tradire quasi
repentinamente l'educazione scenografica sottraendosi al fascino delle
sue strepitose opere giovanili – capricci e vedute – eseguite con
impetuosa partecipazione, allargate con grandiose forzature illusive,
rese vibranti da un'impostazione chiaroscurale drammatica, impregnata di
tonalità cupe e brunacee, da cui emergono vivacissimi spunti
macchiettistici a pennellate filamentose.
Nel suo rivoluzionario lavoro su Canaletto, André Corboz ha evidenziato
come «il modo d'impegnarsi degli oggetti nel capriccio non differisca in
nulla da quello della veduta, ché ai due tipi di immagine s'applica lo
stesso codice di configurazione e, quindi, per decidere della natura
dell'opera occorre far intervenire il codice topografico. E la
rilevazione topografica volontariamente imprecisa della veduta ne
facilita la contiguità con il capriccio. Infine, perché il capriccio
sortisca i suoi effetti è necessaria la doppia lettura, topografica e
topotetica, la seconda conservando la prima come in sovraimpressione.
Cogliendo nel segno lo studioso afferma: il dipinto sanciva il sito
rappresentato, non viceversa: «Ne risulta che i capricci meno evidenti
dovevano passare per vedute. E ne consegue anche che nel momento in cui
il proprietario d'una serie di vedute incantatrici non commissionate sul
posto, ma ottenute da qualche intermediario, sbarcava in situ con la
memoria fresca – possedendo il codice topotetico prima del topografico –
rischiava di constatare, a spese di Venezia, una differenza tra immagine
e realtà. Ma come reagiva di fronte ad un capriccio evidente come quello
di San Giorgio a Rialto? Il decodificatore percepisce simultaneamente
un'immagine arbitraria, che abbina elementi indubitabili e luoghi
incompatibili, e un'immagine verosimile, che organizza le condizioni
della loro coesistenza: formalmente niente le separa; e anche qui la
sorpresa viene dalla convinzione che ci sia una sola interpretazione
possibile della forma visiva davanti a noi: la sua concordanza letterale
col reale. Siccome il capriccio trasgredisce le regole di esclusione, la
prova si conclude con la constatazione di un disaccordo tra immagine e
topografia: il decodificatore ne induce di aver sbagliato codice [...].
A partire da ciò sono possibili due atteggiamenti: il decodificatore
insiste ad applicare la sua griglia di lettura e conclude per
l'assurdità dell'opera; oppure accetta il suo errore e cerca di
spiegarlo. Nel secondo caso il suo percorso potrà seguire due nuove vie:
se il suo pregiudizio dell'oggettività si rivela tenace, tenterà di
risolvere le inverosimiglianze pensando ad una scenografia,
interpretazione razionale rassicurante che, in effetti, rifiuta il
capriccio riconducendolo ad un conosciuto diverso dalla topografia. E la
strada scelta da quasi tutta la critica. Se invece il decodificatore ha
una nozione meno positivista della realtà, acquisita ad esempio a
contatto della psicologia del profondo o dei surrealisti, sarà capace di
cogliere il capriccio come tale e di comprendere che la reminiscenza
dell'oggetto nominato si bagna in una nuova atmosfera, quella del sogno
ad occhi aperti in cui la città cessa di essere un dato per aprirsi al
campo del possibile». La Venezia che fabbricar potrebbesi.
La bomba lanciata da Corboz ha gettato scompiglio nelle file dei
sostenitori della pretesa oggettività canalettiana: il recupero critico
e poetico dell'arte del capriccio — un genere trascurato o trattato con
sufficienza — è una delle onde lunghe provocate dall'esaltazione del
fascino dell'ambiguo e dell'equivoco.
Da Canaletto a Visentini. Il trait d'union fra i due artisti è
ancora Joseph Smith, il patron di Antonio Canal che strinse un rapporto
privilegiato, protrattosi per quasi mezzo secolo, anche con Antonio
Visentini di cui intuì le doti di disegnatore e incisore finissimo.
L'approccio di Visentini al capriccio, anche se condizionato dalla
lezione riccesca, è radicalmente diverso da quello di Marco. Per lui la
rovina non è sinonimo della magnificenza dei romani perché la
suggestione dell'antico gli deriva direttamente dalla civiltà delle
ville venete e dal classicismo palladiano, mentre gli spazi chiusi delle
sue strutture architettoniche sono la negazione del respiro della
campagna laziale come terreno della storia. Con il crescere della
partecipazione all'attività del circolo smithiano, il linguaggio di
Visentini si definisce in un attivo coinvolgimento nello stimolante
dibattito sull'applicazione alla pittura delle rivoluzionarie teorie
newtoniane sulla luce e sui colori che doveva trovare in Canaletto il
felice artefice di una soluzione poetica della coniugazione tra teoria e
pratica. Il ruolo di Smith, quale fervido sostenitore e divulgatore del
pensiero newtoniano, e il lavoro di équipe che si svolgeva sotto la sua
mediazione culturale, furono determinanti per gli orientamenti di
Canaletto e di Visentini. Corboz ha messo a fuoco il nesso tra idee
newtoniane e pittura canalettiana intorno al 1730 in maniera
estremamente suggestiva: «La totale trasparenza dell'aria rende il vuoto
newtoniano, in cui gli edifici sono immersi come altrettanti blocchi
netti, privi di interferenze reciproche e, nello stesso tempo, indenni
da contaminazioni con l'aria ambiente. Questi volumi non sembrano sul
punto di mutarsi in fumo, come in Guardi: raccolti, coerenti,
obbediscono ad un ideale cristallino tradotto alla perfezione dalle
tavole di Visentini, i cui mezzi strettamente grafici accentuano ancor
più l'opposizione vuoto-materia con la soppressione del colore. Quanto
lontano arriva lo sguardo, il dettaglio si offre nella sua legittimità:
uniformità della rappresentazione, quale che sia la distanza
dell'osservatore». La totale adesione di Visentini alla poetica di
Canaletto non si rispecchia solo nella limpidezza cristallina della
splendida traduzione acquafortistica – incompresa dalla quasi totalità
dei critici che la tacciano di lavoro «surgelato» – ma incide nel segno
pittorico: «Nel quarto decennio l'artista crea infatti una serie di
capricci architettonici che rappresentano lo sviluppo consequenziale
delle aspirazioni e degli intenti già enucleati nelle prime
sperimentazioni. Tali composizioni si strutturano sempre più
lucidamente, e il repertorio delle forme prescelte, che sempre
costruiscono e rimandano ad emblematici luoghi chiusi, vivi,
contraddittori, acquista nuova e icastica forza per l'assimilazione e la
personalissima interpretazione della resa segnica, spaziale e
volumetrica di Canaletto. Il noto ciclo dei quadroni da portego del
Palazzo Contarini Fasan, eseguito entro i primi anni quaranta,
esemplifica e conferma la nuova sensibilità di Visentini» (Delneri).
La civiltà delle ville venete e il classicismo di Palladio si
strutturano in un universo familiare, dove il confronto della vita
civilizzata viene gustato in mezzo alla campagna progettata e costruita:
in questa ottica il ciclo Contarini si pone come unicum tra i capricci
architettonici, paesistici e rovinistici del Settecento veneziano. Con
l'arrivo a Venezia, nel 1743, di Franceso Algarotti, l'intreccio dei
rapporti con Smith, Canaletto, Visentini, Zuccarelli e anche Tiepolo
senior registra un incalzante susseguirsi di coinvolgimenti operativi.
Animata dai comuni interessi e dalle discussioni sulle teorie
architettoniche neopalladiane, la relazione Smith-Algarotti si
intensifica in una esaltante gara: il collezionista inglese è ammaliato
dalle teorie artistiche del brillante letterato e dalla proposta di «un
nuovo genere [...] di pittura, il qual consiste a pigliare un sito dal
vero, e ornarlo dipoi con belli edifizij [...]. In tal modo si viene a
riunire la natura e l'arte, e si può fare un raro innesto di quanto ha
l'una di più studiato su quello che l'altra presenta di più semplice».
Affascinato da quel suggerimento, Smith affida a Canaletto per la prima
volta l'incarico di eseguire tredici sovrapporte illustrate con
monumenti veneziani emergenti. Queste tele singolari «non dipanano
chimeriche e capricciose fantasie, ma designano, punto per punto
adombrandone la stupefacente compagine, Venezia quale fabbricar
potrebbesi: tuttavia la tensione progettuale, che le anima e le impronta
(e che, senza dubbio, s'innesta nella grande speranza innovatrice – s'è
adombrato – dell'ideologia massonica) splende nella pura carica
utopistica delle proposte» (Puppi).
Quasi contemporaneamente Francesco Algarotti commissiona un eccezionale
pendant a Visentini, Tiepolo e Zuccarelli. Le tele a più mani, in
cui il ruolo principale è svolto da Visentini, raffigurano – come si è
già detto – la facciata di San Francesco della Vigna e l'interno del
Redentore. Questa coppia di capricci di simulazione, carica di risvolti
intellettuali e di reminiscenze culturali, rappresenta, anche per i
personaggi che vi sono raffigurati (Visentini, Smith, Algarotti e forse
Tiepolo) la sintesi più significativa della cultura e dell'arte
veneziana nel Settecento illuminato.
Mentre Canaletto realizza per Algarotti la Veduta di Rialto con il ponte
secondo il progetto di Palladio, in cui per la prima volta le sue teorie
si realizzano compiutamente («il primo quadro che feci lavorare in tal
gusto»), Smith programma nel 1745 la continuazione del ciclo di
sovrapporte con un secondo gruppo di capricci dedicati agli edifici
della moderna Inghilterra, rispecchianti la semplicità e la magnificenza
dell'architettura degli antichi riportata in vita da Palladio.
L'esecuzione è affidata a Visentini-Zuccarelli che inseriscono entro
romantici paesaggi le architetture di Inigo Jones, di Lord Burlington,
di Colen Campbell, di Roger Morris, quasi letteralmente inverando gli
ideali algarottiani di «raro innesto» di natura ed arte per un nuovo
armonico equilibrio (1746).
Agli occhi di Smith e di Algarotti' le perfette architetture palladiane
sono i codici di uno stile figurativo e di uno spazio urbano
avveniristico aderente ai piani di razionalizzazione della società
elaborati dalle avanguardie dell'aristocrazia liberale. Le soluzioni
architettoniche che Burlington propone con il suo austero
neopalladianesimo diventano il simbolo della nuova ideologia, fondata
sui principi naturali della semplicità e della regolarità, in
contrapposizione con il barocco, considerato come stile del dispotismo
irrazionale.
L'originalità che il capriccio – grazie anche alle commissioni mirate –
assume a Venezia rispetto alle proposte che si andavano sviluppando
altrove non ha bisogno di sottolineature. Si veda, per esempio, come in
Panini prevalga l'effetto curioso, documentario, «museale»: il
monumento, anche se sospinto verso il primo piano, non è il soggetto
principale ma solo uno degli ingredienti di un abilissimo artificio.
Aperto ad uomini di cultura di estrazioni sociali diverse, Smith
annovera amici intellettuali del livello dei due Zanetti, di Giovanni
Poleni, Antonio Conti, Apostolo Zeno, Scipione Maffei, Voltaire, Tommaso
Temanza, Ludovico Antonio Muratori, Anton Francesco Gori, Carlo Lodoli e
Andrea Memmo, il quale frequenta l'eccezionale sezione architettonica
della famosa biblioteca del console «coll'assistenza del Signor Antonio
Visentini».
Verso la fine degli anni quaranta si verifica un mutamento di registro
nelle serie di capricci che Visentini e Zuccarelli creano ancora su
sollecitazione di Smith. I quattro magnifici dipinti già nella
collezione Rocchetti di Roma e la coppia già nella collezione Modiano di
Bologna portano al diapason la felicità del concorso tra i due artisti.
Se in essi il paesaggio zuccarelliano prevale, sono però proprio le
fabbriche di Visentini a connotarli: non si coglie in pieno la loro
originalità e qualità se non si presta attenzione al significato che
assumono nel programma del console inglese. L'aspetto ideologico
progettuale costituisce infatti la vera intelaiatura delle
rappresentazioni, la cui chiave di lettura va cercata nella
sperimentazione degli effetti ottenibili traslando edifici «perfetti» in
paesaggi ideali, per dar forma ad un rinnovato connubio tra arte e
natura. La serie di sei dipinti – impensabile senza la mediazione
culturale di Smith – si pone in logica sequenza con le precedenti
collezioni di architetture ideali: a partire dagli esperimenti
canalettiani del 1743-44 con monumenti veneziani, attraverso
l'escursione del 1746 nell'Inghilterra moderna, si approda alla sintesi
che impone il ritorno a Venezia e nel Veneto con le immagini
fantasticamente reali di decantate architetture cittadine che
qualificano una natura evocante i giardini paesistici inglesi.
Identificate quasi certamente con una serie di tele che si trovavano
appese nella camera da letto di Smith – come risulta dall'inventario del
1770 che si pubblica in appendice integralmente per la prima volta –
quelle immagini rappresentavano per l'illuminato collezionista, sia pure
sotto veste di finzione pittorica, gli ideali di tutta una vita.
Il manifesto di questa utopia tenacemente perseguita può essere
confrontato solo con le realizzazioni inglesi del ristretto gruppo di
Burlington, che in nome dell'ideale libertario aveva conciliato il
classicismo architettonico con il gusto per il giardino moderatamente
selvatico. L'apparente contraddizione si sanava in quanto
«l'architettura classica e il giardino paesistico risultano essere due
aspetti tra loro collegati di un rinascimento artistico che era il
prodotto e insieme l'espressione del benessere di una società libera» (Wittkower).
A partire dalla metà degli anni cinquanta gli interessi di Smith si
rivolgono prevalentemente alla promozione e diffusione, anche con
l'assunzione di onerose iniziative editoriali, delle teorie
architettoniche neopalladiane. E ormai ultranovantenne quando fa
pubblicare la ristampa dei Quattro Libri di Palladio (1768) ed è morto
da un paio di giorni quando nel suo palazzo vengono consegnate
Cinquecento novantaquattro copie delle osservaz.i sopra gli errori
degl'architetti (ossia il nostro trattato scritto da Visentini, polemico
fino all'acribia) le cui carte sono ancora fresche dell'inchiostro dei
torchi della stamperia diretta dall'amico Giambattista Pasquali.
Il significato di questa ultima consegna non è trascurabile perché
conferma, una volta di più, il clima di tensione ideale di un'avventura
esistenziale in cui tutto il tempo libero fu dedicato – come lui stesso
scrisse – «al piacere di ammirare le belle arti e di possedere notevoli
collezioni di cose che ad esse si riferiscono». Ancora dotato di una
impressionante lucidità, Smith si congeda consegnando ai posteri
l'estremo pegno della sua lunghissima affettuosa solidarietà con
Visentini, l'artista al quale, assieme al grandissimo Canaletto, il nome
del console resterà legato per sempre.
Anche altri artisti veneziani, tutt'altro che di secondo piano, furono
coinvolti nelle operazioni culturali e mercantili di Smith, come si
ipotizza, proponendo per la prima volta specifici esempi, in occasione
di questa rassegna in relazione a Bernardo Bellotto ed a Giuseppe Zais.
Giustamente Puppi osserva che il gruppo dei quattro Capricci romani di
Bellotto, oggi alla Galleria Nazionale di Parma, non presuppone un'unica
committenza, come conferma – a mio parere – l'elemento esterno della
diversità dei formati che consiglia la suddivisione in due coppie
distinte.
L'analisi delle macchiette ribadisce l'ipotesi. Nel Capriccio con porta
romana, esposto in mostra, e nel relativo pendant orizzontale la
collaborazione di Zuccarelli nella stesura delle spumeggianti ma
dolcificate figure, desunte dal consueto repertorio di lavandaie, di
mendicanti, di pescatori, cavalieri col cappello piumato, sembra
incontestabile.
Diversa è la situazione del pendant verticale completamente addebitabile
a Bellotto (in ciò concordo con Kozakiewicz e Puppi) che qui ha tentato
di imitare alcuni emblematici prototipi zuccarelliani (il cavaliere, il
mendicante, le donne alla fontana, il cane scattante). Peraltro
l'atteggiarsi meno spigliato, un po' bloccato, e certe durezze
espressive quasi realistiche denunciano l'autografia bellottiana delle
macchiette che sono mescolate con altre di univoca cifra canalettiana
(non visibili invece nel pendant orizzontale), come la coppia elegante
sulla scalinata del Campidoglio o i due «granturisti» nei pressi del
Colosseo.
La distinzione non è senza conseguenze, perché induce a riportare la
coppia di collaborazione — ancorabile al 1743 — nell ' ambito delle
sollecitazioni provenienti dal circolo smithiano nel momento di più
assidua frequentazione da parte di Algarotti. Anzi proprio a quest'ultimo,
con maggiore probabilità, potrebbero farsi risalire — in adesione alle
sue teorie già sopra accennate — se non proprio la committenza, magari
nei limiti di una intermediazione, l'idea direttiva e l'imposizione
della collaborazione con Zuccarelli che risulta — significativamente —
un caso unico nella produzione bellottiana. In seguito la posizione di
Bellotto assumerà una valenza antitetica rispetto al sogno progettuale
di Canaletto governato dalla lezione palladiana. Come scrive Puppi
analizzando un 'opera chiave, la Veduta con le rovine della Kreuzkirche
di Dresda (1765 circa), Bellotto «oppone, al cospetto della catastrofe
esistenziale sofferta, senz'appoggio e suggerimento di un sacerdote di
sofisticati orizzonti programmatici, all'utopia progettuale del
Canaletto, additata dall'Algarotti e dallo Smith, la dissacrante e
irridente negazione del progetto [...]. La città irrimediabilmente
rovinata, lungo sogno infranto, è sostituibile solo da acrobatici e
funambolici incastri architettonici capaci di reggere solo nella
finzione irridente di un quadro». I rapporti tra Smith e Giuseppe Zais
vengono affrontati alla luce di un bellissimo inedito pendant,
presente in mostra, che l'artista eseguì quasi certamente su commissione
del famoso patron: la Veduta di Baalbeck e la Veduta di Atene.
La coppia costituisce forse l'estrema espressione pittorica delle idee
del salotto smithiano: quasi punto di arrivo di una lunga
sperimentazione programmatica ideale, le due vedute esaltano la purezza
dell'architettura greca. Ma la conseguita consapevolezza — attraverso la
riscoperta delle rovine di Palmira e di Baalbeck — che la luminosa
austerità dei monumenti di Atene può accompagnarsi alla ricchezza
decorativa profusa nei marmi testé posti in luce, sembra aprire la via
per nuovi esaltanti sviluppi progettuali: se avesse potuto vedere le
testimonianze di Palmira e di Baalbeck, anche Palladio ne sarebbe
rimasto conquistato. Per esprimere pittoricamente questa presunzione,
che sembra addirittura scavalcare l'idolo di tutta la sua vita, Smith si
servì del pennello di Zais, come in precedenza si era affidato alle
magistrali interpretazioni di Canaletto e a quelle emblematicamente
perfette di Visentini e Zuccarelli.
(Dario Succi)
GLI ARTISTI
Francesco Albotto (Venezia?
1721 – Venezia1757)
Francesco Albotto,
Veduta del ponte di Rialto. Napoli, Galleria Nazionale di
Capodimonte
Francesco Albotto nacque a Venezia, o come postulato da recenti ricerche
nelle parrocchie veneziane, a San Marcuola - il 5 maggio 1721 -
(Montecuccoli
degli Erri
1999).
Francesco inizia il suo alunnato con Michele Marieschi poco prima del
1937, ereditandone la clientela e l'atelier alla morte del maestro,
avvenuta il 13 gennaio 1743. Francesco Albotto continua a dipingere
imitando i modelli e lo stile compositivo del Marieschi, e copiando
attraverso le stampe, il Canaletto.
Dipinse anche capricci, paesaggi
d'invenzione con architetture, scorci di vita paesana, riprendendo il Marieschi, ma
impoverendone le qualità descrittive
e atmosferiche. Il 29 ottobre 1744, a un anno dalla morte del suo maestro, ne sposò la
vedova Angela Fontana. Non fu però questo un matrimonio fortunato. Il 29 novembre 1751 nacque Pietro Andrea Maria, che morì una decina di giorni dopo, mentre il 31 dicembre dello stesso
anno si spense anche la madre. Poco
dopo l’artista si risposò con
Giovanna Protesana, nominandola
erede di tutti i suoi beni (Manzelli 1984). Iscritto alla
Fraglia
dei pittori veneziani dal 1750 al 1756 (Favaro 1975), Albotto “da febre
et congestioni di fegato”, morì a Venezia, non ancora quarantenne, il 13
gennaio 1757 (Manzelli 1984).
“Spetta a Rodolfo
Pallucchini [1960] il grande merito di avere per primo sollevato
l’inquietante problema di Francesco Albotto, un oscuro discepolo di
Marieschi, riportando il passo dell’Abecedario di Pierre Jean Mariette
(ante 1774, ed. 1851-1860) che costituisce l’unica antica testimonianza
in proposito. [...] «Il a eu un disciple qui, comme son maître, peint
des veuës de Venise et des paysages ornés d’architectures qui ne sont
pas mal touchés. Il se fit nommer il secondo Marieschi, et il en a
épouse la veuve. Ce disciple est mort lui-même en 1758 le 13 janvier [in
verità 1757, Mariette ritiene la data more veneto anziché Anno Domini].
Son véritable nom étoit François Albotto. Il n’étoit âgé que de
trente-cinque ans». La figura di questo discepolo rimase avvolta nella
nebbia più completa fino a che a New York, nella vendita del 17-18
maggio 1972, passò all’asta da Sotheby Parke-Bernet (n. 137) una veduta
con il Palazzo Ducale visto da mare recante sul verso della tela
l’iscrizione Francesco Albotto F. in Cale di ca Loredan S. Luca [...].
Segnalando quell’importante ritrovamento, Pallucchini (1972) osservava
che «il dipinto, indubbiamente di buon livello, finalmente documenta il
modo di dipingere di Francesco Albotto, evidentemente stretto seguace di
Michele Marieschi [...]. È evidente che tale veduta può diventare
l’opera-pilota per la ricostruzione dell’attività dell’Albotto,
naturalmente ai danni (o a vantaggio) di quella del Marieschi»” (Succi
1989).
Successivamente, il confronto tra la pittura del maestro e quella
dell’allievo, spinse lo stesso Pallucchini (1995) ad annotare: “Quel che
subito salta all’occhio è il modo diverso di concepire la macchietta. A
quelle corpose, di impasto pittorico frazionato (alla Guardi, per dirla
con Morassi) del Marieschi, l’Albotto contrappone macchiette calme,
spente, del tutto prive dell’impronta pittoresca del maestro. [...]
Questo Albotto è un modesto pittore che ha continuato la produzione
vedutistica del Marieschi con modi sempre più poveri, non mancando di
tenere sott’occhio, magari nella traduzione incisoria del Visentini,
gli impianti vedutistici del Canaletto. Evidentemente la richiesta di
mercato delle vedute era molto forte: d’altra parte, dopo la morte del
Marieschi, si rendeva necessario che un seguace ne continuasse la
tradizione, tenuto conto che nel 1746 il Canaletto, la cui produzione
era impegnata soprattutto per il console Smith, partiva per Londra. Si
comprende allora la fortuna che in tale campo poté avere un pittore così
mediocre come l’Albotto. Per dirla all’antica, alla poesia del Marieschi
succedeva la misera prosa del suo scolaro” (Pallucchini 1995).
“Al contrario di Marieschi, che era dotato di una fantasia prorompente e
– nella fase estrema – di una pennellata rapida e disinvolta, il seguace
non riuscì quasi mai a fare a meno di appropiarsi di modelli creati da
altri, adattandosi anche ad utilizzare le stampe dell’album Urbis Venetiarum Prospectus celebriores [...], incise da Visentini dai
prototipi canalettiani posseduti da Joseph Smith e pubblicate
dall’editore Pasquali nel 1742 nella forma definitiva. [...] Dal punto
di vista della tecnica, Albotto – con il passare degli anni – tese ad
allontanarsi dal fare «impulsivo» di Michele per accostarsi alla maniera
netta e traslucida di Canaletto: sospeso tra i due maestri, Francesco
Albotto non riuscì a superare i limiti di una sconcertante abilità
imitativa e solo raramente sviluppò temi di sua invenzione (ciò avvenne
quasi esclusivamente nell’ambito dei capricci). Il distacco si estese
alla tavolozza cromatica che, calda e brillante nelle pitture di
Marieschi, divenne alquanto fredda ed acidula nelle tele del seguace,
portato a preferire le tonalità azzurrine e verdognole” (Succi 1989).
Daniele D'Anza (2005)
Con il passare degli
anni Albotto tese ad allontanarsi dalla maniera brillante e impulsiva
del suo maestro Michele Marieschi (1710-1743), per accostarsi a quella
netta e controllata del Canaletto, adottando una tavolozza cromatica
piuttosto fredda e acidula basata su tonalità tendenzialmente azzurrine
e verdognole. Per una serie di circostanze favorevoli, questo artista si
trovò a operare a Venezia per circa un decennio, dal 1746 al 1756,
praticamente senza importanti rivali nel genere del vedutismo. Infatti,
morto Marieschi nel 1743, il Canaletto si trasferì a Londra nel 1746
dove rimase fino al 1756 mentre solo dopo la metà del sesto decennio
Francesco Guardi diede inizio alla sua attività vedutistica.
Dario Succi
_______
Francesco
Battaglioli (Modena?, 1718 ca. - Venezia, 1797 ca.)
Francesco Battaglioli,
Piazza S. Marco durante il combattimento dei tori.
Le prime notizie su
Francesco Battaglioli rimangono incerte, dato sicuro, l'iscrizione negli
elenchi della fraglia dei pittori veneziani dal 1747 al 1751, che ci
consente di anticiparne la nascita, tradizionalmente fissata verso il
1750, in via presuntiva intorno al 1717-18, probabilmente a Modena.
Battaglioli, succedette nel 1778 ad Antonio Visentini quale professore
di prospettiva architettonica all'Accademia di Venezia e si dimise da
tale incarico nel 1789 quando era ultrasettantenne (Ivanoff 1959, p.
162), sembra inoltre che nel 1796 l'artista fosse ancora vivo. Al 1747
risalgono anche le prime notizie relative alla sua attività di
scenografo teatrale: in quell'anno infatti egli allestì le scene per
Arminio di Galluppi nel teatro di S. Cassiano, mentre l'anno
successivo lavorò nell'Adriano in Siria di Ciampi e nella
Clemenza di Tito di Pampani. Tra gli studiosi che si sono occupati
di lui, vanno ricordati Fogolari (1913), Voss (1926), Ivanoff (1954 e
1959), Pallucchini (1960 e 1985), Martini (1982). Urrea Fernàndez (1977)
ha documentato la presenza di Battaglioli in Spagna dal 1754 al 1760.
Nel settembre 1756, egli dipinse, in occasione del compleanno di
Ferdinando VI, le decorazioni per la Nitteti di Metastasio, nello
stesso anno, o in quello successivo, eseguì il pendant raffigurante la
Festa in un palazzo barocco e la Festa sotto un arco trionfale
custoditi presso l'Accademia di San Fernando a Madrid e resi noti da
Pérez Sanchez (1964, p. 42). Urrea Fernàndez (1977, pp. 90-91) ha
ricollegato le tele a due scene dell'opera Nitteti, permettendo
così di datarle con precisione. Al 1756 risalgono pure le due tele,
firmate e datate, citate da Fiocco (1929, p. 63) dipinte per il famoso
cantante Carlo Broschi detto Farinelli. Spetta a Pallucchini (1985, p.
175) il merito di aver precisato che la serie di dodici vedute di
Brescia, incise da Francesco Zucchi (1692-1764) su modelli di
Battaglioli, venne pubblicata nel 1751, come risulta dal relativo
frontespizio contenente la dedica al cardinale Angelo Maria Querini,
vescovo di Brescia. E' così possibile collocare ante 1751 alcuni dipinti
documentati da quelle stampe, come la Veduta della piazza della
Loggia (collezione privata, Madrid), pubblicata da Urrea Fernàndez
(1977, tav. VIII) e la Veduta della Piazza del duomo (collezione
privata, Spoleto) resa nota da Pallucchini (1985, p. 177), che vi
scorgeva una conferma dell'adesione alla scuola di Canaletto. Anche se
in queste vedute è già evidente la propensione all'allargamento del
campo visivo, una certa rigidità dell'impianto prospettico, a diagonali
convergenti verso un unico fuoco, attesta la precocità delle opere, i
cui inserti macchiettistici appaiono bloccati nei consueti atteggiamenti
di maniera.
Dopo questo accenno alla fase giovanile, rimane da considerare la piena
maturità dell'artista, che copre l'intero settimo decennio e
probabilmente anche l'ottavo, prima dell'involuzione finale.
Al ritorno dalla Spagna (1760) l'artista si avviò verso l'apice delle
sue possibilità espressive e tecniche. Tutto porta a ritenere che
Battaglioli, in questo periodo, si sia dedicato a dipingere soprattutto
capricci architettonici, sfoggiando una consumata abilità nel manovrare
logge, porticati, archi trionfali, giardini, rovine, elementi
paesaggistici, senza riuscire quasi mai a liberarsi da una maniera
ridondante e freddamente decorativa.
Lo stile del pittore negli anni sessanta è documentato da un inedito
Capriccio con architetture classiche (collezione privata, Londra)
particolarmente importante perché, oltre ad essere firmato
Battaglioli là finitto, reca la data 1764. Il ritrovamento è
prezioso in quanto consente di riunire attorno a questa tela (103 X 125
cm.), che dimostra la maturazione della tecnica dell'assemblaggio
architettonico-paesaggistico in soluzioni di facile effetto
illusionistico, tutta una serie di opere talmente controverse – per
datazione e paternità – da essere state perfino ritenute come
appartenenti alla fase giovanile di Antonio Canal.
Pallucchini (1973, p. 174), rendendo nota una Veduta ideata di
collezione privata trevigiana, la attribuì agli esordi di Canaletto
osservando che «la struttura cromatica del dipinto, su di un impianto
prospettico articolato con tanto ardimento, tocca momenti
particolarmente raffinati, soprattutto nei valori in ombra di quelle
case alla veneta, una delle quali con altalena, mentre in primo piano la
doppia colonna e il rudere classico hanno la stessa sottile
discriminazione materica del Capriccio [di Canaletto], pendant di quell'altro
datato 1723» (il riferimento è a un grande capriccio architettonico
canalettiano, di collezione privata svizzera. Non c'è alcun dubbio che
la predetta Veduta ideata debba essere restituita a Battaglioli e
collocata verso la metà degli anni sessanta, come inoppugnabilmente
dimostra il confronto con la tela datata 1764, dove si snodano
architetture similari dai contorni nettissimi e dalle superfici
variegate, con tutto quel ridondante apparato di scalinate, di
colonnati, di ponti, di cupole con la lanterna sovrastata da un
parafulmine a bandierina. Le macchiette, sicuramente autografe, sono
affini a quelle inserite nelle vedute e nei capricci spagnoli del 1756.
Un altro controverso capriccio architettonico (Pinacoteca Tosio
Martinengo, Brescia), attribuito comunemente ad Antonio Visentini, è
ancora un'opera tipica di Battaglioli (come rivela soprattutto la
sfilata di edifici sulla destra, costruita secondo i consueti moduli),
mentre le aggraziate figurine (non autografe) spettano ad un artista
diverso da Diziani e Zugno, molto probabilmente Francesco Fontebasso.
Intitolato convenzionalmente Veduta di una città, il quadro in realtà
richiama allegoricamente le arti della pittura, scultura, architettura,
come evidenzia l'attività dei gruppi di macchiette collocate nella parte
sinistra della tela. Le caratteristiche compositive, tendenti ad un
alleggerimento dell'apparato scenografico qui sovrastato da un ampio
cielo, e la singolarità della collaborazione con il tiepolesco
Fontebasso (morto nel 1769) inducono a collocare questa veduta
allegorica in epoca posteriore al pendant di palazzo Labia e
anteriore alla serie di interventi di Francesco Zugno. La fase estrema
dell'attività di Battaglioli è scarsamente documentata. Una incisione di
Teodoro Viero raffigurante la laguna ghiacciata durante l'inverno
1788-1789, derivata da un dipinto di Battaglioli, dimostra che in quell'epoca
l'artista non disdegnava di eseguire vedute di commemorative in tono
minore. È peraltro ben probabile che, nell'ultimo periodo, l'attività si
svolgesse ad un diapason inferiore, in linea con il generale decadimento
della civiltà artistica veneziana allo scadere del secolo.
Il giovanile impegno
scenografico influenzò la pittura di Battaglioli, che amava mettere
insieme grandiose architetture classicheggianti in un contorno di vaghi
paesaggi boscosi collinari o montani - che connotano la maggior parte
delle opere del pittore e che evidenziano, il confuso eclettismo
formativo (la scenografia emiliana, Visentini, Marieschi), la tecnica
lenticolare ed il gusto per l'amplificazione spettacolare del taglio
prospettico, non insensibile alla lezione canalettiana, nella resa
atmosferica.
Nella sua opera, le
numerosissime macchiette, povere e impacciate, costituiscono l'aspetto
più debole, e dovevano suscitare le riserve dei conoscitori e dei
committenti, giustificando la collaborazione di più dotati artisti cui
Battaglioli ricorrerà con frequenza per ovviare all'inconveniente. È
probabile che ciò sia avvenuto, con maggior ricorrenza, subito dopo il
rientro dalla Spagna, come potrebbero dimostrare i due grandi capricci
architettonici di palazzo Labia, dove campeggiano le grandiose strutture
classicheggianti ai cui piedi si svolge un vivacissimo gioco
macchiettistico. Gli studiosi che si sono occupati di questo pendant
variamente attribuito sono stati concordi nell'indicare in Gaspare
Diziani l'autore delle figure, come risulta anche dimostrato dal
confronto con alcuni bellissimi disegni di Diziani per costumi di
bissona, collocati da Dorigato (1981, nn. 421-422) «nell'ultimo periodo
dell'artista». Oltretutto la collaborazione tra Battaglioli e Gaspare
Diziani è provata dai due grandi capricci di palazzo Labia (Succi 1988,
p. 265). Lo sembra confermare la stesura magra della materia pittorica,
tipica di quell'artista e ben diversa dai grumi materici cari a
Marieschi. Un altro grande Capriccio architettonico di Battaglioli, che
pur nella assoluta diversità del soggetto, rivela una notevole affinità
per quell'eccesso di abilità nel manovrare logge, porticati, archi
trionfali: il trascolorare maculato della facciata del grandioso palazzo
dimostra che l'autore seppe tener presente anche l'insegnamento di
Michiele Marieschi.
Nel pendant
raffigurante la Festa in un palazzo barocco e la Festa
sotto un arco trionfale custoditi presso l'Accademia di San
Fernando a Madrid e resi noti da Pérez Sanchez (1964, p. 42), la
coppia testimonia il virtuosismo scenografico di Battaglioli e
l'esuberanza delle sue fantasie decorative, ma anche la goffaggine
delle legnose macchiette, opere che risultano di fondamentale
importanza per la ricostruzione dell'itinerario artistico di
Battaglioli e delle caratteristiche dello stile durante il periodo
spagnolo.
Pare quindi
confermata l'annotazione, sul nostro pittore, di Moschini (1806, III, p.
78): «Celebre operatore di Vedute è stato anche Francesco Battajoli,
esattissimo ne' suoi dipinti, che copiava i siti, quali gli vedeva, e
che solo peccò nell'esser languido nel tuono delle tinte».
Dopo la morte di Gaspare Diziani (1767), Battaglioli dovette rivolgersi
ad un altro collaboratore, e lo trovò in Francesco Zugno, il raffinato
seguace di Giambattista Tiepolo. Fu Voss per primo (1926, pp. 37-40) a
ipotizzare la collaborazione tra i due artisti in alcuni dipinti di cui
i più noti sono i due provenienti dalla collezione Achillito Chiesa di
Milano, che furono esposti a Firenze nel 1922 (cat. nn. 165-166) con
l'attribuzione a Canaletto. Gli eleganti inserti macchiettistici di
Zugno allietano questi due capricci tra i migliori di Battaglioli per il
felice equilibrio tra le fantasiose architetture e le evanescenti
citazioni paesaggistiche sullo sfondo.
La collaborazione fra
Battaglioli e Zugno risulta documentata dal Catalogo dei quadri raccolti
dal sig Signor Maffeo Pinelli (1785, p. 7), dove si cita un capriccio di
Battaglioli: «Architettura bellissima colle figure di Francesco Zugno e
con un giardino indietro».
Alla stessa fase di
felice collaborazione, presumibilmente databile tra la fine degli anni
sessanta e la metà del decennio successivo, appartengono altri notevoli
capricci, tra cui quello includente, in lontananza, il ponte di Rialto
secondo il progetto palladiano, facente parte di una serie già nel
palazzo Giovanelli, a Venezia (cfr. Martini 1982).
In una veduta con
architetture e cavalieri pubblicata da Martini (1964), già in
collezione privata veneziana, le macchiette, secondo l'indicazione dello
studioso, spettano a Francesco Simonini. Poiché il famoso battaglista
morì a Venezia nel 1753, la tela è databile agli inizi degli anni
cinquanta, come conferma l'affinità stilistica con le vedute di Brescia.
Si potrebbe forse
collocare nella seconda metà degli anni ottanta un dipinto pubblicato da
Martini (1964) come opera di collaborazione con Francesco Zugno, mentre
la mediocrità esecutiva delle macchiette dimostra piuttosto che
Battaglioli cercò di imitare i raffinati modelli di Zugno, morto nel
1787. In conclusione, la figura di Francesco Battaglioli presenta ormai
contorni abbastanza netti, mentre la linea dell'evoluzione stilistica
sembra ricostruibile con sufficiente approssimazione: il che consente di
porlo su un gradino un po' più alto del consueto, seppur egli riuscì
solo raramente a stemperare il confuso eclettismo delle fonti della sua
arte (la scenografia emiliana, Canaletto, Visentini, Marieschi) per
ricomporlo in una sintesi originale e armoniosa.
Dario Succi
_______
Pietro Bellotti (Venezia?,
1725 ca. - Francia?, 1800 ca.)
Pietro Bellotti, Il molo verso la Libreria e la Salute. Collezione privata
Fratello di Bernardo
e nipote di Antonio Canal, Pietro Bellotti (anche Bellotto) nacque a Venezia in data
imprecisata, probabilmente intorno al 1725. Dopo un
apprendistato nella città lagunare presso il fratello Bernardo, durato
fino all'inizio degli anni quaranta, per ragioni sconosciute
Pietro Bellotto si trasferì a Tolosa dove il 25 marzo 1749 si unì in
matrimonio con Françoise Lacombe, dalla quale aveva avuto una figlia,
Barbe, battezzata alla vigilia delle nozze (Mesuret 1952, p. 170). Dal
matrimonio nacquero altri due figli di cui uno, dal nome sconosciuto, fu
pittore di anatomia e ritrattista. Negli anni 1755, 1760, 1765, 1774 e
1790 i dipinti di Bellotti (il cognome venne francesizzato anche in
Beloty) furono esposti al Salon
dell'Académie Royale de Peinture, Sculpture et Architecture di
Tolosa. Il più importante Salon fu quello del 1765 nel quale
vennero presentati, sotto il n. 35 del catalogo, «Vingt petits Tableaux,
par Belloti, peintre, qui sont de Vues
en perspective». Di questo
nutrito gruppo di vedute ben diciassette tele, tutte misuranti 37x48 cm,
sono state individuate da Robert Mesuret nel castello di Merville,
presso Tolosa, nella collezione del marchese di Beaumont.
Le vedute, finora pubblicate solo in piccola
parte, raffigurano varie città europee, tra cui Venezia, Firenze, Roma,
Milano Genova, Malta, Marsiglia, Versailles, L'Aia, e sembrano quasi
tutte derivate da stampe (de Sandt, 2001, pp. 100-102). Altri dipinti
della stessa serie mostrano l'interno di una chiesa, un lago, un porto
di mare al tramonto con edifici d'invenzione capricciosa (Mesuret 1952,
p. 172).
Tra le vedute di Venezia esposte al
Salon del
1765, quella raffigurante Il molo con la Piazzetta e il palazzo
Ducale si basa sul prototipo di Antonio Canal nella collezione del
duca di Norfolk (Constable, Links 1989, n. 104), mentre quella con
San Giorgio Maggiore verso la riva degli Schiavoni deriva, con
minime variazioni nelle figure, dalla corrispondente acquaforte di
Michele Marieschi facente parte della serie pubblicata nel 1741 (Succi
1987[b], n. 6).
Particolarmente
interessante è la tela, pure inedita, derivata dalla stupenda acquaforte
canalettiana Le porte del Dolo. La veduta è l'unica
opera finora conosciuta recante la firma autografa dell'artista:
«Bellotti dit Canalletti». Questa maniera di
firmare è interessante non solo perché dimostra come Pietro Bellotti, al
pari del fratello Bernardo, cercasse di sfruttare la fama dello zio, ma
anche perché permette di sciogliere l'enigma relativo
all'identificazione di un altro artista attivo a Nantes nel Settecento.
Si tratta di quel «Pietro Bellotto di Canaleti» che nel 1755 fece
domanda di poter esercitare a Nantes la professione di pittore e il cui
nome ricorre anche in alcuni documenti del 1768 di quella città.
Sebbene Rodolfo Pallucchini (1960, p. 228) e Giuseppe Fiocco (1964, pp.
178-179) fossero portati a ritenere che il pittore di Tolosa e quello di
Nantes fossero la stessa persona, l'ipotesi restava tuttavia
non dimostrata. Kozakiewicz (1972, p. 58) osservava che solo nuove fonti
documentarie avrebbero potuto fornire la certezza che il Pietro Bellotti
di Tolosa coincidesse con il «Pietro Bellotto di Canaleti» citato nei
documenti di Nantes.
Il ritrovamento di questo dipinto firmato dirime ogni dubbio perché
fornisce la prova oggettiva che anche il Bellotto di Tolosa pretendeva,
come quello di Nantes, di essere chiamato con l'appellativo
di "Canaletto".
Il quadro firmato si accompagna con un capriccio raffigurante i
Dintorni di Padova con la torre di Ezzelino (fig. 3). Il dipinto è
derivato da una stampa di Fabio Berardi appartenente alla serie di «sei
villaggi campestri», quattro dei quali riproducono in controparte
altrettanti disegni del Canaletto (Pignatti 1969, p. 24).
La stampa, edita da Wagner, reca in calce l'iscrizione (con
allusione alla fanciulla che ha steso i panni sul finestrone a
sinistra): «Mettendo i panni al sole / Scalda ella pur chi vuole».
La derivazione del dipinto da una incisione appartenente a una serie
che, come ha giustamente suggerito Pignatti, deve essere stata
pubblicata nella prima metà del settimo decennio, fornisce un prezioso
elemento per la datazione intorno al 1770 della tela firmata e del
relativo
pendant. Rispetto alla precedente produzione pittorica, in questa
coppia di tele lo stile dell'artista, pur rimanendo ancorato ai
riferimenti iconografici provenienti da Venezia, sembra evolversi verso
finezze cromatiche estenuate, attente al gusto francese.
Altri due dipinti, comparsi recentemente sul mercato, sono
particolarmente interessanti perché sono databili con certezza ante
1760 essendo stati esposti una prima volta nel Salon tolosano del
1760 e una seconda volta in quello del 1775 come proprietà del marchese
de Puget. In seguito entrarono a far parte della collezione Bernard
Desarnaut di Tolosa, dove vennero individuati da Mesuret (1952, p. 170).
Le tele raffigurano due vedute, una di Roma, Il Tevere con Castel
Sant'Angelo, e una di Venezia, Il Canal Grande a Cannaregio,
derivata dall'incisione di Visentini facente parte della prima edizione
della raccolta Prospectus Magni Canalis Venetiarum pubblicata nel
1735.
Questi dipinti e gli altri finora conosciuti dimostrano che lo stile di
Pietro Bellotti è diverso da quello molto personale e immediatamente
caratterizzato fin dagli esordi del fratello Bernardo, risultando
piuttosto influenzato dalla maniera del Canaletto, come del resto era
logico.
Non si conosce l'anno e il luogo della morte di Bellotti. Un catalogo
del Musée des Augustins del 1818, attribuendogli una veduta del ponte di
Rialto, contiene l'indicazione generica che l'artista era morto da pochi
anni in Francia. Di fatto l'ultima notizia sicura risale al
1776 quando, come ricordava Mesuret (ivi, p. 172), il pittore ricorse a
un annuncio per pubblicizzare una veduta ottica: «Messer Bellotti,
pittore Veneziano già conosciuto in questa città, ha composto un'ottica
fra le più curiose, che si propone d'esporre al pubblico. S'è
annunciato per mezzo d'affissi e biglietti che ha fatto distribuire in
città». Si può quindi ritenere che il pittore sia morto intorno al 1800,
quando doveva avere circa settantacinque anni.
Sebbene il nome di
Pietro Bellotto, documentato anche come Bellotti, sia da tempo
conosciuto agli studiosi, le sue opere non sono mai state oggetto di
un'analisi che ponesse in risalto le peculiari caratteristiche
stilistiche, mettendole a confronto con quelle dei dipinti degli altri
componenti il clan dei Canal: Bernardo Canal, Antonio Canal, Bernardo
Bellotto.
I dipinti di Bellotti sono quasi sempre derivati
da stampe. Per quanto riguarda le vedute veneziane, il pittore utilizzò
le raccolte di Michele Marieschi (1741), di Antonio Visentini (1742) e
del Canaletto (1745-1746), mentre per i capricci si avvalse anche delle
incisioni di Fabio Berardi derivate da dipinti del Canaletto. Un tipico esempio della maniera di Bellotti è
costituito dalla interessante veduta inedita raffigurante
Il molo verso la
Libreria e la Salute derivata da una incisione di
Visentini, a sua volta basata su un prototipo canalettiano (Succi 1986,
p. 247). La resa accurata degli elementi architettonici, la
luminosità diffusa, leggermente fredda, le delicate sfumature rosate e
il velo di nebbia che attenua i contorni degli edifici sullo sfondo
caratterizzano il dipinto di chiaro gusto canalettiano, mentre nelle
figure non manca qualche riferimento ai modelli allungati e
tendenzialmente squadrati del fratello Bernardo.
Dario
Succi
_______
Bernardo Bellotto
(Venezia 1722 – Varsavia 1780)
Bernardo
Bellotto, Canal Grande dalla chiesa di Santa Croce. Londra, National
Gallery
Bernardo Bellotto nasce a Venezia nella parrocchia di Santa Margherita,
il 20 maggio 1722. Figlio di Lorenzo Antonio Bellotto e Fiorenza Canal,
sorella del celebre Canaletto, si forma presso la rinomata bottega di
quest’ultimo. Nel 1738 è già iscritto alla Fraglia dei Pittori
veneziani, mentre nel novembre del 1741 convoglia a nozze con Elisabetta
Pizzorno. Verosimilmente nella primavera dell’anno successivo, “per
consiglio del Zio” si porta a
Roma dove “fece uso del suo talento nel disegnare e dipingere le antiche
fabbriche e le più belle
vedute di quell’alma Città. Con tale esercizio rendendosi sempre
più abile” (Guarienti 1753). Nel 1744 è documentato in Lombardia, al
servizio del conte Antonio Simonetta e nel 1745 a Torino, dove esegue
alcune vedute per Carlo Emanuele III. In queste opere l’artista,
certamente con il consenso dell’illustre maestro, appone accanto alla
propria firma il soprannome “Canaletto”. Secondo la tradizione,
tuttavia, i rapporti tra lo zio ed il nipote, alquanto lunatico, furono
difficili. “Purtroppo a tuttoggi nessun documento archivistico ci
illumina sui rapporti umani o semplicemente lavorativi intercorsi tra lo
zio maestro ed il nipote allievo – un caso solo apparentemente analogo
all’accoppiata Sebastiano e Marco Ricci – rapporti che è giocoforza
enucleare per via deduttiva in base alla produzione artistica di
entrambi. Non appare comunque troppo arbitrario immaginare con quale
trepidante compiacimento il Canaletto senior, che si sa come fosse
anch’egli un carattere assai poco socievole tanto da essere definito dai
contemporanei «fantasque» e «bourru», abbia seguito gli esordi del
nipote-prodigio, il quale sin da adolescente doveva rivelarsi di gran
lunga il suo miglior allievo. Forse non ci furono neppure specifici
episodi di una rottura, più verosimilmente questa avvenne in maniera
progressiva, quasi generazionalmente, come contrasto tra lo zio, in cui
forse s’era insinuata una certa invidia, e il nipote consapevole delle
proprie capacità fino alla presunzione e comunque insofferente di un
qualche condizionamento. E che a Bernardo facesse difetto la modestia lo
attestano numerose fonti [...]. Già partito nel 1746 per Londra – ma non
certo con l’idea di restarvi per sempre – il Canal, ecco arrivare a
Bernardo la grande occasione, un giro di boa nella sua vita: l’invito a
Dresda” (Rizzi 1995). La chiamata di Augusto III, principe elettore di
Sassonia e re di Polonia, ad assumere la carica di “Peintre du Roi”,
avvenne “probabilmente grazie ai buoni uffici dell’abate veronese Pietro
Guarienti, che era stato da poco nominato ispettore della Galleria reale
e che aveva conosciuto il giovane pittore a Venezia, legandosi con lui
di amicizia al punto da venir scelto nel 1745 come padrino al battesimo
della terza figlia di Bernardo, Francesca Elisabetta. [...] L’incarico
affidato a Bernardo a Dresda era quello di illustrare con le sue vedute
la città che Augusto II il Forte e il figlio avevano rinnovato dal punto
di vista architettonico e urbanistico in modo radicale, facendola
assurgere al ruolo di splendida capitale europea” (Pedrocco 2002).
Grazie ai favori di Augusto III e del suo fedele primo ministro,
Bellotto, il cui stipendio era a dir poco generoso, “poté serenamente
operare in quel decennio 1747-1756 che tutto fa credere egli dovette
ricordare come il più felice della sua vita” (Rizzi 1995).
Lo scoppio della Guerra dei Sette Anni
(1756-1763) pose fine a questa situazione favorevole. La corte di
Augusto III si disperse ed anche Bellotto lasciò Dresda per trasferirsi
a Vienna e porsi per due anni (1759-1760) al servizio dell’Imperatrice
Maria Teresa, non senza soddisfare le richieste di importanti
committenti quali il Cancelliere Kaunitz ed il Principe di Lichtenstein.
Si ignorano molte circostanze riguardanti questo soggiorno viennese,
tuttavia che l’imperatrice lo stimasse è confermato, oltre che dalle commissioni di famose vedute, dalla sua lettera inviata, per mano stessa dell’artista, il 4 gennaio 1761, alla principessa ereditaria
della Sassonia Maria Antonia,
che si trovava allora a
Monaco. “Non ho potuto veder partire Canaletti
[sic] - scrive l’imperatrice - senza consegnargli queste righe, raccomandandogliele;
egli anche in tal caso si è
comportato molto bene e ci ha
riforniti di qualcuna delle sue opere molto belle.
L’invidio di poterlo vedere otto mesi prima di me” (Kozakiewicz
1972). Nel 1761 quindi, attratto dalla liberalità dell’Elettore
bavarese Massimiliano III, Bellotto soggiornò a Monaco; per poi far
ritorno nel 1762 a Dresda (Valcanover 1966). Qui l’attesero amare
sorprese. “Allorché, alla fine del 1763, morirono a breve distanza l’uno
dall’altro sia Augusto III che il suo primo ministro plenipotenziario,
il conte Heinrich Brühl, nel 1764 Bellottto non ottenne altro che un
posto di dipendente presso l’Accademia di Belle Arti in qualità di
insegnante di corsi preparatori di prospettiva nelle classi inferiori di
paesaggistica e architettura. Alla fine del 1766 chiese un periodo di
congedo per recarsi a San Pietroburgo, ma strada facendo si fermò,
all’inizio del 1767, alla corte polacca di Stanislao Augusto Poniatowski,
dove nel 1768 divenne pittore di corte e ritrasse Varsavia, dove ormai
risiedeva” (Weber 2001). “Qui trascorse gli ultimi quattordici anni
della sua vita, assicurando alla propria famiglia (aveva moglie e
quattro figli, un maschio e tre femmine) una buona posizione economica e
riacquistando, inoltre, quel peso professionale che aveva perso a
Dresda. Considerando il carattere del pittore alquanto instabile e
incoerente nonché le sue difficoltà a instaurare dei rapporti
interpersonali, si può ipotizzare che la decisione di restare a Varsavia
fu influenzata dalla forte posizione assunta dagli artisti italiani alla
corte polacca. Il sovrano polacco organizzava ogni settimana dei pranzi
ai quali invitava molti artisti, in maggioranza italiani, da cui il nome
di «pranzi italiani»” (Rottermund 2001).
Bernardo Bellotto morì a Varsavia il 17 novembre 1780. Il giorno
successivo fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini in via Miodova.
Educato presso la
rinomata bottega dello zio, Antonio Canal noto a tutti come il
Canaletto, “prese ad imitarlo con tutto lo studio ed assiduità [...];
dipinse di quelle di Venezia così diligentemente e al naturale eseguite,
che un grande intendimento ricercasi in chi vuole distinguerle da quelle
del Zio” (Guarienti 1753). Da lui Bellotto imparò “a servirsi di una
tecnica capace di evocare la profondità delle ombre e gli spiragli di
luce sulle architetture, le screpolature e irregolarità di colore dei
muri, l’esattezza del disegno delle architetture, la brillantezza e
mutevolezza dell’acqua.
È la crescente capacità tecnica nel seguire i procedimenti di Canaletto
– rendendoli gradualmente sempre più personali – che costituisce il
criterio per il riconoscimento e la cronologia delle prime opere di
Bellotto. Nel 1740 l’artista raggiunge una qualità talmente eccezionale
di interpretazione della tecnica canalettiana, da far deviare, già con
queste opere molto giovanili, l’attribuzione di alcuni dipinti a
Canaletto, oppure creare incertezze, e questo non solo al tempo di
Pietro Guarienti, ma ancora in anni molto recenti. Non si è finora
individuato alcun altro pittore riuscito a rendere propria, con lo
stesso grado di genialità, la tecnica del Canaletto; anche se è
opportuno supporre la presenza nell’atelier di qualche altro
collaboratore, nulla permette di riconoscerne la produzione pittorica” (Kowalczyk
2001).
Verso la metà del quinto decennio Bellotto, attivo in Lombardia, a
Torino e forse a Verona, afferma la sua autentica inclinazione,
affrancandosi definitivamente dal linguaggio pittorico dello zio. Sin
dagli inizi infatti “egli aveva aderito alla visione che il Canaletto
andava elaborando e pienamente realizzando [...]. Ma si deve aggiungere
che il fondamento di quegli insegnamenti – e qui è il punto – consisteva
soprattutto nella ferma fiducia che la realtà visiva corrispondesse a
qualcosa di assoluto, di oggettivo, di «esistente in sé» e fosse quindi
riconoscibile attraverso un’esperienza, non solo inequivocabilmente
certa, ma anche unica, inconfondibile con le altre. [...] Qualcosa di
più radicale quindi e, in un certo senso, qualcosa di più idoneo a
condurre a risultati del tutto simili, che il semplice trasmettersi da
maestro ad allievo dei modi soggettivi di una maniera pittorica.
[...]Per questo egli poté, senza mai tradire tali premesse di ordine
conoscitivo, trovare una via che lo condusse a conseguenze del tutto
differenziate da quelle del Canaletto. [...] Le vedute di Dresda e di
Pirna che il Bellotto eseguì durante il suo soggiorno in Sassonia dal
1747 al 1758 indicano forse il punto più alto toccato da quella ricerca
di assoluta obiettività che era uno dei poli antitetici della figurativa
del Settecento. La suggestione di vero che provocano nello spettatore ha
qualcosa di magico, il loro potere evocativo sembra inesauribile”
(Briganti 1955).
“La veduta della piazza del mercato di Pirna è tra le composizioni più
felici di Bellotto, di cui esiste tutta una serie di repliche di suo
pugno e di copie di altri pittori. [...] La fama del quadro è meritata.
Bellotto deve aver contemplato il fitto tessuto di architetture
medievali e moderne di questa cittadina della Sassonia con il piacere
estetico che sprona anche gli esploratori di paesi esotici. Vi trovò
infatti un luogo che gli offriva una dovizia di aspetti figurativi”
(Weber 2001).
Nelle opere del
periodo viennese l’artista talvolta allude alla presenza fisica del
committente all’interno della composizione. “La veduta del Palazzo
Lobkowitz, con protagonista un edificio che da poco aveva cambiato
proprietario, si distingue per un gruppo «animato» in primo piano a
destra che si contrappone al vero protagonista del dipinto, cioè
all’edificio patrizio situato sulla sinistra. In quel caso il «palco» è
costruito dalla striscia in primo piano e l’attenzione è richiamata
verso un gruppo di persone, le cui ombre si direzionano in senso opposto
rispetto all’impostazione generale delle condizioni di luce. Questa
tendenza a sottolineare l’importanza delle figure umane che, a partire
da alcuni dipinti degli anni di Dresda, non sono più macchiette, come si
è varie volte notato, raggiunge il suo apice durante il soggiorno
viennese. Solo di questo periodo infatti sono documentati disegni di
studi di figure, a testimoniare un definitivo cambiamento di
impostazione, dovuto a precise richieste della committenza” (Frank
2001).
Durante il “soggiorno viennese del 1759-1760 si ha l’impressione che il
Bellotto abbia un po’ sforzato la vena descrittiva, cioè l’esteriorità
della sua ispirazione, raggiungendo effetti d’una bravura eccezionale,
ma forse meno ricchi di poesia di quelli ottenuti negli anni precedenti
in Sassonia. La veduta si viene trasformando sempre più in documento, in
narrazione di avvenimenti occasionali in determinati luoghi. L'interesse
realistico che già puntualizzava il macchiettismo del Bellotto si
inserisce in una nuova esigenza descrittiva, che assumerà nuovo
equilibrio nell’ultimo periodo polacco” (Pallucchini 1995).
“A Varsavia l’artista si cimentò nella pittura a soggetto storico, che
prima invece aveva sempre evitato. Le due versioni della Elezione e
dell’Ingresso di Jerzy Ossoliński a Roma riscossero successo fra i
contemporanei e possono essere definiti opere ben riuscite nel loro
genere. Bellotto non partecipò ai due eventi, ma ne venne a conoscenza
grazie a descrizioni e fonti iconografiche. Nei due dipinti ritrasse le
scene nel loro significato politico. Per questo motivo utilizzò una
struttura compositiva “arcaizzante”, che richiama le precedenti vedute
delle elezioni dei re polacchi (Augusto II e Augusto III) e, nel caso
dell’Ingresso di Ossoliński a Roma, alle incisioni e ai quadri di
soggetto simile” (Rottermund 2001).
I tratti principali della pittura bellottiana “sono da un lato l’intima
fusione di senso della realtà e malinconia poetica, e l’autentico
interesse per gli insediamenti umani espressi nelle città e nei paesi
coi loro edifici, per gli uomini che vi abitano e le loro occupazioni;
dall’altro è la ricerca della bellezza nella concezione pittorica, al
cui realizzarsi contribuiscono notevolmente l’ampiezza panoramica della
veduta e l’armonia degli effetti cromatici e chiaroscurali. E infine è
l’atmosfera cristallina, che racchiude tutte le forme chiaramente
delineate e nella quale giuocano liberamente sia la tavolozza dalle
tonalità prevalentemente fredde che i forti contrasti di luce ed ombra;
da tutto questo deriva un’atmosfera tranquilla e lirica” (Kozakiewicz
1972).
Daniele D'Anza (2005)
_______
Giuseppe Bernardino Bison (Palmanova 1762 – Milano 1844)
Giuseppe Bernardino Bison,
Il Canal Grande con la Punta della Salute, tempera su carta.
Collezione privata
Giuseppe Bernardino
Bison
nacque a Palmanova il 16 giugno
1762: i genitori (il padre era nativo
di Castelfranco Veneto, la madre veneziana) si trasferirono
successivamente a Brescia, dove,
accortisi delle capacità del
figlio, lo misero a studiare disegno presso il pittore Gerolamo
Romani. La famiglia
passò poi a Venezia, dove Anton Maria Zanetti il giovane, “lo venne per
vero utile di lui, raccomandando a Costantino Sedini [Cedini]
professor di figura. Questi gli schiuse tosto l’adito ai liberali e
tanto vantaggiosi esercizi dell’Accademia. [...] Appena egli si fe’
conoscere per alcuni ornamenti nelle camere, che i piccoli pittori si
valsero di lui, mandandolo qua e là ad aggiungere ai loro lavori qualche
accessorio sia d’ucellami, sia d’arabeschi misti. Quindi non andò guari
che incominciarono le ordinazioni di vario carattere, e gli inviti a
diversi luoghi. [...] Ne’ primi suoi anni, e poi per moltissimi, decorò
appartamenti; a buon ora e per gran tempo della lunga e infaticata sua
vita, e fin quasi agli estremi aneliti, dipinse massimamente quadri,
senza non tornare a quando a quando, e a seconda dei casi al primiero
genere decorativo” (Rossi 1845).
A Venezia strinse amicizia con l’architetto Selva,
tanto da seguirlo nel 1787 a Ferrara, dove, quest’ultimo, era stato
chiamato per dei rimaneggiamenti a palazzo Bottoni. Nello stesso anno
Bison è documentato anche a Padova al seguito dello scenografo Antonio
Mauro, che partecipava al concorso per l’ornato del Teatro Nuovo. Nel
1790 lavorò nel castello del Catajo presso Padova e dopo il 1791 fu
operativo nel trevigiano dove eseguì decorazioni di notevole ampiezza
nella villa Tivaroni-Zanini a Lancenigo e nella villa Spineda a Breda di
Piave.
Al legame con Giannantonio Selva si devono
anche i successivi spostamenti di Bison, “che troviamo impegnato con la
schiera di ornatisti in Palazzo Manin a Venezia, poco prima del 1800,
dove Selva si era occupato dell’intera ristrutturazione a partire dal
1794, ed è ipotizzabile che il maestro si recasse a Trieste quando
l’architetto nel 1798 ricevette il prestigioso incarico di progettare il
Teatro Nuovo. L’idea di entrare nell’impresa avrebbe aperto a Bison un
nuovo fronte in cui prestare la propria opera come decoratore, ma il
progetto presentato da Selva venne bocciato, per essere affidato nel
marzo 1779 a Matteo Pertsch e anche il palmarino rimase fuori dalla
partita.
In questo momento cruciale per Bison, si scopre la complessità dei rapporti
professionali che dovettero legarlo subito al giovane architetto Pertsch,
formatosi nell’aggiornato ambiente dell’Accademia milanese e parmense, e
allo scultore Antonio Bosa presente a Trieste sin dal 1801. Insieme i
tre dovettero collaborare in palazzo Carciotti e nel palazzo della
Borsa, i principali episodi di edilizia neoclassica triestina, anche se
in quest’ultimo caso al progetto di Pertsch venne preferito quello di
Antonio Mollari. [...] Bison trovò a Trieste la personale dimensione
d’artista, conseguendo una posizione che non tardò a tradursi anche in
un successo di mercato. Dopo i circoscritti interventi in città di
Canal, Borsato e dell’eclettico Basoli, con le sue invenzioni d’interni
consistenti in finti, avvolgenti tendaggi, ed in scorci paesaggistici
visti attraverso colonne doriche di severa classicità, Bison detenne il
campo dell’ornato [...]. Ma anche nella pittura da cavalletto il maestro
moltiplicò la produzione, dando vita a molti generi. Il mercato
collezionistico triestino mostrava apprezzamento per i paesaggi, i
capricci, dove Bison metteva a frutto le sue indubbie doti di
scenografo, i soggetti mitologici, trovando una quantità di temi,
facilmente abbordabili per il prezzo non elevato giustificato anche dal
piccolo formato delle opere" (Magani 1993).
Nel 1831, a sessantanove anni, Bison decise di
trasferirsi a Milano, riprendendo inspiegabilmente il suo giovanile
vagabondare, "lasciando il prestigio con cui aveva dominato l’ambiente
artistico triestino e che certo non poteva venire oscurato da un modesto
decoratore come Giuseppe Gatteri, che peraltro sulle orme del maggiore
maestro aveva mosso i primi passi anche se a partire dalla metà degli
anni venti cominciava a ricevere non poche commissioni pubbliche
(Rotonda Pancera, Ridotto del Teatro Nuovo)” (Magani 1993). Nel
capoluogo lombardo l'artista rinunciò a cimentarsi in grandi imprese
decorative e curò particolarmente i dipinti di piccole dimensioni senza
però riscuotere grande successo, se è vero che, nonostante l’indefessa
attività, morì povero nel 1844.
Daniele D'Anza (2005)
Giuseppe Bernardino
Bison - altri articoli e pubblicazioni :
“La vicenda artistica
di Bison sembra essersi attivata sotto la spinta di una tensione
sostenuta da uno stile che nella sensibilità per la buona pittura
ricerca un assunto tale da preservarla dalle eleganze e dalla misura
formale del gusto neoclassico, affermatosi in quegli anni, e che nella
pratica artistica del maestro corrisponde ad una sostanziale divergenza
nei confronti delle tendenze più moderne. L’impossibilità di
identificare l’arte di Bison con le «avanguardie» del tempo parte, a ben
guardare, sin dalle origini della sua formazione a Venezia.
L’Accademia veneziana al Fonteghetto della Farina non forniva in quegli
anni le migliori occasioni per aggiornarsi sulle più avanzate tendenze
classicistiche. Significativamente proprio nell’autunno del 1779, quando
Bison si accingeva ad entrarvi, Canova lasciava l’Accademia e Venezia
per raggiungere Roma, dove avrebbe trovato le manifestazioni più
complete della cultura europea di quei decenni” (Magani 1993).
“Nel noto dipinto di Bison Gruppo di figure in un interno di palazzo
Pola (Treviso, Museo Civico) risalta la doppia specialità dell’artista,
che si applicò tanto alla produzione di genere (e la scenetta qui
situata al centro della composizione ne è un esempio) quanto alla misura
monumentale della decorazione ad affresco: l’interno qui raffigurato
esibisce infatti pareti e soffitto interamente decorati da scene
mitologiche e da rigogliosi motivi d’ornato a monocromo di gusto
classicistico. [...] È nella terraferma che l’artista ha le maggiori
opportunità d’esprimersi in questo campo. Anzitutto a Padova, in palazzo
Maffetti (poi Manzoni), dove lavora in due ambienti forse intorno al
1790. In città era tutto un fiorire di nuove decorazioni, a opera di
figuristi come Novelli e Canal, e di ornatisti come Paolo Guidolini e
Lorenzo Sacchetti. Specie certe invenzioni di quest’ultimo rivelano
singolari affinità con quelle di Bison, come le sopraporte di palazzo Da
Rio, con aquile poste a custodire antichi medaglioni. Nel salone di
palazzo Maffetti l’artista combina la tradizione di ascendenza
tiepolesca, palese nel brano di figura del soffitto – La Virtù incorona
la Nobiltà – con i dettami del «moderno» decorare, recependo quelle
istanze del classicismo tardosettecentesco già diffuse nei palazzi di
città e negli interni di villa. [...] Verso il 1791-92 lo troviamo
impegnato nelle decorazioni di villa Raspi (poi Tivaroni) a Lacenigo, e
nella villa di Jacopo Spineda a Breda di Piave, entrambe nel trevigiano.
[...] È il mondo della scenografia che si riversa in questi interni,
quale era stato creato da Andrea Urbani, da Chiarottini, da Antonio
Mauro III (Bison lo ebbe maestro dell’Accademia e con lui lavora a
Padova nel Teatro Nuovo), da Francesco Fontanesi (il decoratore della
sala teatrale della Fenice): un mondo manifestamente illusorio, che vive
di riverberi di luce colorata, di sorprese, per sedurre lo sguardo e
tener desta l’attenzione, in cui serpeggia liberamente lo spirito del
capriccio, alla fine di un secolo che del capriccio aveva fatto una
bandiera. [...] Il ciclo di affreschi di Breda di Piave è certo il
capolavoro di Bison, nel quale la fantasia inventiva e cromatica
dell’artista si estrinseca felice, anche per la scelta di applicare alla
pittura murale una tonalità minore, così da farne una pittura da stanza,
equivalente alla musica da camera: proprio una delle esperienze più
gratificanti è il passare di ambiente in ambiente lasciandosi
sorprendere di continuo dal fuoco d’artificio delle trovate. Alla fine,
dopo tanta eccitazione visiva, può restare nel ricordo, come dopo un
sogno, «uno sbocciare fresco di petali, una liquida macchia d’ombra, il
muoversi arioso d’un nastro»” (Pavanello 1997).
“Nonostante la sua formazione e permanenza a Venezia, circa fino allo
scadere del secolo, finora si ha notizia di pochissimi interventi di
tale natura nella Serenissima, e precisamente due stanze in coppia con
Costantino Cedini nel mezzanino di palazzo Giustinian Recanati alle
Zattere (1793) e alcune decorazioni a palazzo Dolfin Manin (1800)”
mentre nel Palazzo Bellavite spetta, tra l’altro, a Bison anche “la
continua teoria di coppie di animali affrontati, divisi da bucrani
inghirlandati, da candelieri e da palmette e tutta collegata, senza
soluzione di continuità, da sottili girali ingentiliti da racemi con
foglie e bacche, capaci di rendere unitario un originalissimo e vario
bestiario. Partorito da una fervida fantasia compositiva, non disgiunta
da una vera passione zoologica, esso ribadisce che è nelle realizzazioni
a ‘grottesca’, o comunque nei divertiti dettagli apparentemente
secondari – tanto apprezzati nella sua grafica – che il Bison afferma i
caratteri migliori del suo linguaggio” (De Feo 1997).
“Ma più che nella grande decorazione aulica ad affresco il Bison emerge,
tra gli altri contemporanei, per la sua produzione di piccole tempere,
quasi sempre di soggetto paesistico, eseguite con una bravura
straordinaria e una fantasia inesauribile. Opere talvolta di carattere
scenografico o ispirate ad altri pittori (Tiepolo, Canaletto,
Zuccarelli, ecc.), ma più spesso d’invenzione propria. Pittura sovente
descrittiva sì, ma realizzata sempre con una forma perfetta, con un
tocco freschissimo e una tavolozza splendida, che non ha niente del
«pittoresco», ma semmai dell’altamente «pittorico», sia che rappresenti
una burrasca o un sereno paesaggio agreste. Una pittura spontanea e
limpida, spesso aderente alla sostanza e ai fenomeni della natura, come
osserviamo in certi paesaggi invernali o in altri raffiguranti l’estate
sparsi d’abituri e di contadini ai lavori: paesaggi che ricordano quelli
del lontano Marco Ricci, ai quali sovente sia per spirito che per
qualità non sono inferiori” (Martini 1982).
“Il paesaggio idealizzato, in cui case, capanni, vegetazione, cielo e
uomini convivono in una stagione senza tempo dove solamente una luce
incontaminata li unisce, è il modo di Bison di proporre un’arcadia nella
quale si profonde l’auspicio per il presente”. Altre volte invece
“gigantesche architetture sprofondate nella natura circostante non
appartengono ad una «veduta», ma costituiscono il pretesto per inventare
una prospettiva illusionistica, seguendo gli insegnamenti della
scenografia nel gioco dell’arco molto scorciato in primo piano che
incrocia l’infilata di palazzi e antichi monumenti in cui si unificano
stili diversi, così come avviene in una invenzione piranesiana” (Magani
1993).
L’arte di Bison attraversa il periodo neoclassico ma resta
sostanzialmente legata a forme settecentesche dalle quali deriva quella
tipica spontaneità e spigliatezza. Nel piccolo olio, Maschere, del
Civico Museo Revoltella di Trieste, la scena d’intrattenimento “alimenta
quello spirito nostalgico o il desiderio di confrontarsi con
l’immaginario aristocratico del passato da parte della società borghese
del primo Ottocento. La festa o, piuttosto, una «mascherata», è
descritta nei più schietti modi veneziani settecenteschi ricordando, per
la pungente e lucida osservazione, il contenuto della pittura di genere
di Pietro Longhi, Francesco Guardi e Giandomenico Tiepolo, risolta dal
maestro di Palmanova con sottili vibrazioni nel tratto...” (Magani
1997).
“È noto quanto fertile sia stata anche l’ultima pittura del Maestro,
ormai anziano, operante a Milano: quadretti di maniera, ripensamenti
giovanili ma anche quadretti di nuova, fresca, vena realistica, seppur
cedenti alla moda corrente, al gusto dell’aneddoto, al prevalere di
certa tematica - scene in conventi, frati in preghiera, vita claustrale
- comune pure al Migliara (Zava Boccazzi 1971)”.
“La vita di Antonio Canal detto il Canaletto non è ricca di avvenimenti
biografici ed è priva di episodi significativi; in ogni caso, è
certamente povera di notizie. Antonio sembra essere stato un uomo dedito
unicamente al suo lavoro, immerso per così dire nella sua opera. A
seguire i diversi autori che si sono occupati di lui, la data di nascita
di Canaletto è incerta: viene spesso indicato il 28 ottobre del 1697.
Mariette indica il 18 e afferma di aver avuto una memoria dallo stesso
artista; noi preferiamo seguire la lettura fatta da I. Chiappini (1968)
dei registri battesimali di San Lio e indicheremmo la data del 17
ottobre. Antonio proviene da una famiglia di artisti: il padre Bernardo
ed il fratello Cristoforo erano infatti pittori di scenografie. Antonio
inizia con loro la sua prima esperienza, fatta di collaborazione agli
allestimenti scenici nei teatri veneziani” (Bettagno 1982). “Nei primi
anni seguitò col padre quell’esercizio, utile per sciogliere la mano e
svegliare la fantasia della gioventù e per obbligarla ad operar con
prontezza; e fece bellissimi disegni per gli scenari” (Zanetti 1771).
Verso il 1719 Canaletto seguì il padre a Roma, dove i Canal realizzarono
le scene del Tito Sempronio e del Turno
Aricino di Alessandro Scarlatti, rappresentate al teatro Capranica
durante il carnevale del 1720 (Croft-Murray in Constable
1962). Nell’Urbe il giovane Canaletto maturò l’intenzione di
abbandonare l’attività teatrale per dedicarsi pienamente alla pittura.
Non è forse un caso che proprio in quegli anni operava nella città
capitolina, accanto a Panini, Codazzi, e i “bamboccianti” olandesi, quel
Gaspar van Wittel che “inaugurò virtualmente la storia della veduta
veneziana del Settecento, stabilendone l’impostazione visiva e
individuando, per primo, punti di vista che il Canaletto rese famosi”
(Briganti 1966).
Rientrato in laguna Canaletto iniziò un’intensa attività artistica che
lo condusse in breve tempo a realizzare, in gran numero, quelle
“Venezie” per cui ancora oggi è famoso. Il successo strepitoso delle sue
vedute gli procurò importanti commissioni, come la
Veduta di Corfù, realizzata per il maresciallo Schulenburg o le
famose tombe allegoriche dipinte su richiesta di Owan Mc Swiney.
È da porsi
agli inizi del 1730 l'avvio del sodalizio con il banchiere, mercante e
collezionista di altissimo lignaggio Joseph Smith. Un sodalizio
destinato a lanciare Canaletto definitivamente nel panorama artistico
internazionale. Con lo Smith “si viene a stabilire una specie di
concatenazione artista-intermediario-cliente-collezionista, che
praticamente finisce col determinare una posizione quasi di monopolio
dell’intermediario, nella scelta della clientela (nel nostro caso era
quasi tutta anglosassone) come nella esclusione dell’artista dai diretti
rapporti con il cliente-collezionista. Si è parlato alternativamente di
sfruttamento e di mecenatismo: considerazioni opposte su una circostanza
che, veduta a distanza e con storica obiettività, ci appare di una
evidenza indiscutibile. Un rapporto che, nel caso del Canaletto viene
tranquillamente e felicemente accettato dall’artista, il quale forse,
proprio in esso ha potuto trovare quell’equilibrio che gli ha permesso
più di quindici anni di indefessa produzione ad un livello di creatività
tra i più strabilianti. Le poche informazioni che abbiamo su Canaletto
sono tutte abbastanza chiare nell’accennare al suo temperamento
difficile, spinoso nel trattare, un pittore assillato di commissioni e
sempre pronto a discutere sul prezzo” (Bettagno 1982). In una lettera di
McSwiney a Lord March, datata 28 novembre 1727, si legge a un dipresso:
“l’amico è stravagante, cambia i prezzi ogni giorno; se uno pensa di
avere un quadro da lui, bisogna stare attenti a non mostrarsene troppo
entusiasti perché si rischia di essere maltrattati sia sul prezzo che
sul dipinto. Ha molto più lavoro di quello che possa fare in un tempo
ragionevole”. Mentre il 17 luglio 1730 Joseph Smith, evidentemente non
ancora “in società” con il pittore, scrive a Samuel Hill: “finalmente
sono riuscito ad avere l’impegno dal Canaletto di finire i due pezzi
entro un anno; ha un tale seguito e tutti sono pronti a pagare quello
che chiede. Ma poiché considera se stesso al di sopra di tutti gli altri
pensa di avermi fatto un grande favore: ma non è la prima volta che io
sono contento di subire le impertinenze di un pittore a vantaggio mio e
dei miei amici”. Ancora più severo il giudizio di McSwiney in una
lettera del 27 settembre 1730 a John Conduit: “si tratta di un uomo
avido e ingordo ed essendo famoso la gente è felice di pagare quello che
chiede”. “Tenendo conto di queste testimonianze mi sembra quasi logico
che un uomo dai difficili rapporti umani quale era il Canaletto trovasse
nell’intesa con Joseph Smith la soluzione di molti suoi problemi di
natura pratica e che finisse non tanto per considerarsi sfruttato,
quanto per trovare una «copertura» che gli dava la piena libertà di
lavorare senza preoccupazioni materiali. Per un uomo la cui vita appare
priva di episodi caratteristici - si direbbe quasi un artista senza
biografia – il lavoro deve aver contato più di ogni altra cosa” (Bettagno
1982).
Joseph Smith, eletto console britannico a Venezia nel 1744, teneva
esposte nel suo palazzo ai Santi Apostoli dodici vedute del Canal Grande
eseguite dal pittore, vero e proprio campionario per gli ospiti e
potenziali acquirenti che frequentavano la sua casa. A scopo prettamente
promozionale, Antonio Visentini fu incarico di inciderle assieme ad
altri due dipinti raffiguranti la
Regata in Canal grande e il
Ritorno del Bucintoro al molo il giorno dell’Ascensione. Le
quattordici vedute furono edite con il titolo
Prospectus Magni Canalis Venetiarum nel 1735. Il successo di questa
iniziativa spinse Smith, sette anni più tardi, a pubblicare una seconda
edizione con l’aggiunta di altre ventiquattro tavole, sempre incise da
Visentini da dipinti del Canaletto.
Il console Smith però non fu solamente un abile mercante, egli svolse
anche il ruolo di operatore culturale. Contribuì infatti alla
divulgazione dell’architettura palladiana e delle teorie di Newton.
“Questo fautore del palladianesimo internazionale, impegnato a fondo
nella battaglia illuministica” mise al servizio dell’architettura “le
sue risorse - a cominciare dall’immensa biblioteca –”, sollecitando nei
suoi salotti continue discussioni.
“Se l’atteggiamento di Smith fosse stato diverso, se si fosse fatto
pubblicista d’una tendenza particolare, non avrebbe potuto svolgere la
funzione di contatto che gli fu propria, essenziale alla formazione
dell’intellighenzia neoclassica in Veneto. [...] Il conte Carlo Lodoli
(1690 – 1761), francescano per volontà d’indipendenza, era senza alcun
dubbio il personaggio chiave del club Smith, perché il carattere delle
sue posizioni obbligava gli altri a risolversi” (Corboz 1985). Questo
filosofo militante, fautore di un’architettura razionale e funzionale
basata sul corretto uso dei materiali e scevra da inutili ornamenti, fu
il primo vero critico razionalista italiano nel campo delle arti visive
e soprattutto dell’architettura. Altri illustri membri del “club Smith”
furono il marchese Giovanni Poleni (1683 – 1761), “membro delle
principali accademie d’Europa, guadagnato alle idee newtoniane al punto
da creare a Padova nel 1738 la prima cattedra di «filosofia
sperimentale» (cioè fisica)” (Corboz 1985); Francesco Algarotti (1712 –
1764), singolare figura di poligrafo, mercante antiquario e
collezionista, “il camaleonte di quest’epoca, cangiante, pieno di
charme
e intelligenza, avido di piacere, ma ansioso di non compromettersi troppo”
(Levey), autore di un’opera divulgativa quale il
Newtonianismo per le dame (1737) e del più significativo
Saggio sopra l’architettura (1756); Andrea Memmo (1729-1793),
seguace delle idee lodoliane e futuro procuratore di San Marco, che nel
1786 pubblicò a Roma gli Elementi
dell’architettura lodoliana ossia l’arte del fabbricare con solidità
scientifica e con eleganza non capricciosa, i quali a trent’anni
di distanza ripropongono le teorie discusse nel salotto di Joseph Smith
(«ero sempre da Smith», dice all’inizio dell’opera, «e Lodoli anche»);
Antonio Visentini (1688-1782), pittore, incisore, architetto e teorico
dell’architettura, il braccio destro del console, ovvero colui che ne
assecondò i progetti e lavorò per alcuni membri del "club".
Lo sconvolgimento europeo, derivante dalla guerra di successione
austriaca (1741-1748), ridusse però drasticamente il flusso dei turisti,
ponendo fine a quel filone dorato impersonato soprattutto dalla ricca
borghesia inglese, che alimentava i guadagni di Canaletto e del suo
agente. Fu allora Smith, con ogni probabilità, a suggerire
all’artista di recarsi in Inghilterra. Nel maggio del 1746, all’età di
quarantanove anni, con alcune lettere di presentazione e di
raccomandazione del console, Canaletto giunse a Londra. “Malgrado tale
altolocata protezione, il soggiorno londinese non deve essere stato per
il pittore veneziano molto semplice, anche per i difficili rapporti con
gli artisti locali. Questi infatti cercarono di screditarlo, diffondendo
la voce che egli non fosse il vero Canaletto, quanto piuttosto suo
nipote, quel Bernardo Bellotto che nel 1747 aveva a sua volta abbandonato
Venezia. Canaletto reagì alla provocazione inserendo un annuncio sul «Daily
Advertiser» del 1749 e del 1751, invitando gli amatori d’arte ad andarlo
a veder dipingere nello studio a Silver Street (l’attuale Beak Street
presso Regent Street, nel centro di Londra). Ma nonostante questa
ostilità, Canaletto a Londra ebbe numerose commissioni e della sua
permanenza in Inghilterra restano una cinquantina di grandi vedute,
alcune delle quali di elevatissima qualità” (Pedrocco 1995).
L’artista rimase in Inghilterra fino al 1755, ritornando una prima volta
a Venezia per otto mesi alla fine del 1750, allo scopo di investire il
denaro guadagnato. Un secondo rientro è documentato da Pietro Gradenigo,
che in data 28 luglio 1753 scrive: "Antonio Canaletto Veneziano celebre
Pittore da Vedute ritorna in da Inghilterra in Patria”. Questo secondo
soggiorno nella città natale deve esser stato più breve del precedente,
viste le numerose vedute realizzate in Inghilterra già nell’anno
successivo (Pedrocco 1995). Migliorata la situazione politica europea, i
turisti ritornarono in buon numero a visitare Venezia e l’artista
riprese a riprodurre i temi famigliari della laguna.
Nel 1763,
a seguito del decesso di tre membri (Giuseppe
Camerata, Antonio Guardi e Giorgio Giacoboni), l’Accademia di pittura e
scultura di Venezia provvide all’elezione dei soci destinati a
sostituirli. La domanda presentata da Canaletto venne però respinta. Gli
furono preferiti Francesco Zuccarelli, Petro Gradizzi e Francesco Pavona.
Fortunatamente a tale sgarbo si rimediò nel settembre dello stesso anno
quando il grande vedutista venne chiamato a coprire il posto lasciato
dalla morte di Giuseppe Nogari.
Come ricordato da
Zanetii (1771), l’artista una volta lasciato “il teatro, annojato dalla
indiscretezza de’ Poeti drammatici” e trovandosi a Roma, “tutto si diede
a dipingere vedute dal naturale. Bei soggetti ei trovò quivi nel genere
spezialmente dell’antichità”. Sulla scorta di questa ed altre fonti
Antonio Morassi (1956 e 1966) rese note alcune vedute ideate ed altre
con rovine romane, sicuramente collocabili a ridosso della sua giovanile
esperienza romana. Due di queste (Venezia, già collezione Cini)
presentano grandiose rovine “suggestivamente impaginate con gusto
scenografico alla Bibiena, ma calate in una drammatica partitura
luminosa, inchiostrata d’ombra densa e affocata, attentissima al dato
naturale, chiaramente «preromantica» sulle tracce dei pensieri di
Salvator Rosa e soprattutto di
Marco Ricci” (Valcanover 1982).
“D’altra parte a Venezia le vedute ideate di Marco Ricci costituivano
sempre esempi fecondi di insegnamento
anche per il giovane Canaletto.
Agli inizi della sua attività pittorica, ancora
a Roma, o in ogni caso appena tornato a Venezia
(dove figura nella Fraglia
del 1720), v'è tutta una
serie di vedute di soggetto
romano e di altre propriamente
«ideate», caratterizzate da una tensione
chiaroscurale molto accentuata, che si
differenziava dalla limpida intonazione vanvitelliana:
pur « scomunicando» la scenografia
il pittore ne accoglieva certi principi fondamentali
nel mettere in forma aspetti e situazioni
pittoresche di Roma, imprimendo
al monumento classico, degradato a rudere,
una intonazione fantastica già prepiranesiana.
Quella concitazione di effetti chiaroscurali
non derivava soltanto dalle ombre pesanti
del Codazzi, ma era il segno evidente che il
giovane pittore risentiva di quella corrente
di gusto, di carattere «tenebrista», che faceva
capo al Piazzetta, al
Bencovich, alla
Lama
e al primo
Tiepolo. [...]
Fin da queste prime tele la macchietta canalettiana
si caratterizza in modo originale:
sono figurette di ogni estrazione sociale, ma il più delle volte
tipizzate alla picaresca, si direbbe
improvvisate, come se recitassero
in un teatro dell’arte con modi pittorici
sciolti, corsivi, a colpi di luce, e con un ricordo
del mondo dei Bamboccianti” (Pallucchini 1994).
Attorno al 1726 Owen McSwiney,
subito dopo aver convinto l’artista a collaborare con
Pittoni, Cimaroli e
Piazzetta
per la realizzazione di due tele con tombe allegoriche, dedicate ai
personaggi celebri della storia inglese e commissionate dal duca di
Richmond, lo spinse a dipingere per lo stesso committente
due Vedute di Venezia su
rame. “In queste opere di piccolo formato, spedite in Inghilterra nel
1727, il Canaletto abbandona i modi drammatici, fortemente chiaroscurati
della sua fase giovanile, per rivolgersi a una luminosità intensa che
esalta la precisione nella resa dei particolari della veduta e delle
architetture che la compongono. Quanto abbia influito su questo
ulteriore passaggio il consiglio di McSwiney non è facile dire; ma
l’impressione è che il desiderio del mediatore di avere opere più
consone al gusto degli acquirenti inglesi e quindi più precise
topograficamente e accurate nella resa pittorica abbia trovato perfetta
rispondenza nel pittore, accelerando un processo ormai in atto. Del
resto proprio in questi stessi anni cominciavano a essere conosciute a
Venezia le teorie scientifiche newtoniane sulla luce e sulla
scomposizione dei colori da un lato e sullo spazio assoluto dall’altro;
e pare del tutto credibile l’ipotesi di quanti ritengono che il giovane
pittore possa aver conosciuto e apprezzato tali novità rivoluzionarie
che giungevano dall’Inghilterra” (Pedrocco 1995).
Ha inizio così la produzione di quelle celebri
Venezie
dove il segno nitido e fermo ritrae l’incomparabile bellezza della
città. In questa nuova fase della sua attività “le vedute ideate e i capricci
passano dal loro statusmarginale a
quello di molla segreta di tutta quanta l’opera”.
A volte infatti “gli
elementi conservano la loro identità, ma i rapporti che li uniscono
ricevono una nuova
organizzazione. [...] A volte i cambiamenti
sono minimi, e riguardano la
«piccola percezione»; a
volte si tratta invece di metamorfosi
considerevoli” (Corboz 1985). Canaletto insomma si stacca dalla
tradizione in modo quanto meno originale: “rinunciando alla rovina,
questo manipolatore abbandona l’evocazione vaga del tempo per operare
esclusivamente hic et nunc,
in altri termini sulle architetture contemporanee, tuttora in uso, d’una
città precisa, la sua” (Corboz 1985). Campione evidente di questa prassi
è la Veduta del bacino di San
Marco del Museum of Fine Arts di Boston, dove la chiesa e il
convento di San Giorgio, al centro del bacino, non guardano più verso la
Piazzetta e la Libreria marciana ma si ritrovano spostati di alcuni
gradi verso sinistra, ovvero verso il nostro punto di osservazione, per
meglio rispondere ad esigenze sceniche.
Si ha allora
“l’impressione precisa che Venezia sia stata davvero la musa geniale
della pittura canalettiana” (Pallucchini 1941): “poeta non solo
dell’astratta poesia della materia pittorica e del gesto grafico fine a
sé stesso ma di respiro sufficientemente ampio da riassumere come
‘motivo’ lo stesso dato ‘fotografico’, anche dove per avventura
mostrasse di esservisi ‘passivamente’ attenuto. Anzi: quando pure tale
aspetto fotografico si volesse mentalmente separare e separatamente
valutare, a prescindere –
rovesciando il procedimento dianzi seguito –
dalla qualità della ‘materia’ e dal carattere del segno, converrà
anche riconoscervi la presenza di pressoché tutti i requisiti che oggi
siamo soliti richiedere alla fotografia perché essa sia opera d’arte.
[...] E la scelta del soggetto
dell’ora della temperie meteorologica, la predisposta ‘inquadratura’, la
sapienza del ‘taglio’, l’impiego eventuale di teleobiettivi e di
grandangolari, il non fortuito ricorso al ‘fotomontaggio’ sarebbero in
ogni modo e per altra via bastevole arra di originalità: indizi o spie
della libertà fantastica dell’artista. L’originalità (in tal caso) del
fotografo di genio; che costruisce il proprio discorso servendosi come
di parole di aspetti o frammenti della realtà visiva (e del regista che
mette in scena il proprio spettacolo e assegna le parti a proprio
talento, secondo il proprio giudizio): originalità di tanto maggiore in
quanto pochi e malcerti passi erano stati da altri tentati su tale
strada. Onde gli spetta altresì il titolo di iniziatore, poiché è solo
con Canaletto che il paradigma
della verità fotografica entra veramente nella storia della pittura,
impegnando anche i più restii a fare i conti con essa. Originalità
grafica e originalità fotografica” (Gioseffi 1959).
“Il modo in cui
Canaletto, in certi periodi, lavora simultaneamente veduta e
capriccio indica già che non sono
ai suoi occhi generi distinti, ma
due aspetti equivalenti d’un medesimo
campo d'esperienza” (Corboz 1985).
Il
Capriccio con edifici palladiani
della Galleria Nazionale di Parma, rappresenta il manifesto di questo
“nuovo genere [...] di pittura, il quale consiste a pigliare un sito dal
vero, e ornalo di poi con belli edifizi o tolti di qua e di là
ovveramente ideale” (Algarotti 1792). In questo caso il ponte disegnato
da Palladio sostituisce quello di Rialto mentre il palazzo Chiericati
(Vicenza) del medesimo Palladio così come la Basilica di Vicenza, si
affiancano ai lati.
"È stato molto
giustamente osservato (Constable 1962) che l'esistenza, invero
abbondante, d'opere di gusto canalettiano, la cui scadente qualità
elimina ogni ragionevole sospetto di autografia, è spiegabile, in larga
misura, tenendo conto della 'imitabilità', della pittura di veduta, e di
quella di Antonio in ispecie: tanto più, poi, che da un lato le
incisioni, facilmente divulgabili e di fatto assai divulgate,
consentivano la possibilità di confezionare, in quantità e con grande
rapidità, prodotti di una certa evidenza canalettiana, prescindendo
dall'esperienza diretta dei prototipi dipinti, assai più difficilmente
disponibili, anche ben oltre il raggio di un milieu di scolari e
di seguaci presenti e attivi nell'ipotetica bottega: e che, d'altro
lato, la fortuna del maestro sul mercato artistico non poteva non
sollecitare un'azione imitativa, estesa e indiscriminata" (Puppi 1968).
Daniele D'Anza (2005)
_______
Luca Carlevarijs
(Udine
1663
- Venezia 1730)
Luca
Carlevarijs, Piazza San Marco con i
ciarlatani, Potsdam, Staatliche Gemäldegalerie
Luca Carlevarijs
nacque a Udine, nella parrocchia di Santa Chiara il 20 gennaio 1663.
Alla morte del padre Giovanni Leonardo (1679), architetto e pittore,
decise, sedicenne, di trasferirsi a Venezia con la sorella Cassandra,
prendendo alloggio nei pressi di Ca’ Zenobio, in una casa di proprietà
del monastero dei Carmini (Mauroner 1945).
“In freschezza di età passò a Roma, ove indefesso si diede da sé
medesimo a copiare in carta in varie vedute e in ogni prospetto quanto
v’avea d’antico non meno che le moderne fabbriche ritraendole e dentro e
fuori; e già dagli eredi del Carlevaris aveva più volte nominato
Giammaria Sasso acquistati moltissimi di quei disegni e schizzi, parte a
penna e parte con inchiostro della China [...]. Diedesi quindi il
Carlevaris il primo a ritrarre vedute; ed alcune ne fece di Roma, alcune
della sua patria di cui una dal Sasso si possedeva. Ma come giuns’egli
al cominciare del secolo in Venezia, ebbe agio di soddisfare al suo
genio ritraendovi infinite Vedute, cui andavano a gara per ottenere i
forestieri, fra’ quali gl’Inglesi; ed in Venezia poi ottenne il nome di
Luca di cà Zenobio, poiché questa patrizia famiglia gli assegnò nobile
appartamento nel proprio palazzo” (Moschini 1806).
“Quando va posto il viaggio romano? Abbiamo una data ante quem, cioè il
matrimonio che il Carlevarijs contrae a Venezia nel 1699, ma null’altro:
se si considera che tale matrimonio presuppone un meditato reinserimento
nella vita lagunare, l’opinione del Buscaroli (1935), di porre tale
viaggio tra il 1685-90, è plausibile e convincente. Ed è verosimile che
in quell’occasione Luca si sia fermato anche a Firenze e a Bologna, come
avvertono la pluralità delle sue fonti ispirative e l’affermazione del
Guarienti [1753].
Dunque, allo spirare del secolo XVII, il Carlevarijs convolò a giuste
nozze, impalmando la figlia dell’orefice Bastian Succhietti, di nome
Giovanna. Gli fu testimone il conte Pietro Zenobio, appartenente
all’omonimia famiglia che gli offrì larga protezione, procurandogli il
soprannome di Luca da Ca’ Zenobio. Non è azzardato pensare che il
viaggio in Italia centrale sia stato favorito dai suoi mecenati, coi
quali dovette avere precoci consuetudini d’affetto, dato che la sua casa
era a pochi passi dal palazzo Zenobio e che i nomi dei suoi sostenitori,
e quelli di altre famiglie nobiliari, ricorrono anche successivamente,
in occasione del battesimo dei figli. Pochi mesi dopo la nascita
dell’ultimogenita, gli venne a mancare la moglie, appena ventisettenne.
Nel 1703 il Carlevarijs pubblicò la monumentale raccolta di acqueforti
de Le fabriche, e vedute, che segnano l’inizio di una nuova stagione
della sua attività artistica e di autorevoli commissioni: come quelle di
Stefano Conti (1704), collezionista e uomo d’affari di Lucca, del conte
di Manchester (1707), del re di Danimarca (1709), e tante altre” (Rizzi
1967).
Iscritto alla Fraglia dei pittori veneziani dal 1708 al 1713, quindi dal
1726 al 1728 (Favaro 1975), dominò con una vasta produzione di Vedute e
Capricci il mercato veneziano fino al volgere del secondo decennio del
1700, ovvero “finché fu superato dal suo discepolo Antonio Canal
[Canaletto]. Fama è anzi che del dolore egli ne morisse” (Moschini
1806).
Luca Carlevarijs fu colpito nel 1728 da una paralisi progressiva che lo
condusse alla morte il 12 febbraio del 1730.
Una delle sue figlie, Marianna, divenne pittrice alla scuola di Rosalba
Carriera.
“Non ha avuto positivo Maestro, ma
ha studiato or qua or là. In piccolo, in porti di mare, e in paesini con
vaghe figure dipinti, si portò tanto bene, che merita se ne faccia degna
memoria” (Guarienti 1776).
Bisogna innanzi tutto premettere che la critica recente ha ormai
dimostrato come il clima culturale e pittorico della vivacissima Venezia
del tempo poteva aver influenzato l’artista tanto quanto un giovanile
viaggio a Roma.
“Nel campo della veduta ideata (con porti di mare, ruderi antichi,
costruzioni medioevali ecc.), il soggiorno a Venezia di Johann Anton
Eismann, tra il 1685 ed il 1700, costituisce l’antefatto per il gusto
del Carlevarijs in questo genere. La conferma del rapporto tra il
giovane pittore ed il maestro di Salisburgo, come ha provato l’Antoniazzi
Rossi [1977], viene dalla citazione, nell’inventario della collezione
del maresciallo Mattias Johannes von der Schulenburg, di dipinti
rappresentanti «delle vedute marine con dei velieri, un castello e delle
piccole figure», citate come opere di «Isman, e le figure di Carlevari».
Quale autore di macchiette, il Carlevarijs doveva aver riportato dal suo
viaggio romano il ricordo dei «bamboccianti», come pure, in tutt’altro
campo, deve aver fatto conto degli esempi vedutistici, inappuntabili
prospetticamente ma pittoricamente vuoti, di Gaspar Van Wittel (Vanvitelli),
che nel 1694, durante la sua tournée nell’Italia del nord aveva visitato
Venezia (la sua Veduta del bacino di San Marco del Museo del Prado è
datata 1697). Il Moschini (1806) non aveva mancato di citare nella
formazione del friulano un altro elemento, quello del Cavalier Tempesta,
a Venezia dal 1697 al 1700, che era il tramite di una concezione
paesistica legata ai modi di Gaspare Dughet e di Salvator Rosa” (Pallucchini
1994).
“Prima di Marco Ricci, che gli è di tredici anni più giovane, Luca
Carlevarijs [...] dà l’avvio ad un nuovo genere pittorico del paesaggio:
un paesaggio fantasioso fatto di rovine romane frammiste ad architetture
di città e castelli, con porti pieni di navi e affollati di gente” (Morassi
1950).
“Ma quella che ci interessa è la sua opera di creatore della veduta
Veneziana, sia in pittura che in acquaforte. Creazione fatta con una
personalità così forte e sicura che, attraverso il suo sommo allievo
Canaletto ed i suoi continuatori fino ai primi dell’800, le composizioni
sue si ripetono quasi immutate nel taglio e perfino nelle disposizioni
delle figure” (Mauroner 1931).
"Il suo passaggio dal paesaggismo al vedutismo è segnato dalla
realizzazione della raccolta di 104 incisioni intitolata Fabriche, e
Vedute di Venetia, data alle stampe nel 1703, ma frutto di un lungo
lavoro preparatorio che deve aver impegnato l'artista per qualche anno,
e dall'esecuzione di una serie di tele raffiguranti solenni ingressi di
ambasciatori stranieri, venuti a presentare le proprie credenziali al
governo della Serenissima" (Pedrocco 1995).
Nell'opera incisoria, "che costituisce il presupposto basilare per lo
svolgimento del vedutismo veneziano, l’attenzione dell’artista è rivolta
non solo agli edifici sacri e civili di maggior richiamo, postulando in
questo senso una scelta critica, ma anche ad inscenature di più largo
raggio visivo, inglobanti gruppi di costruzioni colte nel loro ambiente
particolarmente pittoresco, dove i cieli, specchiandosi nelle acque,
suggeriscono scenografie di valore dinamico ed arioso” (Pallucchini
1994).
“Innovatore nel genere paesaggistico e riconosciuto capostipite dei
vedutisti veneziani del Settecento, Carlevarijs rappresentò la sua città
d’elezione con fedeltà documentaria, non solo valendosi delle sue
cognizioni matematiche nel campo della prospettiva e dell’architettura,
o di mezzi meccanici come la camera ottica, ma soprattutto partecipando
con più pronta cordialità allo spettacolo della realtà visibile [...].
Questa sua innata propensione realistica si manifesta in maniera
esemplare nelle scelte e nel trattamento delle macchiette. Si tratta di
presenze vive e reali, circolanti in piena libertà nell’ambiente
architettonicamente definito e paesaggistico” (Reale 1982).
“Alla metà del terzo decennio del secolo dovrebbe appartenere un gruppo
di opere in cui è visibile l’intervento di collaboratori, soprattutto
nelle macchiette, che assumono un andamento più sofisticato e rocaille.
Di chi può essere questa mano? Su basi congetturali e a titolo di
esperimento proporrei il nome della figlia del Carlevaijs, Marianna, che
nasce nel 1703: le sue testimonianze pittoriche sono molto scarse, ma
sufficienti ad indicare una spiccata simpatia per i modi
«internazionali» e «mondani» della Carriera, interpretati in chiave
realistica, sotto lo stimolo paterno. Ed è proprio questo spirito, di
rinuncia alla dimensione umana e alla carica individuale delle figure
per una stesura più anonima e decorativa, che caratterizza una silloge
di vedute tarde di Luca, peraltro vitalizzate dalla sua intelligente
regia” (Rizzi 1967). Comunque sia, il suo unico allievo non “ideale” fu
lo svedese Johann Richter (Stoccolma 1665 - Venezia 1745), la cui
presenza a Venezia s’inserisce “tra la piena maturità di Carlevarijs e
il nascente astro di Canaletto, prima della cui piena affermazione
Richter seppe conquistarsi un posto nelle collezioni locali e anche in
quelle degli stranieri di passaggio per Venezia” (Reale 1994).
In conclusione con Carlevarijs “s’impone a Venezia un genere vedutistico
che diverrà di facile consumo specialmente tra gli stranieri in visita
turistica, secondo la moda del tempo. Come è noto, era consuetudine
della nobiltà inglese fare un viaggio nel Continente; nel «gran tour»
era di prammatica la visita in Italia” (Pallucchini 1967).
Daniele D'Anza (2005)
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Giovanni Battista
Cimaroli (Salò 1687 – Venezia 1771)
Gli scarsi studi su
Giovanni Battista Cimaroli, tra i quali si segnalano il fondamentale
saggio di Antonio Morassi (1972) e il capitolo riassuntivo di Rodolfo
Pallucchini (1996, pp. 292-297), si sono recentemente arricchiti dei
contributi di Ugo Ruggeri (1999) e di Federica Spadotto (1999) che hanno
consentito di meglio lumeggiare la figura di questo petit-maître
specialmente per quanto concerne il periodo iniziale della sua attività.
Nato a Salò nel 1687 Cimaroli, secondo la testimonianza del
contemporaneo Pietro Guarienti (Orlandi, Guarienti 1753, p. 272),
«studiò in Brescia la pittura sotto Antonio Aureggio, e Antonio Calza
pittori paesisti, e lavorò per commissioni venutegli dall'Inghilterra, e
da altre città lontane, che gradivano i suoi dipinti. Vive a Venezia».
Dopo un soggiorno a Bologna dal 1711 al 1713, l'artista si trasferì a
Venezia nell'estate dello stesso anno per sposarsi con Caterina Pachman,
una sconosciuta pittrice di genere, come risulta dagli inventari
Schulenburg (Binion 1990, p. 213). Nel 1726 Cimaroli doveva essere un
artista già affermato perché in quell'anno venne chiamato a collaborare
- nella parte relativa agli alberi - alla nota serie di quadri con le
Tombe allegoriche di illustri personaggi britannici commissionati da
Owen McSwiny mentre ad altri maestri (Canaletto, Pittoni, Piazzetta,
Balestra, Valeriani, Mirandolese) fu affidata la stesura delle figure e
degli elementi architettonici (Mazza 1976). In queste curiose opere,
osservava Morassi (1972, p. 167), «non è difficile individuare il
carattere dell'arte del Cimaroli, osservando i tronchi alti, i rami
allungati, il fogliame ben delineato con fare meticoloso, le foglioline
distaccate; e la prospettiva aerea digradante in successioni sempre più
trasparenti e leggere. Una volta afferratolo, questo "stile" salta agli
occhi e chi... ha memoria non lo dimentica facilmente». Le uniche
notizie rimasteci sulla lunga permanenza dell'artista nella città
lagunare riguardano l'iscrizione nella Fraglia dei pittori veneziani dal
1726 al 1737 (Favaro 1975, p. 159), la nascita di due figli nel 1722 e
nel 1725 (come risulta dai registri della Parrocchia di Santa Maria
Zobenigo dove abitava) e la morte avvenuta il 12 aprile 1771 (Spadotto
1999, p. 137, note 17, 20). Un interessante accenno all'attività di
Cimaroli è contenuto nella lettera del 14 luglio 1725 scritta da Venezia
da Alessandro Marchesini al collezionista lucchese Stefano Conti (Succi,
Delneri 1993, p. 338), nella quale si menziona un «virtuosissimo pittore
paesista» le cui opere «sono in grandissima stima qui, e in Londra, che
presentemente opera per questi Signori inglesi ed è pittore di molto
prezzo, ma una maniera assai terminata». Questo paesista molto affermato
va identificato nel Cimaroli, come risulta da una annotazione in calce
alla stessa lettera in cui il nome è storpiato in Cingheroli".
interessante notare come Marchesini, in risposta alla richiesta di
commissionare a un artista veneziano un quadro che potesse fare da
pendant a un paesaggio di Francesco Bassi detto il Cremonese già
presente nella galleria di Stefano Conti, offrisse al collezionista
lucchese la possibilità di scegliere tra Cimaroli e Marco Ricci anche se
le sue preferenze andavano chiaramente a Ricci, qualificato come
eccellente «pittore
[...]
maraviglioso per far vedute, bizzarri siti di fabbriche al gusto di
Pussin con colorito spiritoso, e lucido che incanta». Per Marchesini la
»maniera assai terminata» dei dipinti di Cimaroli era evidentemente
intesa come un limite, mentre l'acquisto dei paesaggi ricceschi avrebbe
reso la galleria Conti «di un gusto non più veduto». E in effetti
l'incarico venne conferito a Marco Ricci, come risulta dalla successiva
lettera del 21 luglio 1725 (ibidem) in cui l'agente afferma che era
venuta meno l'opportunità di contattare anche Cimaroli: «Non parlo altro
dell'altro virtuoso Cigneroli giacché il Sig. Ricci lo conosco più
capace e di maggior stima». Alla fase iniziale dell'ancora oscuro
itinerario artistico di Cimaroli appartengono le sorprendenti «varie
scene di chiostro monacale» descritte da Fenaroli nel Dizionario degli
artisti bresciani (1877, p. 102), due delle quali sono state ritrovate
da Spadotto (1999, p. 138). I dipinti, databili intorno al 1710, già
denotano, pur nella diversità del genere, la peculiare propensione
dell'artista per l'accurata resa dei dettagli e per la fresca bonomia
delle ingenue figurette. La notorietà di cui dovette godere Cimaroli è
confermata dal fatto che i suoi dipinti figuravano nelle più importanti
collezioni veneziane di artisti contemporanei. Joseph Smith possedeva
almeno sei quadri del pittore salodiano, che furono venduti insieme alle
sue raccolte nel 1762 a Giorgio III; di quel gruppo restano nella Royal
Collection solo tre tele ovali di mediocre qualità, acquistate
probabilmente negli anni venti, prima che il raffinato conoscitore
avesse avuto modo di apprezzare la succosa e spumeggiante maniera di
Zuccarelli (Levey [1964(b)] 1991). La galleria Schulenburg annoverava un
tipico pendant con «Paesi con animali e acque», acquistato il 9 marzo
1731 per venti zecchini (Binion 1990, p. 137) che non doveva essere
molto diverso dall'inedito Paesaggio fluviale con borgo antico e
cavalieri, vagamente ispirato alla bella acquaforte di Marco Ricci
raffigurante un Villaggio con traghetto sul fiume (Succi, Delneri 1993,
p. 313). Nella stessa collezione si trovavano tre vedute di Venezia, e
precisamente una «Prospettiva delle Zattere», acquistata 18 febbraio
1736 per 20 zecchini e una coppia di vedute con la Dogana e la chiesa
della Carità, per la quale era stata sborsata la notevole somma di 50
zecchini il 12 luglio 1736 (Binion 1990, pp. 137, 147, 151). Cimaroli fu
infatti anche un apprezzato vedutista, ma la sua maniera appare
sostanzialmente tesa all'imitazione dei modelli canalettiani, come
ricordava ben a proposito nel 1736 il conte Charles de Tessin in una
lettera spedita da Venezia a Stoccolma: «Cimaroli peint dans le même
gout [del Canaletto], mais n'est pas encore arrivé au bout de l'échelle,
du reste gaté par les Anglais qui out imaginé que le plus petit de ses
tableaux vaut 30 sequins» (in Sirèn 1902, p. 104). Tra le vedute di
Cimaroli va ricordato il capolavoro raffigurante La caccia dei tori
del 16 febbraio 1740 in piazza San Marco in onore del principe di
Sassonia Federico Cristiano che, come ho già avuto modo di osservare
(Succi, Reale 1994, p. 282), costituisce un importante punto di
riferimento nella scarsamente documentata produzione cimaroliana e
un'eccezionale testimonianza iconografica nella storia dell'arte
veneziana del Settecento.
Ben presto il pittore
si specializzò nella pittura di genere (paesaggio e veduta) maturando
quello stile definito e meticoloso che si esprime nella descrizione
accurata degli alberi, delle figure ben caratterizzate di contadini,
nobili e borghesi, del bestiame dall'andatura placida e sonnolenta. La
varietà dei paesaggi cimaroliani è sostanzialmente riconducibile a un
repertorio tipico di temi arcadici, talvolta frammisti a rovine
classiche o a ville, boschetti, villaggi rustici collocati ai bordi di
amene fiumane.
Particolarmente piacevoli sono i dipinti ambientati in paesaggi che
ricordano la riviera del Brenta, talvolta animati da processioni e sagre
paesane inserite in curiose invenzioni a capriccio nelle quali l'acqua
smeraldina del fiume si snoda tra sontuosi palazzi, chiese
rinascimentali e umili casette che compongono un aggraziato bouquet
che accomuna nobiltà, borghesia e popolo in una sorta di convivenza
spensierata nel placido fluire del bel tempo antico.
Mentre nelle vedute
Cimaroli si ispira alla maniera di Antonio Canal, nei paesaggi i
riferimenti oscillano tra Marco Ricci e Francesco Zuccarelli, che dalla
natia Toscana si era trasferito a Venezia nel 1732. Le suggestioni della
natura arcadica zuccarelliana, è privata però del sostanzioso
pittoricismo e connotata da un impasto materico sottile e liscio,
elementi che caratterizzano larga parte della produzione del salodiano
già resa nota dai vari studiosi - meno consueto è il richiamo alla
grande arte riccesca. Talora il Cimaroli fonde in maniera magistrale le
suggestioni riccesche e zuccarelliane. Molto rara - nei dipinti
cimaroliani e già segnalata da Ruggeri con riferimento a un pendant
conservato in una collezione privata inglese (1999, p. 274) è la
collaborazione con Francesco Fontebasso. Pittore gradevole,
Francesco fu attento a soddisfare le esigenze di un collezionismo
internazionale che richiedeva quadri piacevoli, luminosi e rifiniti con
cura.
Dario Succi
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Gaspare Diziani
(Belluno 1689 - Venezia 1767)
DIZIANI, Gaspare -
note biografiche
Nato a Belluno nel
1689 e morto a Venezia nel 1767, Gaspare Diziani si trasferì all'età di
venti anni nella città lagunare dove, dopo una breve frequentazione
della scuola di Gregorio Lazzarini, fu allievo di Sebastiano Ricci
restando affascinato dal cromatismo luminoso e dalla raffinata
sensibilità rococò del conterraneo. Nel 1717 l'artista, al seguito dello
scenografo Alessandro Mauro, si trasferì a Dresda dove rimase per tre
anni operando «con molta sua gloria» nei teatri di quella città al
servizio di Federico Augusto, principe elettore di Sassonia (Temanza
[1738] 1963, p. 13). Rientrato nel 1720 a Venezia - risulta infatti
iscritto nei registri della Fraglia per quell'anno - Diziani fece
qualche anno dopo un viaggio a Roma «per servire l'Illustre Cardinale
Ottoboni in un magnifico apparato in san Lorenzo in Damaso, terminata la
qual operazione volle di bel nuovo trasferirsi a Venezia, quantunque
l'appoggio di così Celebre Porporato potesse essergli di gran giovamento
in quele parti» (ibidem). Pittore estremamente versatile e attivissimo,
dotato di una «esuberante facoltà creativa che in guisa di pieno
torrente dilatò la sua spiritosa fantasia, con inventare, e colorire,
coprendo tele grandissime per Chiese, e Palazzi» (Alessandro Longhi,
1762), l'artista passò disinvoltamente dalla decorazione teatrale
all'affresco, dai dipinti da cavalletto con soggetti sacri o mitologici
alle pale d'altare, non disdegnando di cimentarsi con la scena di genere
ambientata entro ameni sfondi paesistici di gusto vagamente riccesco.
Zugni Tauro (1971, figg. 142-150) ha attribuito all'artista vari dipinti
in collezioni private raffiguranti feste e zuffe di contadini, bivacchi
militari, conversazioni all'interno di una stalla, caratterizzati da un
realismo rusticano da cui prenderà le mosse il figlio Antonio per un
nuova e schietta interpretazione della natura e del paesaggio. Ma più
che in queste tele, che Pallucchini (1996, p. 102) giustamente
qualificava come «realizzate con modi pittorici sgraziati e violenti» e
che andrebbero, a mio avviso, restituite alla mano del poco dotato e
conosciuto figlio Giuseppe, Gaspare Diziani eccelse in alcune bellissime
opere raffiguranti assalti e combattimenti di briganti ambientati entro
suggestivi paesaggi prealpini.
Un altro aspetto poco
approfondito della tematica dizianesca è quello del vedutismo, di cui
l'unico esempio finora conosciuto era costituito dalla grande tela (167
x3 29 cm.) raffigurante La sagra notturna di Santa Marta
conservata nel Museo di Ca' Rezzonico. La festa popolare, che si
svolgeva d'estate sul canale della Giudecca, diventa pretesto per una
composizione scenografica che si avvale di una miriade di corpose
"figurette" e di una moltitudine di imbarcazioni in pittoresco
disordine. Nel suggestivo notturno dello splendido panorama lagunare,
sotto il cielo mosso da nuvole grigio-argentee, la composizione si snoda
scenograficamente a sinistra con la sequenza di palazzi verso la punta
estrema dell'isola della Giudecca, chiusa dall'antichissima chiesa dei
Santi Biagio e Cataldo. Al centro, la deliziosa isola di San Giorgio in
Alga con il campanile aguzzo spunta solitaria dalle acque mentre più in
là, sorvegliato dalle case di Lizza Fusina immerse nel verde, il fiume
Brenta sbocca nella laguna circondato dai dolci profili montani.
L'attribuzione di questa veduta, proveniente dal fondo Correr (1830), a
Gaspare Diziani risale agli antichi inventari (Lazari 1859) e non è mai
stata posta in discussione, come pure la datazione intorno al 1750
proposta da Zugni Tauro (1971, p. 94) basata essenzialmente su elementi
stilistici, cioè sulle finezze e trasparenze atmosferiche che sarebbero
«tipiche del Diziani dell'ultimo periodo». Proprio per tale motivo
ritengo preferibile una datazione più avanzata, tra il 1755 e il 1760.
Quel che interessa rilevare è che questa veduta, costruita con una
disinvoltura che presuppone precedenti esperienze specifiche, non
costituisce come si è finora ritenuto - un unicum nella
produzione del maestro bellunese. L'aggiunta del genere vedutistico alla
cospicua e variata produzione pittorica di Diziani conferma le sue doti
di virtuoso del pennello, di artista appassionato e attento - con
eccezionali capacità assimilatrici - alle più diverse maniere espressive
dei grandi e piccoli maestri del gusto figurativo barocco e rococò.
Gianfrancesco Costa, scenografo,
architetto, incisore e pittore, nasce a Venezia nel 1711. Fu allievo
di Girolamo Mengozzi Colonna, famoso decoratore di prospettive
architettoniche, insieme al quale lavorò come scenografo per il
teatro San Giovanni Grisostomo a partire dagli inizi degli anni
Trenta. Il suo nome compare nei registri della fraglia veneziana dal
1734 al 1771 (Favaro 1975, p. 159). Nel 1742 si trasferì a Torino
per collaborare con Giovanni Battista Crosato nelle scenografie per
il Teatro Regio. Nel carnevale del 1743 i due artisti allestirono le
scenografie del Caio Fabrizio (Zeno-Auletta) e del Tito
Manlio (Metastasio-Jommelli). Dopo un rientro a Venezia,
l’artista, su invito del nuovo direttivo del Teatro Regio, ritornò a
Torino nel 1744 per dipingere le scene del Poro (Metastasio-Gluck)
e de La conquista del vello d’oro con musica di Sordella
(Viale Ferrero 1980, p. 521). A quegli anni risalgono la prima serie
di dieci incisioni di soggetto archeologico – di cui una datata 1743
– intitolata Rovine d’archi templi terme anfiteatri sepolcri et
altri edifizzi sul gusto antico “nella quale l’artista ci offre
una elegiaca rievocazione dell’antichità senza indulgere al
capriccio pittoresco” (Dillon 1984, p. 201). Nel 1746 apparve a
Venezia, presso l’editore Pasinelli, una riedizione del trattato
Delli cinque ordini di architettura di Andrea Palladio Vicentino
illustrata da Costa, autore della decorazione del frontespizio e di
cinque vignette ornamentali. Nel 1747 venne pubblicato, presso
Pasquali, il volumetto Elementi di prospettiva esposti da Gian
Francesco Costa architetto e pittore veneziano, adorno di
ventidue graziose tavole illustranti le tecniche prospettiche. Il 6
gennaio 1747 l’artista chiese al Senato la concessione del
privilegio privativo per quella che sarebbe divenuta la sua opera
più celebre Le Delizie del fiume Brenta, comprendente 140
tavole con 136 vedute. Nella supplica si evidenziava che l’opera
sarebbe stata “faticosissima e dispendiosissima, che avrebbe
richiesto incredibile fatica di tempo per la esattezza delle misure
per le quali si sarebbe resa necessaria la sua continua assistenza”
(Gallo 1941, p. 168). Il Senato concesse il privilegio ordinario
decennale il 21 marzo 1747. Verso il 1748-1749 appresso l’autore
venne pubblicata la prima edizione del primo tomo con settanta
tavole illustranti i palazzi e i casini lungo le rive del placido
corso d’acqua che nel Settecento era considerato come un
prolungamento del Canal Grande. L’itinerario inizia con la Veduta
di Lizza Fusina dove il Fiume Brenta sbocca nella Laguna di Venezia,
caratterizzata da una notevole ariosità atmosferica, concludendosi
con la Veduta del Palazzo del N.H. Farsetti. Nel 1756 vene
ultimato il secondo tomo con vedute da Dolo fino alla porta Portello
di Padova. Nel 1751 incise il curioso foglio La vera
configurazione della Femina Rinoceronte veduta in Venezia […].
Nello stesso anno Costa riprese una intensa attività scenografica
per il teatro San Samuele, come risulta documentato dai libretti
delle opere rappresentate tra il 1751 e il 1755 (Dillon 1984, p.
202). Come architetto progettò, su incarico della famiglia Grimani,
proprietaria anche dei teatri San Samuele e San Giovanni Grisostomo,
il nuovo teatro di San Benedetto che venne edificato tra il 1755 e
il 1756 e per il quale curò le scenografie per varie opere eseguite
tra il 1756 e il 1759. Nel 1760-1762 lavorò per il teatro Sant’Angelo;
nel 1763-1764 di nuovo per quello di San Samuele. In data 4
settembre 1765 Pietro Gradenigo annotava che il re di Polonia aveva
chiamato alla propria corte l’artista veneziano per la fama di
“Ingegnere Teatrale, e valevole di molto merito in tale professione”
(Livan 1942, p. 123). Rientrato in patria, ottenne nell’aprile del
1767, dopo una accanita disputa con Antonio Visentini, la cattedra
di Architettura civile e militare all’Accademia di Venezia,
mantenuta fino al 1771 quando fu costretto a dimettersi per ragioni
di salute. L’artista morì a Venezia il 12 ottobre 1772: solo in data
30 novembre 1772 nei Notatori di Gradenigo venne registrato che
“nella contrada S. Gio: Grisostomo la invidiosa morte assalì il
Sig.r Francesco Costa, valoroso Pittore Teatrale e che seppe
sostenere perfettamente l’Arte e la virtù della propria professione”
(Livan 1942, p. 228). Oltre alle stampe sopra menzionate, l’attività
acquafortistica di Costa comprende: tre minuscole scenografie
architettoniche risalenti all’inizio degli anni quaranta (schede nn.
1-3); una serie di quattro grandi fogli, di cui uno datato 1748,
tradizionalmente denominata Suite des plus célèbres anciens
bâtiments des Grecs; una serie di dodici incisioni archeologiche
Aliquot Aedificio ad Graecor. Romanorumque Morem extructorum
Schemata […], pubblicata tra il 1767 e il 1771 quando svolse
l’incarico di professore di architettura all’Accademia di Venezia.
Spettano a Mason (1977, 1979, 1991) i più importanti contributi per
la ricostruzione degli stati delle acqueforti “archeologiche”.
Recentemente (Nessi 2005, nn. 25-32) sono state attribuite a Costa
otto tavole di anamorfosi, facenti parte di una serie numerata fino
a dodici, la cui autografia – per la singolarità dei soggetti e
della tecnica esecutiva – resta in attesa di conferme.
“Come pittore paesista o vedutista,
scriveva Pallucchini (1960, p. 212), il Costa è ancora ignoto agli
studi”. L’incertezza si è protratta fino a poco tempo fa, essendo
fallito il tentativo di Hermann Voss (1971) di attribuirgli alcuni
paesaggi ispirati alla riviera del Brenta, rivelatisi opere di Giovanni
Battista Cimaroli. Le due piccole tele con cortili interni (Museo
Civico, Padova), assegnate a Costa da Bassi Rathgeb (1964, pp. 87-90)
sulla base di un disegno del Museo di Budapest recante in calce la
scritta Costa F. (Fenyö 1965, p. 47, fig. 58), sono probabilmente
bozzetti collegati alla produzione teatrale (Banzato 1988, p. 165). Le
due tele, a giudizio dello scrivente, sono databili alla fase estrema
per quel gusto guardesco che aveva indotto Gino Damerini (1912, p. 60)
ad attribuirle a Francesco Guardi. Una interessante serie di quattro
tele polilobate con vedute della riviera del Brenta, passata in vendita
da Semenzato, Venezia (19 settembre 1993, n. 29) con l’attribuzione a
Cimaroli, avallata da Filippo Pedrocco (A.A. V.V. 1996, pp. 104-109), è
stata restituita a Costa dallo scrivente sulla base di riscontri
stilistici e iconografici (Succi 2003, pp. 96-101). La piacevole serie
ci fa finalmente conoscere la maniera di dipingere di Costa,
caratterizzata da una tavolozza tendenzialmente algida, un’ariosità
compositiva e un vivace gusto cronachistico sugli esempi di Carlevarijs
e Marieschi.
Gli studiosi che si sono occupati
delle incisioni di Gianfrancesco Costa hanno considerato quasi
esclusivamente la serie delle Delizie del fiume Brenta, le
cui edizioni furono oggetto di una prima concisa catalogazione ad
opera di Mauroner (1940-II, pp. 473-476) che definì l’artista
“geniale e colto”. Lo studioso prese le distanze da quanti avevano
qualificato Costa come “un modesto imitatore di Canaletto” o
addirittura “un prospettico freddo che nella storia delle belle arti
entrò di frodo”, le cui incisioni sarebbero “opera di meccanico
esercizio in signoria di riga e squadra, senza calore e vivacità,
con segno incerto e ingenuo, e crudezze chiaroscurali da dilettante”
(Delogu 1930, p. 157). Calabi (1931, p. 16), con giudizio più
meditato, sostenne l’influenza esercitata dalle luminose acqueforti
di Antonio Canal su quelle realizzate da Costa con finezza e libertà
di tratto, apprezzabili per la nitidezza del segno e per la tonalità
limpida e chiara: “Manca loro, però, la maestria del Canaletto nella
composizione e nel disegno e il suo vigore nel chiaroscuro”. Spetta
a Pittaluga (1939) un’ampia analisi critica delle vedute del Brenta
che rivelano nell’autore “attraverso il paziente e vasto lavoro, uno
statod’animo così compiaciuto, un desiderio così sincero di fissare
l’agreste letizia dei luoghi e degli edifici, un’ansia così ingenua
d’attenuare il programma documentario con elementi decorativi e di
restare tuttavia fedele al programma, che l’opera se ne vivifica
tutta […]. Le acqueforti del Costa sono tutte risonanti di voci
canalettesche: i cieli che s’abbassano sulla scena, corsi da linee
parallele, sono i cieli di Antonio Canal resi con mano più greve e
quindi meno permeabili alla luce; le acque, a piccoli tagli falcati,
sono pur esse suggerite dallo stesso modello, anche se il gioco dei
riflessi, in queste del Costa, è più spento e non sempre desta
vibrazioni all’intorno; le case, che presentano al sole le bianche
facciate, rivelando, attraverso sottilissimi gruppi di tagli, le
crepe e le macchie dei vecchi intonaci, vogliono ripetere,
nonostante l’esattezza dei limiti che accentua singolarmente con
effetto cubistico gli spigoli, le case assolate del Canaletto;
canalettesco è anche il rapporto fra paesi e figure. Poche, sparse,
le figure, rese con la stessa amorosa, vivace cura con cui sono resi
gli animali, gli alberi, le rive, gli approdi”. Anche se
l’appassionata descrizione dei valori estetici delle acqueforti di
Costa appare ricca di elementi suggestivi, non si può tuttavia
condividere la tesi della studiosa (divenuta poi un luogo comune) di
una dipendenza diretta dalle incisioni canalettiane perché
contraddetta da ineludibili ragioni cronologiche e stilistiche. La
tecnica incisoria di Costa non ha nulla in comune con quella di
Antonio Canal, il cui personalissimo fraseggio grafico, denso e
vibrante, è caratterizzato da una grande varietà e complessità di
accenti diretti, più che a descrivere, a creare forme allusive,
capaci di suggerire vibranti effetti chiaroscurali. Il linguaggio di
Costa è semplice, corsivo, estemporaneo, legato ad una realtà
topografica resa nella sua genuina freschezza: le rive del placido
fiume pulsano della vita, delle persone e degli animali, che si
svolge serenamente nel più veneto dei paesaggi. La luminosità
diffusa, priva di forti contrasti chiaroscurali, sembra avere
piuttosto qualche affinità con quella, tersa e cristallina, delle
vedute di Antonio Visentini pubblicate nel 1742 nell’edizione
completa Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores. Anche se
l’intento principale di Costa è la resa documentaria delle ville e
dei palazzi che si affacciano sul corso d’acqua, l’artista non
rinuncia a cogliere “con spigliatezza e grazia, le architetture
minori e gli elementi di contorno e di ambientazione paesaggistica
che vivono attorno alle lussuose costruzioni, e su questi costruisce
quel clima sospeso e incantato di serena esistenza che emana dal
fiume. È infatti il Fiume l’incontrastato, unico protagonista che
vivifica le cose e i personaggi tra terra e acqua, sulle due rive;
il mondo faticoso ma apparentemente felice della povera gente e
quello, in villeggiatura, spensierato e raffinato dei nobili, ed
entrambi li riassorbe in immagini pulsanti di vita dove si legge
l’armonia del patto tra l’uomo e la natura” (Tonini 1996, p. 83).
L’impegno di illustrare in una lunga, serrata sequenza di immagini
le residenze patrizie sulle rive del Brenta è stato risolto con
squilibri qualitativi innegabili. Mentre in un nutrito gruppo di
tavole del primo tomo l’artista immerge gli elementi paesaggistici,
resi con tratti leggeri, in un ambiente vivo, solare, vibrante di
riflessi, in quasi tutte le vedute del secondo tomo (le uniche,
incomprensibilmente, considerate da Pittaluga) gli edifici, chiusi
entro contorni troppo netti, sono collocati in una dimensione
vagamente surreale tra cieli e acque resi con monotoni tratti a
pettine di un effetto raggelante. La discontinuità stilistica rende
plausibile l’ipotesi, formulata da Mason (1979, p. 16),
dell’intervento di aiuti. Si può immaginare che l’artista, provato
da un lavoro gravoso protrattosi per oltre un decennio e, dal 1751
al 1755 impegnato anche nell’allestimento delle scenografie per il
teatro San Samuele, decidesse di accelerare il completamento
dell’opera eseguendo alcune lastre per intero, limitandosi in altre
all’impostazione generale e all’esecuzione delle figure, giovandosi
per il completamento di un collaboratore. L’ariosità del tratteggio,
prossimo ai migliori fogli delle Delizie, che caratterizza le dodici
stampe dell’ultima serie Aliquot Aedificio […], databile intorno al
1767 (schede nn.158-169), sembra confermare – dimostrando
l’inesistenza di una involuzione stilistica nella fase estrema –
l’accennata ipotesi. Osservava Pallucchini (1941, p. 45) che Costa,
“da buon prospettico, tien d’occhio costantemente l’impaginazione
della veduta, dove la parte maggiore è data naturalmente agli
edifizi che deve descrivere, ma senza sforzare la prospettiva, bensì
sciogliendo tale esigenza in una atmosfera pittorica, dove gli
effetti di luce danno vita all’assieme della veduta”. Per Guido
Piovene (1960, p. 7), che poneva a confronto le tavole di Coronelli,
preziose per il valore documentario, con quelle delle Delizie, Costa
“è un paesista, un pittore d’atmosfere; più che le ville ritrae i
luoghi dov’esse sono immerse, raggiunge effetti di poesia evocativa.Il
cielo delle sue incisioni non è un cielo qualunque, ma quello veneto
sul margine tra pianura e Laguna. Ci riporta al momento,
disgraziatamente breve, il più bello e illusorio, in cui la natura e
la vita cominciano a riassorbire ed a macerare in se stesse le
architetture umane, ma la macerazione è appena agli inizi. Le cose,
in quel momento breve, non sembrano decomporsi, ma liberarsi verso
qualche cosa di più, interamente nuovo: prendono un’animazione, un
brio, che non avevano quando erano intatte.” Paolo Tieto (1986, p.
19) ha evidenziato come Costa abbia lasciato “una straordinaria
testimonianza della civiltà del suo tempo, una fonte preziosa per
studi e ricerche d’ambiente, di vita, di costume”, riproducendo la
realtà ambientale in tante inquadrature “dove finezza di tratti e
poesia sono di un livello veramente straordinario”. Le acqueforti
raffiguranti Lizza Fusina, la chiusa dei Moranzani, la casa del
Dazio, l’osteria dei Sabbioni, Oriago, Mira Vecchia (un capolavoro
assoluto), i palazzi Marcello, Cornaro, Gradenigo, Grimani, Maruzzi,
Solari, Bembo-Valier, rientrano a pieno titolo tra quanto di più
fresco e genuinamente lirico è stato creato nel genere della veduta
a Venezia nel diciottesimo secolo. Esistono alcune pregevoli
edizioni in facsimile della raccolta delle Delizie: una pubblicata
nel 1974 dall’editore Bestetti di Milano con introduzione di
Giuseppe Mazzotti; un’altra, con introduzione e note illustrative di
Paolo Tieto, apparsa nel 1986 a cura delle edizioni Panda di Padova.
Un’ulteriore edizione, limitata a 35 vedute messe a confronto con
quelle de La Brenta, quasi borgo della Città di Venezia […] di
Coronelli, curata nel 1960 da Il Polifilo, Milano, (ristampa:
Cremona, 1994) è intitolata Ville del Brenta nelle vedute di
Vincenzo Coronelli e Gianfrancesco Costa, con una introduzione di
Guido Piovene e noteillustrative di Licisco Magagnato.
Dario Succi
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Apollonio Domenichini
(Venezia,
1715 - 1765 ca.)
Apollonio Domenichini, Le Zattere con la chiesa
dei Gesuati. Baden/Schweiz, Museum Langmatt.
In un saggio
pubblicato nel catalogo della mostra Mythos Venedig tenutasi a Baden
(Succi 1994 [b], pp. 38-51), prendendo in esame la serie di tredici
vedute veneziane di autore anonimo conservate nella Fondazione
Langmatt Sidney e Jenny Brown di quella città, avevo osservato che
essa sembrava riconducibile a un artista operante sotto l'influenza
dell'arte di Michele Marieschi (1710-1743) o meglio del suo allievo
e alter ego Francesco Albotto (1721-1757). Questo artista che,
secondo la testimonianza di Pierre-Jean Manette usava definirsi «il
secondo Marieschi», sposò nel 1744 la vedova del maestro e subentrò
nella bottega continuando la produzione di vedute e di capricci in
uno stile strettamente aderente, con risultati tutt'altro che
disprezzabili. Questo artista fu uno dei più fecondi pittori attivi
a Venezia nel Settecento: oggi è possibile tranquillamente affermare
che sotto il suo nome si possono raccogliere non solo centinaia di
vedute di Venezia ma anche molte vedute di Roma, paesaggi di
fantasia e capricci architettonici. Da allora è derivato l'uso di
indicare l'anonimo artista, la cui produzione in passato veniva per
lo più attribuita a Marieschi, il Canaletto o Bellotto, con
l'epiteto di "Maestro della Fondazione Langmatt". Le sue tele
compaiono con grande frequenza sul mercato antiquario e sono
presenti in molti musei, dove sono schedate come "anonimo
canalettiano" o con le attribuzioni più varie da Marieschi ad
Albotto, fino al bistrattato Francesco Tironi. Il nome di
Domenichini è stato evocato per la prima volta nel Novecento da
Fabio Mauroner in un articolo apparso su «Arte Veneta» (1947, p.
49). Trattando della corrispondenza fra l'antiquario veneziano
Giovanni Maria Sasso e il ministro inglese John Strange, conservata
nella biblioteca del Museo Correr e risalente alla seconda metà del
Settecento, Mauroner osservava che il nome di Domenichini ricorreva
con notevole frequenza nelle vedute scambiate tra i due solerti
trafficanti. Da ciò egli aveva tratto la conclusione che l'artista
era tutt'uno con quel "Menichino" che Moschini all'inizio
dell'Ottocento (1806, p. 87) aveva indicato tra gli scolari di Luca
Carlevarijs. «Sarebbe molto interessante - concludeva -
rintracciare, nelle collezioni inglesi o americane, qualche lavoro
del Domenichini o firmato o portante, come allora si usava, il nome
dell'artista scritto sul telaio». Egidio Martini (2000, p. 159),
pubblicando alcune vedute veneziane e romane del Maestro Langmatt,
ha segnalato l'esistenza in vari musei e sul mercato antiquario di
numerose vedute stilisticamente omogenee per il modo caratteristico
di tratteggiare le onde con un sottile segno diritto. Martini ha
proposto di attribuire questi dipinti, sia pure in via provvisoria e
con un punto interrogativo, a Domenichini: «Tale ipotetica
attribuzione coinciderebbe anche con il fatto che esistono le opere
senza autore e l'autore senza le opere»; constatazione che condivido
pienamente anche considerando che nessun altro nominativo appare
fondatamente proponibile in via alternativa per questo misterioso
maestro. Pur nella totale mancanza di fonti documentarie sulle
vicende biografiche, già in passato avevo avanzato l'ipotesi che
l'attività di Domenichini fosse circoscrivibile approssimativamente
tra il 1740 e il 1770 sulla base dei riscontri topografici emergenti
da varie vedute.
Apollonio
Domenichini, risulta iscritto
per la prima volta nel registro della fraglia dei pittori veneziani
nell'anno 1757 (Favaro 1975, p. 158). Altre notizie si ricavano dal
Catalogo dei quadri dei disegni e di libri che trattano dell'arte
del disegno della galleria del Conte Algarotti in Venezia,
contenente la descrizione delle opere d'arte del conte Bonomo
Algarotti. Pubblicato a Venezia dopo il 1776, il catalogo contiene,
alle pagine VIII e XI, la preziosa informazione che «Domenichini
Apolonio [...] nacque in Venezia nel 1715». La notizia riveste
notevole importanza perché consente di collocare gli inizi
dell'attività, in maniera indipendente, intorno al 1740: non si
conoscono dipinti databili con certezza prima del quinto decennio. È
probabile che Domenichini svolgesse l'apprendistato presso un
vedutista attivo alla fine degli anni trenta, forse Michele
Marieschi nella cui bottega si era formato anche Francesco Albotto.
Nel Catalogo, la data di nascita non è seguita da quella della
morte, indicata per tutti gli artisti che risultavano deceduti, ne
dalla precisazione «vivente», utilizzata per chi nel 1776 era ancora
vivo, come per Giuseppe Moretti e Francesco Zuccarelli, ricordati
come «Veneziano vivente» e «Fiorentino vivente». Sembra quindi certo
che nel 1776 Apollonio Domenichini fosse morto perché nelle schede
del Catalogo l'uso del verbo al passato remoto — «nacque in Venezia
nel 1715» — viene riservato agli artisti defunti. Dobbiamo
concludere che Giannantonio Selva, compilatore del catalogo,
ignorasse l'anno della morte dell'artista, probabilmente avvenuta
intorno al 1765 perché le testimonianze pittoriche finora
conosciute, sulla base di elementi topografici, non vanno oltre il
1760.
Il conte Francesco Algarotti, la cui raffinata collezione di
dipinti, disegni e libri d'arte era stata ereditata nel 1764 dal
fratello Bonomo, possedeva una coppia di capricci paesistici di
Apollonio Domenichini e anche un disegno a penna di un capriccio
architettonico, schedato come Veduta di Architettura, che rimane
l'unica prova grafica documentata, andata dispersa. La coppia di
dipinti è descritta alla pagina VIII del Catalogo: «Magnifica Porta
con Ponte dinanzi, che dà ingresso ad una Città, le di cui mura sono
in parte diroccate, veggonsi alcune nobili fabbriche che
internamente sormontano, e nel di fuori vi sono gli avanzi di antico
edificio». Il pendant: «Suo simile. Veduta di una Villa con
grandiose e magnifiche fabbriche, parte delle quali sono distrutte,
e sul terreno vi sono molti rottami di cornici, vasi ed altro. In
tela, alti p. I onc. 3. larghi p. 2. onc. 2». La descrizione si
adatta perfettamente ad una coppia di capricci di gusto riccesco di
Michele Marieschi, pubblicata dallo scrivente (Marieschi 1989, p.
132), coincidente anche nelle misure (41 X 68 cm). Si può ipotizzare
che Domenichini avesse replicato, come spesso accadeva, i due
dipinti di Marieschi. Esistono infatti numerosi esempi di capricci
derivati da originali del maestro, come la serie di quattro dipinti
del Castello Sforzesco a Milano già ritenuti di Marieschi e
attribuiti alla «mano di uno stretto collaboratore» da Precerutti
Garberi (1968, p. 43). La studiosa aveva rilevato il divario
qualitativo rispetto ai prototipi. L'ultima menzione settecentesca di Domenichini è stata resa nota da Mauroner (1947, p, 49). Da alcune
lettere dell'Epistolario Moschini (biblioteca del Museo Correr),
risulta che numerose vedute veneziane di Domenichini, noto anche con
l'appellativo di «Menichino», furono spedite alla fine del
Settecento da Giovanni Maria Sasso, singolare figura di mercante e
collezionista, a John Strange, un inglese che aveva ricoperto l'incarico di residente britannico a Venezia dal 1774 e con cui Sasso
intrattenne una relazione ventennale intessuta di pettegolezzi e di
lucrosi affari nella compravendita di dipinti di antichi maestri.
Tra le vedute veneziane di Domenichini acquistate da Strange
figuravano sette vedute di Venezia e un Bucintoro grande, cioè una
tela di notevoli dimensioni raffigurante verosimilmente una Partenza
del Bucintoro nella festa dell'Ascensione sul tipo di quella facente
parte della serie di vedute conservate a Baden, pubblicate da
Borghero (Mythos Venedig 1994, p. 103). Poiché il nome di
Domenichini ricorre con notevole frequenza nelle vedute scambiate
tra i due collezionisti, Mauroner traeva la conclusione che l'artista potesse identificarsi con quel « Menichino » ricordato da
Moschini (1806, p. 87) come scolaro di
Carlevarijs. Dopo un lungo oblio, il pittore è ritornato alla
ribalta in occasione della mostra Mito e fascino di Venezia quando,
in un saggio del relativo catalogo, ebbi modo di approfondire
l'esame della serie di tredici vedute veneziane anonime conservate
nella Stiftung Langmatt Sidney und Jenny Brown di Baden, ritenendole
ascrivibili a un artista operante sotto l'influenza di Michele Marieschi o di Francesco Albotto. I dipinti della Fondazione
Langmatt sono infatti caratterizzati da un eclettismo che coniuga la
maniera di Marieschi per la stesura materica a macchie di colore e
quella di Canaletto per la resa netta degli edifici. Le smilze
macchiette, di gusto canalettiano, ricordano per il brioso
cromatismo i gruppetti ciacolanti che allietano le vedute di Johan
Richter, lo svedese seguace di Carlevarijs operante a Venezia dagli
inizi del Settecento fino alla morte (1745). Partendo dalla
datazione 1745-1750, ipotizzabile per la serie Langmatt sulla base
di dettagli topografici, avevo osservato che, tra i nomi dei
vedutisti veneziani attivi intorno alla metà del secolo e ancora
avvolti nell'ombra, un particolare interesse presentava quello di
Apollonio Domenichini a cui sembrava attribuibile in via d'ipotesi
l'intera serie, qualitativamente piuttosto disomogenea. Dalla
mostra di Baden derivò l'uso di indicare l'anonimo artista, la
cui produzione in precedenza veniva per lo più attribuita a Marieschi, Canaletto, Bellotto e Tironi, con l'epiteto «Maestro
della Fondazione Langmatt». Il ritrovamento di un dipinto
raffigurante L'arco di Costantino e il Colosseo, datato 1746 (Il paesaggio
veneto 2003, fig. 77), l'unico finora conosciuto, dimostra che alla
metà degli anni quaranta l'artista aveva raggiunto una maturità
stilistica destinata a non subire significative modifiche. In alcune
tele, probabilmente eseguite nella fase finale per importanti
committenti, la tecnica esecutiva diventa più accuratamente canalettiana, come nella coppia di vedute
Il ponte di Rialto da sud
e Il Canal Grande da Palazzo Moro-Lin verso la chiesa della Carità dell 'Ermitage di Pietroburgo (72 X 111 cm), attribuite
dubitativamente da Fomichova (1992, cat. 250, 251) a Francesco
Tironi sulla base di comunicazioni verbali di Fiocco (1956) e
Morassi (1961). La terza veduta presenta particolare interesse
perché è databile intorno al 1760, raffigurando i palazzi Grassi e Rezzonico dopo l'ultimazione dei lavori: la coppia dell'Ermitage
costituisce quindi una rara testimonianza della fase estrema del
pittore. Un altro dipinto di Domenichini conservato all'Ermitage,
Piazza San Marco verso la basilica, è stato attribuito
dubitativamente a Michele Marieschi (Fomichova 1992, cat. 160).
Proveniente dalla collezione Vorontsov-Dashkov di Pietroburgo, la
tela fa serie con due opere di Bernardo Canal, Il Canal Grande dal
ponte di Rialto verso Ca' Foscari e Il Bacino di San Marco verso la
Punta della Dogana (cat. 58), pure attribuite dubitativamente da
Fomichova (1992, cat. 159,161) a Marieschi. Egidio Martini (2000, p.
159), pubblicando alcune vedute del «Maestro Langmatt», ha segnalato
l'esistenza in vari musei e sul mercato antiquario di numerose
opere stilisticamente omogenee per il modo caratteristico di
tratteggiare le onde con sottili segni diritti. Proponendo il nome
di Apollonio Domenichini, Martini osservava che «tale ipotetica
attribuzione coinciderebbe anche con il fatto che esistono le opere
senza l'autore e l'autore senza le opere». La constatazione è
pienamente condivisibile e, non essendo fondatamente proponibile
nessun altro nominativo in via alternativa, si può ritenere
praticamente sicura l'identificazione di questo piacevole pittore
«senza firma» del Settecento veneziano.
Si ha motivo di
ritenere che l'inizio dell'attività artistica del Domenichini, in
maniera indipendente, debba collocarsi intorno al 1740, o poco
dopo: non si conoscono infatti finora dipinti che siano databili con
certezza prima del quinto decennio. Nei dipinti della serie della
Fondazione Langmatt si evidenzia l'influenza della maniera "matura"
di Albotto, riscontrabile nella stesura materica maculata e nello
stile accurato che esalta con nettezza i volumi degli edifici,
sciogliendosi nella resa sintetica delle smilze macchiette. Le
figure, genericamente ispirate ai modelli del Canaletto, ricordano,
per la vivacità delle campiture cromatiche dei gruppetti "ciacolanti",
un seguace di Carlevarijs, lo svedese Johann Richter che fu attivo a
Venezia dal 1710 fino alla morte (1745). In occasione della mostra
di Baden avevo avuto occasione di scrivere: «Queste figurette,
sottolineano in maniera garbata il fare aneddotico con cui l'anonimo
maestro mira a coinvolgere l'osservatore rendendolo partecipe dello
spettacolo meraviglioso delle calli, dei canali, dei monumenti in
cui si dipana il Gran Teatro della città lagunare. Anche la
tessitura cromatica riecheggia abbastanza da vicino non tanto i toni
caldi e pastosi di Marieschi quanto quelli piuttosto aciduli di
Albotto, trasparenti nella resa ferma dei cieli azzurri solcati da
sbuffi di nuvolette strappate o timidamente cumuliformi, nonché
nelle distese liquide verdognole, rischiarate senza enfasi dalle
striature luminose, allungate e parallelamente graduate, con cui si
suggerisce il moto ondoso».
Domenichini, come
già affrontato, replicava
dipinti di Marieschi, o ne traeva derivazioni da originali, come la serie dei quattro dipinti
del Castello Sforzesco,
attribuiti alla «mano di uno stretto collaboratore» da Precerutti
Garberi (1968, p. 43), che poneva l'attenzione sul divario
qualitativo rispetto ai prototipi: uno stile calligrafico piatto,
privo delle profondità atmosferiche e della pennellata disinvolta
degli originali, con un cromatismo «risucchiato in gamme acidule,
smorte, opache» e con figurette «di commento, che si limitano a
sottolineare l'aneddoto con un fare svelto, scattante, accurato
nei particolari e indagante nell'episodio spicciolo, come un curioso
e coscienzioso cronista».
Nato a Venezia nel
1689, Jacopo Fabris fu attivo come autore di scenografie teatrali,
venendo particolarmente apprezzato in Germania dove dal 1719 al 1721 fu
pittore di corte a Karslruhe. Dopo un soggiorno ad Amburgo (1724 — 1728)
dal 1742 lavorò a Berlino come scenografo per il Teatro dell'Opera al
servizio di Federico il Grande. L'anno seguente si trasferì a Copenhagen
presso la corte di Federico V; in seguito insegnò architettura e
prospettiva all'Accademia d'Arte di Charlottenborg, lasciando un
trattato di architettura ultimato nel 1760. Avendo trascorso la maggior
parte della vita attiva all'estero, si comprende perché le vedute di
Venezia e di Roma di Jacopo Fabris siano quasi sempre basate su
incisioni o dipinti di altri artisti, tra cui Luca Carlevarijs, Michele
Marieschi, Antonio Visentini, Gaspar van Wittel. Questa luminosa visione
prospettica della famosa piazza dell'Urbe è in relazione con una veduta
di van Wittel, di cui sono note numerose versioni databili tra il 1684 e
il 1720 (Briganti 1996, pp. 169-173), dalle quali si differenzia nel
vario e gustoso repertorio delle
macchiette. L'autografia risulta
confermata, oltre che dalla firma apposta sul verso della tela originale
Ja: Fabris pin., dalla presenza delle peculiari caratteristiche tecniche
e stilistiche: la descrizione accurata delle architetture con forti
contrasti chiaroscurali nel primo piano, i cieli solcati da nubi
cumuliformi di notevole effetto decorativo, le macchiette curiosamente
affini ai modelli di Bernardo Canal. anni, Jacopo Fabris emigrò
all'estero senza più ritornare in patria. È. questo il motivo per cui
quasi tutte le sue vedute di Venezia sono basate su incisioni di Luca
Carlevarijs, Michele Marieschi e Antonio Visentini. Questa classica
ripresa prospettica del Molo verso la riva degli Schiavoni è derivata
dalla tavola 11 della Pars Secunda della raccolta di 38 vedute di
Venezia di Antonio Visentini derivate da dipinti di Canaletto,
pubblicata nel 1742 da
Giambattista Pasquali (Succi 2013, I, p. 207, n. 27): ciò consente di
collocare l'esecuzione del dipinto dopo la seconda metà degli anni
quaranta, probabilmentenel
sesto decennio. Le principali modifiche riguardano lo spostamento verso
il margine della tela a sinistra, nella zona ombreggiata sul fianco del
Palazzo Ducale, della colonna con il leone marciano e la raffigurazione
totalmente variata delle imbarcazioni e delle macchiette. Lo spostamento
della
colonna ha consentito di porre in maggio-re evidenza la splendida
facciata del centro del potere politico della Serenissima, senza la
fastidiosa soluzione di continuità causata dalla colonna posta tra le
due finestre della facciata. Lo stile di Fabris è riscontrabile nella
fermezza schematica degli elementi architettonici, nel cielo
grigio-argenteo con nuvole scure, nelle macchiette vagamente esemplate
sui prototipi di Bernardo Canal.
_______
Francesco Guardi
(Venezia 1712
– 1793)
Francesco Guardi, La
partenza del Bucintoro verso San Nicolò di Lido, nel giorno
dell'Ascensione, 1766-1770,
Francesco Guardi nacque a
Venezia il 5 ottobre 1712 da Domenico Guardi (1678-1716) e da Maria
Claudia Pichler (1673-1744), che misero al mondo altri cinque figli, tra
cui due pittori, Gianantonio (1699-1760) e Nicolò (1715-1786).
Originaria del paese di Mastellina nella Val di Sole (Trentino), la
famiglia Guardi aveva ottenuto nel 1643 da Ferdinando III d'Austria, il
riconoscimento del titolo nobiliare con il diritto di fregiarsi dello
stemma.
Domenico Guardi si era trasferito a Vienna nel 1690 per studiare pittura
su sollecitazione dello zio don Giovanni Guardi, canonico della
cattedrale di Santo Stefano. Intorno al 1700 Domenico giungeva a Venezia
dove allacciava rapporti di lavoro, per lo più come copista, con la
famiglia Giovanelli per la quale eseguì nel 1716, per la chiesa
parrocchiale di Valtrigh e nel bergamasco, una pala raffigurante San
Zenone, recentemente pubblicata da Montecuccoli (1992).
Alla morte di Domenico, l'appena diciassettenne Gianantonio subentrò
nella direzione della bottega operando soprattutto come copista dapprima
al servizio dei Giovanelli e poi, a partire dal 1730 circa, del
feldmaresciallo Matthias von der Schulenburg dal quale ricevette un
regolare stipendio mensile fino al 1745.
Nel testamento del 15 dicembre 1731 di Benedetto Giovanelli si accenna
ad un lascito relativo a "copie de Quadri e . . . ] fatte dalli
Fratelli Guardi", da cui potrebbe dedursi che anche Francesco aveva
esordito come copista di poco conto al servizio dei Giovanelli .
In data 14 ottobre 1738 il parroco di Vigo d'Anaunia, Pietro Antonio
Guardi, inseriva nel libro contabile della canonica l'anotazione: "Adì
14 Otobre 1738 ho consegnato i tre grandi quadri a questa chiesa
parochiale posti in sagristia in adempimento del legato lasciato nel
testamento per licenza di poterlo fare" . Il parroco alludeva alle tre
lunette, da lui commissionate a Gianantonio, raffiguranti la Comunione
sacrilega del vescovo di Magdeburgo, la Visione di San Francesco e la
Lavanda dei piedi la cui suddivisione attributiva fra i tre fratelli
Guardi ha costituito a lungo oggetto di discussione per gli studiosi.
Al 18 settembre 1750 risale il primo documento sicuro sull'attività
pittorica di Francesco. Si tratta della lettera, pubblicata da Simonson
(1904, p . 79), in cui l'artista, scrivendo all'avvocato Carlo
Cordellina di Montecchio Maggiore, si dichiara sempre in attesa di
ricevere la conferma della commissione "delle pitture" dopo aver
consentito alla richiesta di ribasso del prezzo. Il successivo 26
novembre, in una seconda lettera allo stesso avvocato, Francesco lamenta
di non aver ricevuto alcun riscontro alla sua "suplica contenente a l'afare
delli miei sfortunati modelli" . Dal contenuto delle missive si arguisce
che l'artista, ormai prossimo ai quarant'anni, incontrava difficoltà ad
affermarsi come pittore di figura, dovendosi reputare che i "modelli "si
riferissero — come d'uso — a quadri "d'historie" .
Il 15 febbraio 1757, Francesco si sposava con Maria Mathea Pagani,
dalla quale ebbe cinque figli, tra cui Giacomo (1764-1835) destinato ad
ereditare la bottega paterna. Nell'atto di stato libero, compilato l'11
febbraio 1757, tra i testimoni compare, sorprendentemente, il più
giovane fratello Nicolò (che si era ammogliato nel 1738), il quale
rilasciò una dichiarazione di particolare interesse perché consente di
stabilire che la formazione artistica di Francesco era avvenuta
esclusivamente nella città lagunare e non altrove (per esempio in
Austria), come talora si è ipotizzato: "Francesco è mio fratello, e
siamo sempre stati insieme nella casa paterna, né mai è partito da
Venezia".
Dal 1761 al 1763 il nome di Francesco Guardi compare nei registri della
fraglia dei pittori veneziani e poco dopo, il 25 aprile 1764, il nobile
Pietro Gradenigo annotava nel diario la famosa citazione relativa
all'artista, definito "buon scolaro del rinomato Canaletto", riportata
agli inizi di questo scritto. La morte della moglie, avvenuta il 27
gennaio 1769, "dovette essere una perdita ben amara per Francesco, i cui
figlioletti in età tenerissima rimanevano orfani di madre. E pensabile
che di essi abbia preso cura, almeno parziale, la sorella di Francesco,
Cecilia, sposa del Tiepolo, a quel tempo ancora in buone condizioni di
salute dona vitale 67 anni [ . . .] . Si aggiunga che Cecilia pensò di
far testamento appena nel 1777, un testamento da cui si rilevano i buoni
rapporti tra i fratelli, poiché essa destinava a Francesco ed a Nicolò
Guardi 25 once d'argento a testa. Morì due anni più tardi, il 5 giugno
del 1779" (Morassi 1973, p . 37) .
Dopo aver compiuto, nell'autunno del 1778, un viaggio nel Trentino per
sbrigare questioni amministrative concernenti le proprietà in Val di
Sole, nel 1782 l'artista ricevette da Pietro Edwards, ispettore delle
Belle Arti, l'incarico ufficiale di dipingere quattro tele in ricordo
della visita a Venezia di Pio VI, ottenendo a titolo di compenso 40
zecchini, più otto come regalo. Nello stesso anno Francesco eseguiva
alcuni quadri commemorativi della visita veneziana dei Conti del Nord:
tra essi spicca il celebre Concerto delle dame nella sala deiFilarmonici,
oggi all'Alte Pinakothek di Monaco.
Il 12 settembre 1784 l'ormai ultrasettantenne maestro veniva eletto, con
nove voti favorevoli e due contrari, membro dell'Accademia veneziana di
pittura. Il 28 novembre 1789 un furioso incendio scoppiato nel deposito
di oli presso San Marcuola impressionava fortemente l'artista che lo
documentava in un'altra famosa tela, l'ultima databile con certezza,
pure custodita all'Alte Pinakothek di Monaco.
L'estrema attività di Francesco è espressa nei bellissimi fogli
rievocanti Le nozze del duca di Polignac nella villa Gradenigo a
Carpenedo, celebrate il 6 settembre 1790 (Museo Correr), e nelle aeree
rappresentazioni del Gran Teatro La Fenice, inaugurato la sera del 16
maggio 1792.
Con queste prove dal segno guizzante che evoca fantasiosamente,
allargandolo a dismisura, il campo San Fantin nobilitato dalla nuova
costruzione progettata dall'architetto Selva, Francesco Guardi sembra
congedarsi — ancora al culmine delle facoltà creative ed espressive —
dalla sua avventura artistica. Quella umana si chiuderà il primo gennaio
1793.
Francesco
Guardi, Pittore della contrada dÈ S:ti Apostoli su le Fondamente
Nove buon Scolaro del rinomato Canaletto, essendo molto riuscito per via
della Camera Optica
dipingere sopra due non picciole tele, ordinate da' un Forestiere
Inglese, le vedute della Piazza di S.Marco verso la Chiesa, e
l'Orologio, e del Ponte di Rialto, e sinistre Fabbriche verso Canareggio,
oggi le rese esposte su laterali delle Procurati e Nove, mediante che si
procacciò l 'universale applauso " (Gradenigo, Notatori,
25 aprile 1764).
Francesco Guardi
"spiritoso nell'inventare, esperto nell'architettura, nel contraffare i
tereni, nel'espresione del'aria e del'orizonte [ .. ] lavora eziandio
nel'età sua senile in Venezia, ch'ebbe per Patria fortunatamente (Catalogo di quadri
esistenti in casa del signor Don GiovaniVianeli
[..],1790, p.42).
"Francesco Guardi si
è riputato un altro Canaletto in questi ultimi anni; e le sue vedute di
Venezia hanno desta ammirazione in Italia e oltremonti; ma presso coloro
soltanto che si sono appagati di quel brio, di quel gusto, di quel bello
effetto che cercò sempre: perciocché nella esattezza delle proporzioni e
nella ragion dell'arte non può stare a fronte del maestro" (Lanzi
1795-1796, p . 180).
"Nel dipingere
d'Architettura, che fu la precipua sua professione, andò sulle traccie
del famoso Antonio Canal [ . . .] . Le sue vedute di Venezia hanno
svegliato in Italia e oltramonti l'ammirazione di tutti coloro che,
senza guardar troppo addentro, si lasciano vincere gradevolmente dal
brio, dal gusto e dall'effetto vivace che spirano le sue pitture" (Aglietti, Giornale,
1798) .
"L'acquisto
delle vedute è ancora più difficile. Per quelle di Canaletto non se ne
discorre più; anzi non si parla quasi neppur di quelle del suo nipote
Bellotto, quantunque non fossero meraviglie, e per la maggior parte
fossero copie tratte dagli originali del Zio. Di Marieschi o non si vede
cos'alcuna, o solo qualche pezzo annerito per l'eccesso nel partito di
sua macchia. Del Vicentini, del
Joli,
e del Battaglioli sono quasi tutte
invenzioni di capriccio, o vedute alterate di terraferma. Restano le
cose del Guardi, scorrette quanto mai, ma spiritosissime, e di queste vi
è adesso molta ricerca, forse perché non si trova di meglio. Ella sa
però che questo Pittore lavorava per la pagnotta giornaliera; comprava
telaccie da scarto con imprimiture scelleratissime; e per tirar avanti
il lavoro usava colori molto ogliosi, e dipingeva bene spesso alla
prima. Chi acquista de suo i quadri deve rassegnarsi a perderli in poco
tempo; ed io non mi farei mallevadore della loro durata per altri dieci
ani. Sula scoperta fatane dal Sig.r Tonioli tratai l'acquisto di due
quadretti per V.S., ma non ci siamo potuti aggiustare col venditore.
Erano graziosetti, e nient'altro .
Il Sig.r
Orsetti procurò alle mie istanze di farmene vedere alcuni altri di terza
persona, tutta roba da bottega, anzi di rifiuto" (lettera del 23 giugno
1804 di Pietro Edwards ad Antonio
Canova).
"Francesco Guardi,
nativo di Venezia, dove morì ottuagenario nell'anno 1793, fu pittore di
prospettiva. Egli era contemporaneo ad Antonio Canal, e ne camminava
sulle tracce; ma non aveva né la dottrina del disegno, né la ragione
dell'arte, le quali erano somme nell'intelletto e nella mano del maestro
[ . . .] . Non negheremo per altro che le vedute del Guardi non abbiano
magia di effetto: anzi è ciò così vero che quelle sono ricercate e
pregiate sì dentro e sì fuori d'Italia. Non però si potranno mai
confondere con le opere di Canaletto; questi appaga l'occhio, Guardi lo
seduce" (Missaglia, Dizionario Biografico Universale, XXVI, 1826, p.
421).
Questa breve rassegna
critica comprende tutti i giudizi più significativi che furono formulati
sull'arte di Francesco Guardi dalla seconda metà del Settecento fino ai
primi decenni del secolo successivo.
Significativamente
essi considerano solo la produzione vedutistica del pittore veneziano,
ignorando completamente il lavoro — poco noto ed ancor meno apprezzato —
di figurista. Le affinità con l'arte di Canaletto, evidenziate in quasi
tutti i commenti, appaiono stemperate dal franco riconoscimento che la
pittura di Guardi, pur qualificata briosa, di gusto ed effetto vivace,
spiritosa e seducente, "non può star a fronte del maestro".
L'osservazione conserva ancora oggi una sua validità, sol che la si
intenda nel senso che il vedutismo di Antonio Canal fu una esperienza
unica e irripetibile e che l'avventura artistica di Francesco,
inizialmente aderente da vicino ai modelli del famoso maestro, maturò
esiti sperimentali, iconografici, stilistici e lirici affatto diversi e
pertanto non confrontabili.
II rapporto di
dipendenza di Guardi da Canaletto, che appariva scontato agli occhi dei
contemporanei, venne sostanzialmente negato nella seconda metà
dell'Ottocento quando, sull'onda dell'affermarsi della nuova sensibilità
impressionistica, Canaletto — nella cui smagliante pittura di vedute il
razionalismo illuminato aveva trovato un interprete d'eccezione —
sembrava "un artista freddo e sbiadito", mentre Guardi veniva
considerato — annotava Charles Yriarte nel 1878 — "molto più vivo del
Canaletto; è un colorista più originale e nessuno è superiore a lui nel
suo genere quando segue e realizza il suo pensiero [ . . .] . La sua
prodigiosa facilità e la vivacità spiritosa dell'esecuzione, la grazia
piccante, unite alle qualità atmosferiche di trasparenza e di luce
rimaste insuperate, fanno di lui un pittore a sé [ . . .]".
La Venezia di
Canaletto, scriveva a sua volta Paul Leroy nello stesso 1878, è
sicuramente più puntuale ed inequivocabile, ma quella di Guardi è altra.
Dopo la pubblicazione
della prima monografia curata da Simonson (1904) e di quelle successive
di Panizza e Damerini (1912), Giuseppe Fiocco nel 1923 iniziava quell'operazione
filologica di discriminazione delle fisionomie dei due fratelli Guardi,
Francesco e Gianantonio, quali pittori di figura, che doveva costituire
negli anni a venire uno dei problemi più dibattuti ed ingarbugliati
nella storia della pittura veneziana del Settecento.
Già nel 1919 Fiocco
aveva rivendicato a Francesco, lanciato sulla ribalta nella inedita
qualità di figurista, lo splendido ciclo delle Storie di Tobiolo nella
chiesa veneziana dell'Angelo Raffaele, la cui attribuzione all'uno o
all'altro dei due fratelli Guardi doveva assurgere a elemento nodale di
un discorso critico altalenante che avrebbe trovato, non senza accese
polemiche, uno sbocco liberatorio nella memorabile rassegna guardesca
del 1965 organizzata da Pietro Zampetti.
In precedenza il
ruolo protagonistico di Gianantonio nell'ambito della bottega Guardi era
stato sostenuto da Fernanda De Maffei (autrice di un documentato
volumetto che aveva suscitato le sarcastiche reazioni di Fiocco e di
Pallucchini per la proposta di drastico ridimensionamento dell'attività
figuristica di Francesco Guardi) e da Antonio Morassi, scopritore del
prezioso archivio del feldmaresciallo Matthias von der Schulenburg. I
puntigliosi libri-cassa e gli accurati inventari della grandiosa
quadreria del comandante in capo delle armate della Serenissima, datosi
ad un frenetico collezionismo all'età di sessanta anni, documentando tre
lustri (1730-1745) di attività di Gianantonio al servizio dell 'illustre
personaggio, portavano un contributo probatorio inequivocabile e
decisivo per il dissolvimento delle cortine fumogene che avvolgevano la
figura di Guardi senior.
Con la mostra
veneziana del 1965 Zampetti riuscì a far emergere con chiarezza i
contorni dei due pittori come figuristi: l'arte di Gianantonio nasce da
una condizione culturale portata a trascurare la realtà e si esprime
nelle forme di una pittura gaia, rarefatta, evanescente, tipica del più
leggiadro rococò. A lui dunque andavano restituite senza più incertezze
le immagini incantatrici delle Storie di Tobiolo, le Storie romane di
Oslo, i soffitti di proprietà Cini, le Storie della Gerusalemme
Liberata, le pale della chiesa di Belvedere presso Aquileia e di Ceret e
Basso, eccetera eccetera, cioè tutta una serie di capolavori toccati con
quelle pennellate guizzanti, sfrangiate e "incendiarie" che avevano
suscitato l'entusiasmo degli studiosi.
Altra cosa sono le
tele a grandi figure eseguite da Francesco Guardi, pervase da una forza
drammatica e patetica inesistente in Gianantonio — che si esprime
faticosamente in pose impacciate e ineleganti, gravate da un peso che
"la bellezza del colore non riesce a riscattare del tutto", come
osservava Edoardo Arslan in un magistrale saggio risalente al 1944, in
cui evidenziava il vicolo cieco in cui s'era messa la critica
"seguitando a ritener di Francesco le storie di Tobiuzzo". Un esame
spregiudicato di quelle pitture avrebbe dovuto portare ad affermare la
loro estraneità al figurismo di Francesco, caratterizzato da una
particolare configurazione a massa, bloccata da una linea a salienti, di
origine veronese-tridentina.
In definitiva lo
scontro, qui rievocato in maniera troppo sintetica, tra le opposte
"fazioni " di studiosi si concludeva con la vittoria dei "panantoniani",
cioè dei sostenitori della preminenza della statura di Gianantonio
figurista rispetto a Francesco, venendo messa alle corde la teoria
"panfranceschiana" che aveva trovato in Fiocco ed in Pallucchini i
sostenitori più convinti.
Il chiarimento di
questo problema consentiva finalmente di far convergere l'attenzione su
un altro dilemma collocato all'interno dell'itinerario artistico di
Francesco, quello degli inizi e dell'evolversi dell'affascinante
esperienza vedutistica. L'argomento veniva affrontato in vari articoli
su riviste specializzate e soprattutto negli interessanti, ma sullo
specifico punto sostanzialmente inconcludenti, dibattiti di un convegno
di studi svoltosi nel 1965, poi raccolti nel volume Problemi guardeschi
(1967). Il fervore delle discussioni, cui parteciparono Arslan, Mahon,
Muraro, Morasi, Pignati e altri, si spense con l'aparizione, tra il 1973
ed il 1975, della monumentale monografia di Morassi sui Guardi: i tre
ponderosi volumi dedicati ai dipinti ed ai disegni dissuasero chiunque
dall'affrontare l'argomento "Guardi" disseccando per alcuni lustri il
filone dei relativi studi.
Eppure alcuni dei
problemi fondamentali del vedutismo franceschiano erano rimasti
irrisolti. Lo stesso Morassi, il più autorevole degli specialisti, era
stato costretto a prendere atto del sostanziale fallimento delle
indagini volte a chiarire l'iter cronologico di Francesco, cioè uno
degli aspetti fondamentali per la comprensione dell'opera di un artista
. "Il problema più grave — scriveva lo studioso quasi con angoscia — è
questo: quando cominciò Francesco Guardi a dipingere vedute? E proprio
il quesito cui non siamo in grado di rispondere con precisione; è
proprio questo, su cui non v'è alcuna testimonianza probante, alcun
documento storico. V'è quasi una specie di 'congiura del silenzio ' a
mantenere il segreto su questo punto, che pur è tanto importante per la
conoscenza dell'artista".
La totale incertezza
sugli esordi vedutistici di Francesco si ripercuoteva sull'impossibilità
di delineare una coerente evoluzione dell'itinerario artistico, con la
conseguenza di sconcertanti oscillazioni, misurabili addirittura a
svariati decenni, nella datazione di moltissimi dipinti, fossero vedute,
capricci o quadri di figura.
Alla confusione
cronologica si sommava l'incertezza attributiva che induceva autorevoli
studiosi a negare la genuinità di una larga serie di stupende vedute,
addirittura pienamente firmate da Francesco Guardi, sol perché
presentavano caratteri stilistici di un'accuratezza quasi canalettiana e
perciò ritenute incompatibili con il segno compendiario universalmente
noto dell'artista. Valga per tutte l'esempio delle incantevoli,
poeticissime vedute lagunari che Hermann Voss attribuì, del tutto
arbitrariamente, ad un artista minore come Francesco Tironi del quale
non si conosce neanche un dipinto sicuro.
Per converso si
confermavano a Francesco centinaia di tele il cui miserabile livello
qualitativo diventava pretesto per esaltare, con parole struggenti, la
cialtroneria espressiva letta con l'ottica deformante del tocco
sintetico "impressionistico" o, con riferimento ai paesaggi fantastici,
"preromantico" : così veramente contribuendo a degradare l'immagine del
grande maestro. Né accenna a diminuire il flusso degli squallidi
capricci in miniatura che incontrano l'incontenibile favore di troppi
collezionisti illusi di possedere deliziose opericciole del Settecento
veneziano invece di autentiche croste, quelle stesse che non di rado
suggestionarono Antonio Morassi il quale, molto generosamente, le
definiva "opere squisite del periodo tardo": talmente tardo che nemmeno
Francesco era riuscito a vederle .
Chi fu veramente
Francesco Guardi e attraverso quali passaggi maturò la sua esperienza
figurativa?
È stato detto che la
conoscenza dell'opera di un artista resta imperfetta fino a quando non
ne è chiara la cronologia. Morassi (1973, p . 208) fu costretto ad
ammettere di provare un senso di disagio di fronte all'esistenza di un
diaframma nelle ricerche guardesche "e che dopo tanti anni di studio non
siamo riusciti ancora ad infrangere del tutto" .
Dario Succi
_______
Joseph Heintz il giovane
(Augsburg 1600 c. – Venezia 1678)
Joseph
Heintz il giovane,
La
Caccia
ai
tori in campo
San Polo.
Venezia,
Museo
Correr
L’artista, figlio dell’omonimo Joseph
Heintz il vecchio pittore di corte di Rodolfo II, nasce ad Augusta verso
il 1600. Nel 1617 figura come garzone presso la bottega di Matthäus
Gundelach, già allievo del padre deceduto prematuramente nel 1609.
Probabilmente, prima di scendere in Italia, Heintz frequenta anche la bottega di Matthias Kager (1621), noto
miniatore e già allievo a Venezia di Hans Rottenhammer (Bushart 1968).
Nel 1625 il giovane è attivo in Italia, a Venezia e a Roma, dove esegue
una Veduta di villa Borghese (Campetelli
2003). È forse in questo torno di tempo che papa Urbano VIII gli
conferisce, per meriti pittorici, il titolo di Cavaliere dello Sperone
d’oro. Nel 1632 si trova di certo a Venezia come testimonia la pala
votiva della chiesa di San Fantino. Successivamente risulta iscritto
alla Fraglia
dei pittori veneziani dal 1634 al 1639 e nell’elenco della “Tansa de’
pittori” dal 1639 al 1642 (Favaro 1975). Nel 1640 nasce il figlio
Daniel, futuro collaboratore. Tra il 1648 e il 1649 firma con l’epiteto
Eques Auratus, l’Ingresso del patriarca Federico Corner a San Pietro di Castello, la
Caccia ai tori in campo San Polo e
Il fresco in barca (oggi conservati al Museo Correr di Venezia). Il
30 novembre 1655 è chiamato, assieme a Nicolas Régnier, a stimare la
collezione di Giovanni Pietro Tiraboschi (Savini Branca 1964). L’anno
seguente, a coronamento di un periodo di intensa attività pittorica, gli
viene commissionato il Ritratto
del doge Francesco Corner, da collocarsi nella Sala dello Scrutinio
di Palazzo Ducale. Poco dopo stipula il contratto con il priore della
chiesa dei Santi Giovanni e Palo, fra’ Giovanni Premuda, per la realizzazione
di una tela celebrante La vittoria
della flotta veneziana su quella turca
ai Dardanelli (Chiappini di Sorio 1967). Nel 1663 il conte Czernin,
plenipotenziario dell’imperatore Leopoldo I, gli commissiona alcuneopere e, a quanto pare, assume per un certo tempo alle proprie
dipendenze il giovane figlio Daniel (Daniel 1996).
Joseph Heintz il
giovane muore a Venezia nel settembre del 1678. Il necrologio nella
parrocchia di Santa Sofia recita: “il Sig. Iseppo Hens Pittor de anni 78
circa da febre giorni quindici medici Albertini/ Fa seppelir le sue
figliole”. Una di certo è quella Regina Heintz ricordata da Martinioni
(1663) tra i soli cinquanta “pittori di nome che al presente vivono in
Venetia”.
In Italia Heintz il
giovane godette inizialmente una certa fama soprattutto come autore di
quadri “capricciosissimi”, dove “concerti di mostri, fantasme, di
chimere e cose simili” condividono la scena con eroi classici o
mitologici. Se l’ambientazione recupera schemi diffusi dalle stampe di
Bosch e Brueghel il vecchio, alcuni mostriciattoli derivano invece da
matrici callottiane. Due esempi tipici di questa produzione sono l’Orfeo agli inferi della Galleria degli Uffizi e la
Vanitas
della Pinacoteca di Brera.
Artista eclettico,
capace di spaziare con disinvoltura da un genere all’altro, Heintz il
giovane fu inoltre il “primo interprete”, a Venezia, “dell’interesse
specifico per la veduta” (Pedrocco 2001). Nelle cosiddette
Feste veneziane del Museo Correr egli “tenta il documentario con uno
spirito figurativo aneddotico e preciso. Ma che spigliatezza, che brio,
che vivacità frizzante ed icastica nella resa delle macchiette, dove
s’insinua una certa eleganza callottiana, ravvivata dalla cromia accesa
e festosissima, che ricorda Forabosco e Maffei. In queste scene spira
una vena caricaturale abbastanza in anticipo sui tempi. Insomma l’Heintz
appare da queste tele un temperamento che ha infilato la sua strada
fuori dall’accademia, dal genere aulico e sacro” (Pallucchini 1937). Fra
le lagune il tedesco contava inoltre “un certo numero di seguaci, per di
più anonimi forestieri, che si limitavano nelle loro opere a ripetere
meccanicamente un ristretto novero di composizioni topografiche,
soprattutto l’immancabile veduta della Piazzetta” (Aikema 2002).
Durante la sua lunga
permanenza fra le lagune, egli divenne il cronista attento e smaliziato
della civiltà veneziana del Seicento. Spettano al suo pennello infatti
la serie dei Ridotti e le
numerose Lotte sul ponte dei pugni,
“antichi e semplici dipinti di divertimenti veneziani”, dove “lo scherzo
più insensato diventa lo spasso di tutto il mondo che riempie balconi e
si diverte prendendo parte in allegria ed agitazione” (Goethe).
Egli fu, come detto,
uno "specialista in vedute urbane condite da gustosi particolari fatti
da improvvisate in costumi variopinti o da tranche de vies sature
di realismo da bambocciante [...], nel corso della sua carriera
eclettica ebbe modo di misurarsi con le vedute di città a volo
d'uccello, genere a cui appartiene la tela di Udine: al museo Correr è
esposta una grande Pianta prospettica di Venezia con la sua
firma, replica con notevoli varianti dell'incisione del 1500 di Jacopo
dÈ Barbari [...]. Il catalogo heintziano propone però altri
interessanti raffronti per consolidare la nuova attribuzione della
Pianta della città di Udine. Collocati allo stesso periodo (la prima
metà del sesto decennio del Seicento), il Pescivendolo di
collezione privata romana - firmato e datato 1652 o 1655 - e l'Interno
di cucina del museo Davia-Bargellini di Bologna dimostrano una forte
attenzione alla descrizione caricata della vita della gente comune
d'allora, la medesima che frequenta la zona bassa dell'opera udinese"
(Lucchese 2004).
Datata 1666 è invece
la pala d'altare della parrocchiale di Laggio di Cadore. "Ad una data
tanto avanti nel secolo, lo Heintz costruisce l'immagine variando
leggermente il telaio veronesiano; anche la problematica della forma
sembra svolta in termini manieristici, modernizzati soltanto dalla
pennellata larga e schiumante, piena di tremolii occhielli, cediglie,
capricci grafici; come se tutte le cose fossero di carta piegata. Non
manca qualche accenno al caravaggismo importato a Venezia dal Saraceni,
nelle pagine del libro dagli angoli consunti dall'uso, o nelle unghie
nerastre di S. Antonio" (Lucco 1981).
“Il pittore di
Augusta, ultimamente riscoperto dalla critica (in primis Rodolfo
Pallucchini), fu effettivamente un precursore in Venezia di generi
prettamente collezionistici, quali le vedute della città, le scene di
fantasia, le nature morte” (Fantelli 1982). Tuttavia alcune repliche
tradiscono “la presenza di una bottega prolifica che sosteneva la
produzione del maestro [...]. Talune soffrono uno scadimento
qualitativo, altre, probabilmente realizzate in gran parte da Heintz,
mantengono invece la qualità pittorica del prototipo” (D’Anza 2004).
Daniele D'Anza (2005)
_______
Michele Marieschi (Venezia 1710 - 1744)
Michele
Marieschi,
Il palazzo Ducale con la punta della Dogana, Varsavia, Muzeum Narodowe
“Nato a Venezia l’8 dicembre 1710 (Mauroner 1940), e dunque di tredici
anni più giovane del Canaletto, Michele Marieschi morì a trentatré anni,
il 18 gennaio 1743 («more veneto», cioè 1744), «quando gli si era appena
dischiuso il suo vero mondo dell’arte» (Morassi 1966).
Ne scriveva il Guarienti (1753): «datosi con indefesso studio alla
Quadratura ed Architettura, fu presto in istato di staccarsi dal Padre
[poco prima definito «mediocre pittore»] e portarsi in Germania, dove
con la bizzarria e copia di sue idee piacque a molti Personaggi, che lo
impiegarono in grandi e piccole operazioni; con che di non poche facoltà
fece acquisto». Probabilmente, come riteneva il Mauroner (1940), egli
entrò da giovane in contatto col bellunese Gaspare Diziani, stabilitosi
a Venezia fin dal 1725, che fu testimone alle sue nozze con Angela
Fontana nei 1737. Il Mauroner pensava ancora essere stato il Diziani,
che già aveva lavorato in Germania come scenografo, a favorire il
viaggio del Marieschi; viaggio che, in ogni caso, dovrebbe esser
avvenuto tra il gennaio del 1731, allorché (secondo le ricerche del
Manzelli, 1985 1986) si faceva garante di Francesco Tasso che doveva
apparecchiare la festa del giovedì grasso in piazza San Marco, e il
maggio del 1735, quando era a Fano, assieme appunto all’impresario
Tasso, per allestire gli addobbi funebri in occasione della morte della
regina di Polonia Maria Clementina Sobiesky” (Pallucchini 1995).
Il 3 gennaio 1731, come detto, l’artista prestò garanzia per
l’allestimento di un’architettura effimera (Padoan Urban 1980). In
questo documento, il primo conosciuto sulla sua attività, l’esplicito
riferimento a “Michiel Marieschi Pittor”, induce a credere che all’epoca
egli doveva essere attivo già da qualche tempo come pittore di
scenografie teatrali e apparati festivi.
Iscritto alla Fraglia dei pittori dal 1736 al 1743, la sua operosità si
compendia nel breve periodo veneziano degli ultimi anni di vita.
“Lavoratore instancabile, a partire dal 1738 iniziò ad incidere le
grandi tavole della stupenda raccolta di ventuno vedute veneziane,
pubblicate tra il 1741 ed il 1742, battendo sul tempo le analoghe
sillogi di Antonio Visentini (edizione completa del 1742) e di Canaletto
(1744). [...] Forse non aveva ancora finito di incidere le lastre di
rame (per cui il Senato gli aveva accordato il 3 giugno 1741 il
privilegio privativo decennale) che l’artista «aggravato da male», il 13
gennaio 1742 fece compilare la cedola testamentaria dal notaio Giuseppe
Uccelli: «Considerando io Michiel Marieschi q.m. Antonio la fragilità di
questa misera vita, la certezza della morte e l’incertezza dell’hora di
quella ho stabilito pertanto sino mi attrovo tempo voler disponer delle
cose mie qui in terra». Un anno dopo – 18 gennaio 1743 [more veneto,
1744] – l’artista moriva a trentadue anni appena compiuti” (Succi 1989).
Secondo Guarienti (1753) fu “la troppo assiduità alla fatica e allo
studio” a causargli la morte.
“Chi fu veramente Michele Marieschi? La ricostruzione della sua
personalità artistica costituisce uno dei casi più appassionanti,
dibattuti ed intricati nella storia dell’arte veneziana del Settecento.
Già durante la brevissima esistenza le vedute veneziane di Marieschi
venivano acquistate – come ormai risulta documentalmente provato – dagli
amatori inglesi durante il rituale Grand Tour e da blasonati
connoisseurs come il Feldmaresciallo Mathias von der Schulenburg (il
comandante in capo delle armate della Serenissima), quali capolavori di
Antonio Canal detto il Canaletto. Dopo la morte precoce, un oscuro
apprendista della bottega di Marieschi, di nome Francesco Albotto, sposò
la vedova di Michele nel 1744 e sfornò per tre lustri (fino al 1757) una
insidiosa produzione strettamente aderente allo stile del maestro,
giungendo fino al punto di farsi chiamare «il secondo Marieschi». Per
complicare ulteriormente le cose nel 1711 nacque a Venezia un altro
pittore con lo stesso cognome (Jacopo Marieschi) il quale visse assai
più a lungo – fino al 1794 – e frequentò la bottega di quello stesso
Gaspare Diziani che fu in stretti rapporti anche con Michele” (Succi
1989).
Va detto subito che Marieschi “è un pittore che si esprime tanto nel
genere reale della veduta prospettica, di cui ci ha lasciato un
campionario di incisioni di alta qualità [Magnificentiores
Selectioresque Urbis Venetiarum Prospectus], come in quello fantastico
della veduta ideata o capriccio. Evidentemente istradato dagli esempi
canalettiani, ha presto raggiunto una sua indipendente visione
espressiva, d’un pittoricismo intensamente goduto nel senso materico; e
al tempo stesso in rapporto con il gusto teatrale della sua
rappresentazione, mediante l’impiego di macchiette recitanti che
occupano i primi piani delle sue vedute. [...] Si potrebbe dire che
quasi tutte le Vedute del nostro artista siano precedute da invenzioni
canalettiane. Ma mentre il Canaletto si avvale del telaio prospettico
per condensare quella sua luce magicamente temporalizzata, creando, dopo
gli olandesi del Seicento, i primi plein air della pittura italiana, il
Marieschi accentra il suo interesse sul racconto scenografico, dimodoché
le sue Vedute sono tessute per lo più su una spazialità ridotta,
costruita su quinte successive, come su un palcoscenico. Esse vanno
gustate soprattutto nei particolari: la saporosità d’un muro scrostato,
la vibrazione d’un intonaco slabbrato accarezzato dalla luce, un
pavimento a spina di pesce, un gruppo di case in lontananza velate
dall’aria e ridotte a tessere di mosaico, son tutte occasioni per la
ricerca minuta del «materico» più imprevisto. Mentre si potrebbe dire
che la veduta canalettiana tende alla classicità, quella del Marieschi è
essenzialmente decorativa, portata al racconto episodico preottocentesco”
(Pallucchini 1995).
“Una pennellata veloce e ricca di giochi di ombra e di luce caratterizza
le vedute dell’artista; questo gusto per il pittoresco lo porta ad
anticipare per taluni lati la sensibilità del Piranesi, quando
costruisce vedute di interni, che si animano e diventano più complesse
nel gioco dei vari piani e delle scalinate” (D’Arcais 1966).
Nei suoi capricci inoltre, “in un clima surreale e nostalgico s’inverano
poetiche invenzioni fra fantasia e realtà, prodotte da un senso teatrale
spiccatissimo ed è proprio sotto questo aspetto che gli anni
giovanili del Marieschi ritornano ora fecondi di nuovi pensieri
pittorici” (Morassi 1966). In tali dipinti, animati da gustose
macchiette nelle quali appare già il segno del gusto guardesco, “poté
meglio esprimere il suo estro immaginoso e fervido, vibrante di luce e
di colore” (Lorenzetti 1942).
Per quanto riguarda la cronologia delle opere, “non esiste nemmeno una
veduta dipinta da Marieschi che, sulla base di riscontri topografici o
documentari, sia databile con certezza prima del 1735, tutto porta a
ritenere che l’artista, seguendo del resto lo stesso itinerario percorso
da Canaletto, affiancasse, all’inizio degli anni trenta l’attività di
scenografo-macchinista con quella di pittore di capricci, e che solo in
un secondo momento si dedicasse al vedutismo, influenzato dalla fama
folgorante che Canaletto andava acquisendo in quella specialità. Subito
dopo la metà del quarto decennio si verificò infatti un mutamento di
rotta e la produzione di vedute prevalse nettamente su quella di
capricci” (Succi 1989).
“L’indagine prospettica di Marieschi sembra profondamente caratterizzata
dall’impiego della camera oscura con obiettivo quadrangolare, tale da
poter abbracciare un campo visivo molto superiore a quello normalmente
determinato dallo sguardo umano. Basta girare Venezia con le
riproduzioni delle sue incisioni e dei suoi dipinti, e confrontare le
opere con la realtà fisica della città, per capire da una parte la cura
dedicata ai particolari architettonici e dall’altra la forzatura dei
tagli. Questi, stabiliti sicuramente grazie alla camera ottica,
riflettono anche, nella scelta molto angolata dei punti di vista, la
base culturale di Michele Marieschi, che è quella della scenografia
teatrale. Ne risulta un movimento dinamico che coinvolge visualmente chi
guarda le sue opere. Il loro magnetismo, desunto dalla concentrazione in
un’immagine bidimensionale d’una realtà prospettica che a volte supera i
centottanta gradi, procura un sentimento di libertà, di avventurosa
spazialità. La rivelazione di questo sentimento costituisce il grande
contributo di Michele Marieschi all’indagine vedutistica” (Toledano
1988).
Daniele D'Anza (2005)
_______
Antonio Stom (Venezia
1688 – 1734)
Antonio
Stom.Vista di Piazza San
Marco dalle Procuratie Vecchie. Collezione privata
STOM, Antonio - note
biografiche
Nato probabilmente nel 1688 e morto a Venezia nel 1734 (de Zucco 1976,
p. 49), Antonio Stom discendeva da una famiglia di pittori che fra il
1680 e ii 1700 si era affermata a Venezia specializzandosi nella
produzione di battaglie. Alla prima generazione, formata dai fratelli
Matteo e Giovanni ("Zuanne"), era subentrata una seconda gestita da
Antonio ("Tonino") che portò avanti con uguale fortuna l'impresa
familiare che aveva bottega in campo Rusolo (Orseolo). Il ruolo
ricoperto da Antonio Stom nell'ambito della cultura pittorica veneziana
nei primi decenni del Settecento è stato abbastanza sorprendente. Egli
infatti fu autore di numerose vedute "prese dal vero" o di fantasia e di
gustosi capricci architettonici con ruderi romani e obelischi ai bordi
di baie marine che, pur risentendo dei modelli di Eismann e di
Carlevarijs, presentano caratteristiche stilistiche spiccatamente
originali. Il suo linguaggio pittorico si esprime infatti con pennellate
larghe e corsive, a impasto grasso, che lasciano generalmente indefiniti
i contorni e con una inusuale tavolozza cromatica a prevalenti tonalità
verdi e grigio-azzurrine, mentre le spigolose "figurette" sono toccate a
macchie di bianco, blu, rosso cupo. Dopo la morte di Antonio, il ricordo
degli Stom svanì nell'oblio e soltanto un illuminante scritto di Antonio
Morassi (1962, pp. 291-306) ha portato alla riscoperta di questo artista
che «fu pittore di paesaggi, di vedute, di battaglie, di quadri di
fantasia e "capricci", ma soprattutto fu un grande "compositore" di
scene storiche, un evocatore incredibilmente dotato di avvenimenti,
cerimonie, fatti memorabili: insomma un "reporter" pittorico ante
litteram e in grande stile». Nel suo studio Morassi restituiva ad
Antonio Stom alcune vedute veneziane che erano state in precedenza
attribuite ad altri artisti, come Luca Carlevarijs, e gli assegnava
anche l'importante serie di tele di palazzo Mocenigo a San Stae
(Venezia) narranti eventi storici della famiglia. Lo studioso osservava
che i dipinti di Stom si distinguono per l'originalità dei tagli
vedutistici e per l'abilità nel movimentare gli spazi: «Egli ama la
folla, le grandi masse di popolo, soldati, nobili, le fogge fantasiose,
i costumi orientali, turcheschi, ed è felice anzi quando può inserire
nelle sue composizioni spettacolari elementi esotici, o maschere, o tipi
stravaganti, che ne aumentino il lato pittoresco». Esemplare in tal
senso è il ciclo delle cinque grandiose tele (riprodotte in Pallucchini
1994, pp. 231-233) che l'artista eseguì per il palazzo Mocenigo a San
Stac, tre delle quali - secondo l'individuazione fatta da de Zucco
(1976, p. 54) - illustrano altrettanti episodi - con due suggestivi
notturni - del soggiorno a Verona nel 1717 di Violante dÈ Medici
"Vedova Elettorale Palatina", che fu ricevuta dal capitano della città
Alvise v Mocenigo. Gli altri dipinti rievocano L'ingresso dell
'ambasciatore Advise II Mocenigo a Costantinopoli, avvenuto nel 1709, e
Il ricevimento alla Torre di Londra dell'ambasciatore Alvise Mocenigo,
il cui stemma di famiglia è visibile sulle sontuose carrozze in attesa
sul molo a destra. Quest'ultimo dipinto, di solito menzionato con lo
sconcertante titolo L'arrivo di nn principe di Svezia o Chioggia, è
sorprendentemente basato, con notevoli varianti, sul dipinto di
Carlevarijs raffigurante Il ricevimento degli ambasciatori Nicolò Erizzo
e Alvise Pisani alla Torre di Londra, facente parte di un ciclo eseguito
dal maestro friulano per la famiglia Pisani verso il 1715-1720 (Succi,
Reale 1994, pp. 212-213). La serie di palazzo Mocenigo, tuttora in situ
e databile - anche sulla base delle notevoli qualità stilistiche al
terzo decennio del Settecento, dimostra, per l'importanza del
committente e per l'impegno profuso dall'artista nell'ambizioso progetto
di esaltazione di quella illustre famiglia, che la fama di cui godeva
Stom era tale da farlo preferire non solo all'ormai vecchio Carlevarijs
ma anche all'esordiente Canaletto. Nel ricordare l'esistenza di un
gruppo di sei scene di vita veneziana (la Regata, il Parlatorio, il
Ridotto, il Ponte dei pugni, la Caccia dei tori, la Festa della Sensa in
Piazzetta), di cui alcune firmate a tergo, Pallucchini (1960, p. 42) ne
sottolineava il grande interesse perché in esse la tradizione
vedutistica di Heintz e il nuovo gusto macchiettistico di Carlevarijs
confluivano in brani gustosissimi «per l'estro indiavolato della
pennellata di tocco, per la mise en page prospetticamente anacolutica,
ma fantasiosa e bizzarra, per la caratterizzazione estrosa delle
macchiette. Insomma un brio narrativo, una spigliatezza nell'abbozzare
situazioni inventive [...] da costituire precedenti essenziali per il
gusto guardesco». Stom intuì genialmente che la vita veneziana e ogni
luogo della città lagunare, con i suoi traffici e le sue feste,
costituiva di per sé un quadro affascinante. L'artista era indotto a
esaltare il lato spettacolare e dinamico della veduta sospingendo gli
elementi architettonici in secondo piano per fare spazio al pittoresco
affollamento delle imbarcazioni o della gente, che costituisce quasi
sempre l'elemento caratterizzante e captante dei suoi quadri. Un esempio
notevole di questo nuovo modo di intendere la veduta, espressa in modo
sommario e riassuntivo, è offerto dal dipinto raffigurante La caccia dei
tori in campo Santo Stefano (fig. 52), forse risalente allo stesso
periodo delle sei scene di vita veneziana ricordate da Pallucchini. La
tela, medita, raffigura il campo Morosini, cioè una parte della città
che era priva di tradizione iconografica, se si eccettua l'incisione con
la Caccia dell'orso a Santo Stefano contenuta nella raccolta di stampe
edita da Domenico Lovisa nel 1717 (Franzoi 1993, pp. 238-239). II punto
di stazione, posto verso il centro del campo, avendo alle spalle la
chiesa di Santo Stefano, consente all'artista di riprendere il momento
culminante della singolare festa, la cui proibizione venne decretata
solo nel 1802, quando il rovinoso crollo di un'impalcatura, causato dal
panico suscitato negli spettatori da un toro imbizzarrito, causò
numerosi morti e feriti. Stom coniuga la novità del taglio vedutistico
con l'assoluta originalità della trasposizione pittorica dell'episodio,
descritto con un gusto cronachistico che focalizza l'attenzione sulle
graziose figure in maschera e sui tiratori, abbigliati in camice bianco
e che reggono le lunghe funi legate alle corna dei tori aggrediti dai
cani. Nella produzione di Tonino, prevalentemente dedicata al capriccio
rovinistico, i paesaggi "puri" sono rari e quasi tutti risalgono
all'ultimo periodo, quando l'artista subì la suggestione delle opere di
Marco Ricci. Esemplari in proposito sono i dipinti esposti in mostra,
raffiguranti ampie visioni prealpine, in cui l'occhio spazia tra fluenti
riviere e deliziosi borghi. Le rade macchiette, toccate a squillanti
tasselli cromatici secondo il particolare gusto dell'artista,
partecipano senza gesti eccessivi allo spettacolo di una natura
grandiosa e solenne, poeticamente evocata. La disomogenea qualità dei
dipinti attribuiti a Stom che continuano ad apparire con una certa
frequenza sul mercato antiquario, è probabilmente ascrivibile agli
interventi della bottega in cui quasi certamente operava insieme ai
fratelli. I modi approssimativi e sommari della sua pittura non hanno
sempre entusiasmato gli studiosi, che hanno espresso giudizi
contrastanti: mentre Morassi (1962, p. 298) ha qualificato Stom come
«artista di gran valore che ebbe una visione precorritrice del mondo
pittorico a venire«, Pallucchini (1994, p. 234), lo ha relegato nella
schiera dei piccoli maestri, pur riconoscendogli «un particolare
significato« nel quadro della cultura pittorica veneta del primo
trentennio del Settecento.
L'Arte dello Stom, come annota il
Morassi, è facilmente identificabile: « i colori sono stesi ad impasto
grasso, a pennellate larghe, dando l'impressione d'una pittura a
spatola, più che a pennello; le forme non sono contornate, non hanno un
nitido disegno, bensì risultano dalle macchie del colore, ciò che si
avverte specialmente osservando da vicino le figure, non per nulla dette
« macchiette », cioè dipinti appunto a « macchia ». Ben lontano dai
rigori prospettici di un Carlevarijs, lo Stom si rivela artista estroso,
geniale, portato ad una concezione atmosferica, squisitamente sciolta e
luminosa della pittura. In questo senso e nel valore fantastico ed
evocativo delle sue immagini, lo Stom, ebbe un posto ben
identificabile nell'arte del suo tempo e fu di stimolo alla stessa
formazione di Antonio Guardi. Nel vedutismo ha una posizione personale
che si stacca da quella più realistica ed obiettiva di un certo gusto
che si andava affermando per seguire soltanto i dettami più profondi
delle sue aspirazioni formali.
Dario Succi.
_______
Francesco Tironi (Venezia 1745 – 1797)
Francesco
Tironi, Veduta delle isole di Murano di San Michele e di San Cristoforo con
le Fondamenta Nuove, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle
Le notizie documentarie su Tironi sono scarse e derivano quasi tutte
dagli scritti del canonico veneziano Giannantonio Moschini
(1773-1840).
Nella sua opera Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino a’ nostri
giorni
(Venezia
1806),
dopo aver accennato alle opere del modenese Francesco Battaglioli,
Moschini scrive: “Qui aggiungerò ch’è a compiangersi il nostro Francesco
Tironi, che morto sia in troppo fresca età da qualche anno, perché i
Porti di Venezia e le Isole disegnati da lui, ed incisi dal nostro
Antonio Santi [sic], ci fanno scorgere quant'oltre sarebbe arrivato".
Qualche anno dopo nella sua Guida per la città di Venezia
all'amico delle belle arti (Venezia-Alvisopoli 1815) accennando alle raccolte
di incisioni raffiguranti le isole della laguna veneziana, Moschini
ricordava “quelle di Antonio
Sandi
dietro i disegni di Francesco Tironi”. Da ultimo nella sua memoria
Dell’incisione in Venezia anteriore al 1840 ma pubblicata postuma (Venezia 1924), Moschini,
sempre parlando dell'incisore bellunese Antonio Sandi (Puos d'Alpago
1733-1817),
ne rammenta le “XXIV isolette delle Lagune Veneziane, in 4, con disegno
di Francesco Tironi”, oltre ai quattro “Prospetti marittimi de’ Porti di
Lido, di Chioggia, di Malamocco e de Murazzi”.
Come si vede le fonti antiche ricordano Tironi esclusivamente come
disegnatore, ignorandone l 'attività pittorica che viene per la prima
volta menzionata da F. De Boni nella sua Biografia degli
artisti
(Venezia
1840)
dove il maestro viene definito “pittore prospettico veneziano” nato
“nella seconda metà del secolo decimottavo” e morto “in fresca età circa
il
1800”. Nessun documento su Tironi venne scoperto nei decenni successivi. Solo
nel 1969 Marina Stefani Mantovanelli, in un articolo
pubblicato nel 1969,rendeva pubblico l’atto di morte avvenuta il 28febbraio 1797, lo stesso anno della caduta
di Venezia. La singolare coincidenza consente di reputare l'artista come
l'ultimo esponente della gloriosa storia del vedutismo durante la
Repubblica Serenissima. Dal necrologio risulta che Tironi era prete,
nato da famiglia friulana (il padre era "dalla Brazza")
residente a Venezia in Corte Colonna e che aveva “anni 52
circa”. Da ciò si deduce che doveva essere nato nel 1745.
Dario Succi
Tironi Francesco -
altri articoli e pubblicazioni :
L'unica opera certa di Francesco Tironi era costituita dalla serie di
bellissimi disegni preparatori per la raccolta di stampe raffiguranti le
isole della laguna di Venezia, che furono incise da Antonio Sandi e
vennero pubblicate dall’editore Ludovico Furlanetto in epoca
imprecisata, ma comunque successiva al 1779
(e quindi molto probabilmente tra il 1780
e il
1785)
perché la raccolta non figura nel catalogo editoriale di Furlanetto
uscito in quell’anno (Succi, Da Carlevarijs ai Tiepolo, Venezia 1983, pp. 344-349). Della serie di disegni lagunari sono conosciuti dieci fogli conservati
in istituzioni pubbliche, di cui sei al Museo dell’Albertina a Vienna (Pignatti
1974, nn. 36-41), due nella Robert Lehman
Collection di New York (Pignatti 1974, nn. 25, 42),uno nella Withworth Art
Gallery di Manchester (Pignatti 1974, n. 43), uno nella
National Gallery of Art di Washington (Pignatti 1974,
nn.
46, 47). Altri cinque disegni della stessa serie si
trovano in collezioni private. Sono noti altri disegni di Tironi raffiguranti vedute di Venezia: sei
sono conservati nel Victoria and Albert Museum di Londra (Pignatti
1974,
nn.
52-57),
unonella National Gallery
of Art di Washington, due nella Pierpont Morgan Library di New York (Pignatti
1974,
nn.
52-57, 47-49),
altri ancora in varie collezioni private.
Mentre la grafica tironiana è stata oggetto di un accurato studio da
parte di Terisio Pignatti, che ha pubblicato in una preziosa cartella la
serie completa in fac-simile delle stampe di Sandi, riproducendo altresì
molti disegni autografi di Tironi (Ventiquattro isole della Laguna /
Disegnate da Francesco Tironi / Incise da Antonio
Sandi,
Venezia, Cassa di Risparmio, 1974), era mancata finora un’indagine critica che
gettasse luce sulla genuina produzione pittorica dell’artista. Eppure i
disegni di Tironi, stilisticamente ben caratterizzati, costituiscono una
solida base di partenza per la ricostruzione della produzione di vedute
su tela. Si ricordi che anche di Michele Marieschi, di cui non si
conosce neanche un disegno, non era noto nemmeno un dipinto firmato e
che la sua produzione pittorica, rimasta avvolta nella nebbia fino alla
mostra monografica curata dallo scrivente (Marieschi
tra Canaletto e Guardi, Castello di Gorizia, 1989), è stata
ricostruita partendo dalla raccolta di ventuno stampe
Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores pubblicata nel 1741.
Come risulta dalla documentazione
grafica lo stile di Tironi è contraddistinto dalla fusione di elementi
canalettiani e guardeschi. Tali caratteristiche compaiono in varie
vedute, che ho avuto modo di studiare nel corso degli anni, che
presentano evidenti affinità stilistiche con i disegni e che sono tutte
databili, sulla base della specifica materia pittorica e di oggettivi
elementi tipografici, alla seconda metà del diciottesimo secolo.
Un vero capolavoro, notevole anche per
le dimensioni (cm 67 x 144; collezione privata), è la
Veduta del molo dal bacino di San Marco che offre una spettacolare
visione panoramica della città lagunare. La veduta (che reca sul verso
del telaio un’antica attribuzione a Canaletto) dimostra che a quell’epoca
l’artista aveva maturato una notevolissima abilità espressiva esemplata
sul gusto prospettico canalettiano, mentre il movimentato gioco delle
imbarcazioni testimonia l’influenza dei modelli di Francesco Guardi.
Caratteri stilistici analoghi compaiono
in una eccezionale serie – la più ampia che si conosca – di quattro
bellissime vedute sicuramente autografe di Tironi (cm 58 x 75 ciascuna,
collezione privata), anch’esse recanti sul verso dei telai antiche
etichette inventariali con titoli in francese e l’attribuzione a
Canaletto. Esse raffigurano Il molo con il Palazzo Ducale visti dal bacino di San Marco,
Piazza San Marco verso la basilica,
La chiesa di San Giorgio Maggiore,
Il Canal Grande con la basilica della Salute. Databile intorno al
1780 questa straordinaria serie di vedute, intrise di magia atmosferica
che rende con efficacia tutta l’intima poesia della città lagunare,
costituisce un documento iconografico fondamentale per la ricostruzione
della genuina produzione su tela del singolare artista-prelato.
Attorno a questo primo nucleo
“fondante” si possono radunare altre opere di Tironi selezionando quelle
vedute che presentano affinità stilistiche, iconografiche e cromatiche,
cercando inoltre di porre le basi per una prima ricostruzione
dell’itinerario artistico.
Dopo la morte di Francesco Guardi (1793),
Tironi impresse alla sua pittura un carattere più spiccatamente
guardesco, forse con l’intento di assecondare la richiesta
collezionistica di opere del grande maestro scomparso. Ad ogni modo la
sua produzione pittorica deve essere stata piuttosto limitata perché le
sue vedute non figurano nelle principali raccolte museali e compaiono
molto sporadicamente sul mercato antiquario, dove più spesso affiorano
opere stilisticamente affini ma di qualità scadente, attribuibili a
seguaci o imitatori. L’esistenza di questi ultimi dimostra che l’artista
dovette godere ai suoi tempi di un notevole apprezzamento da parte dei
contemporanei, come del resto testimoniano le parole di vivo rimpianto
scritte da Giannantonio Moschini ricordando “il nostro Francesco Tironi”
morto “in troppo fresca età”.
Dario Succi
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Gaspar Van Wittel (Amersfoort, 1653 – Roma,
1736)
Gaspar Van Wittel, Il Bacino verso la Punta della
Dogana. Roma, collezione Principe Torlonia
Antonio Maria Visentini,
pittore, disegnatore, incisore, architetto, professore, nacque a Venezia
il 21 novembre 1688 “nel giorno dedicato alla Beata Vergine della Salute” da un
modesto artigiano, un barbiere, morto nel 1709.
Il profilo biografico di
Visentini tracciato da Pietro Guarienti nel 1753, lumeggia gli aspetti di un
professionismo esemplare: “Appresa l’arte di dipingere da Antonio Pellegrini, si
diede allo studio dell’architettura, e da sé divenne uno dei migliori professori
di essa, ed intendentissimo delle regole della prospettiva. Nè di ciò pago ad
intagliare in rame si accinse e ciò eseguì con tale intendimento ed esattezza
che ammirare si fece nelle opere date in pubblico, e principalmente nella
pianta, prospetto, ed interno della Chiesa di S. Marco. Oltre a ciò con molta
sua lode in quaranta rami intagliò le vedute più cospicue di Venezia, cavate da
altrettanti quadri di Antonio Canal, posseduti dal Signor Giuseppe Smith Console
Britannico. Attento, diligente, esatto, indefesso ne’ suoi varj lavori, vive in
patria stimato e riverito per il suo sapere e virtù, ed amato per la sua
modestia, da cui le altre sue belle doti un particolar pregio ed ornamento
ricevono”.
Allievo di Giovanni Antonio
Pellegrini (verosimilmente fino al 1708, quando il maestro partì per
l’Inghilterra) Antonio Visentini praticò la pittura prospettica, di storia e di
figura, come risulta dalle rare testimonianze superstiti: il suo nome compare
nei registri della fraglia per gli anni 1711-1721-1770 (Favaro 1975, p. 155). Al
1717 risale il primo rapporto con Joseph Smith: a Visentini furono pagati 25
zecchini in relazione ad una imprecisata commissione combinata da Smith per
Thomas Coke (Vivian 1971). Come per Canaletto, l’incontro con il conoscitore
inglese fu di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’attività artistica.
Intorno al 1726 Smith prese in affitto dal procuratore Girolamo Canal una villa
sul Terraglio nel territorio di Mogliano, tra Mestre e Treviso; dopo l’acquisto
nel 1731, affidò a Visentini l’incarico di migliorare l’ampia proprietà che
comprendeva anche una chiesa e una colombaia. Otto fini acquarelli, conservati
nella Royal Library, Windsor Castle (Blunt, Croft-Murray 1957, nn. 538-545)
illustrano il complesso architettonico. Il 12 agosto 1722 il Senato accordò il
privilegio per la vendita della serie di stampe con la pianta e gli spaccati
della basilica marciana e di altre chiese cittadine. Le otto grandi tavole della
Iconografia della Ducal Basilica […], incise da Vincenzo Mariotti su
disegni di Visentini, furono pubblicate nel 1726 a cura dell’artista che le pose
in vendita nella propria abitazione in Campiel di Ca’ Zen in Biri, come si legge
sul frontespizio. Una seconda edizione fu pubblicata da Antonio Zatta nel 1761
con il titolo L’Augusta Ducale Basilica dell’Evangelista San Marco […]
(Succi 1986, pp. 141-146). Poco dopo l’elezione, nel 1726, a priore del Collegio
dei pittori, Visentini iniziò ad intagliare le quattordici vedute della serie
Prospectus Magni Canalis Venetiarum derivate da dipinti di Canaletto in
possesso di Smith, raccolte in album nel 1735, cui fece seguito nel 1742 la
prima edizione completa intitolata Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores
[…]. Il primo aprile 1733 furono contati a Visentini centottanta ducati per una
serie di dipinti collocati nella Zecca, andati perduti (Bassi 1962, p.133); nel
1736 l’artista creò il marchio della libreria e stamperia Pasquali: la dea
Minerva entro un cartiglio ornato di motivi classici sovrastato dal nome della
bottega La Felicità delle Lettere, destinata a diventare il più attivo
centro di diffusione degli ideali della borghesia illuminata veneziana. Dal 1735
al 1742 Visentini fu attivo nell’illustrazione libraria per Pasquali e per
Giovanni Poleni, dando prova di notevoli qualità inventive e di una tecnica
finissima nella creazione di deliziosi finalini e vignette con simboli della
Serenissima, motivi floreali e classici, strumenti astronomici e matematici.
Agli inizi del quinto decennio portò a compimento l’importante ciclo pittorico
di capricci architettonici nel Palazzo Contarini a Venezia (Delneri 1986 pp.
53-69). Nel 1744 Francesco Algarotti gli affidò il ruolo principale
nell’esecuzione dei due dipinti raffiguranti La chiesa di San Francesco della
Vigna e L’interno della chiesa del Redentore affiancandogli
Giambattista Tiepolo e Francesco Zuccarelli come figuristi (Succi 1986, pp.
79-94; Pallucchini 1994-1996, II, pp. 410-411). Nel 1745-1746 Smith commissionò
a Visentini e Zuccarelli un ciclo di undici sopraporta con edifici palladiani
immersi nella natura (Levey 1991, nn. 669-676). Nel 1747 l’artista pubblicò la
Raccolta di vari Schizi de ornati di celebre Autore […], una serie di
ventiquattro tavole ornamentali di delizioso gusto tardobarocco, in parte
derivate da invenzioni di Angelo Rosis (Succi 1986, nn. 84-107). Dopo la metà
del secolo si accentuò in Visentini l’interesse per le teorie architettoniche
ispirate dal rifiuto delle stravaganze del barocco e da una ammirazione
incondizionata per Palladio e la classicità. In qualità di architetto
ristrutturò il palazzo ai Santi Apostoli sul Canal Grande, acquistato da Smith
nel 1740, la cui facciata palladiana, inaugurata il 22 ottobre 1751, verrà
sopraelevata da Antonio Selva nel 1784. Nel 1766 costruì il Palazzo Giusti,
attiguo alla Ca’ d’Oro. L’impegno teorico proseguì negli anni sessanta con vari
manoscritti polemici, tra cui il Contra Rusconi, ornato di finissimi
disegni (Biblioteca del Museo Correr, Venezia). Nel 1767 l’editore Pasquali
pubblicò, corredandolo di tavole incise da Visentini, il Trattato sopra gli
errori degli architetti, scritto dal senese Teofilo Gallaccini nel 1621. Quattro
anni dopo (1771) uscivano, presso lo stesso editore, a spese di Smith nel
frattempo deceduto (1770), le Osservazioni di Antonio Visentini […] al
Trattato di Teofilo Gallaccini sopra gli errori degli Architetti. Entrato a
far parte della neonata Accademia Veneziana nel 1755 (donò come pièce de
reception il dipinto Prospettiva con architetti, conservato nelle
Gallerie dell’Accademia), nel 1764 fu prescelto dal consiglio come professore di
architettura prospettica. Ma i Riformatori dello Studio di Padova gli
preferirono Gianfrancesco Costa che tenne l’incarico dal 1767 al 1772, quando
Visentini potè subentrare, mantenendo l’insegnamento fino al 1778. Al 1764
risale probabilmente il manoscritto L’introduzione della soda e reale Architettura e Prospetiva […],
corredato di numerosissimi disegni: proveniente dalla raccolta Cicognara (1821,
n. 871), venne acquisito nell’Ottocento, unitamente alla raccolta libraria del
conte, dalla Biblioteca Vaticana (Cod. Vat. Lat. 8482). In precedenza aveva
portato a termine uno straordinario lavoro di studio e rilevamento di edifici
veneziani, veneti e italiani. I disegni, in parte di bottega, furono riuniti
nella raccolta Admiranda Artis Architecturae Varia (Royal Library,
Windsor Castle) e nei tre volumi commissionati da Smith Admiranda Urbis
Venetae illustranti chiese, palazzi, conventi e scuole della città lagunare
(King’s Library, British Museum, Londra). Altre serie di disegni con edifici
veneziani e romani sono conservate al Royal Institute of British Architects,
Londra (Mc.Andrew 1974).
L’artista morì a Venezia il 26 giugno 1782 all’età di novantaquattro anni e fu
sepolto nella chiesa di San Canciano. Una eccezionale longevità gli aveva
consentito di dare un notevole contributo pratico e teorico alla storia della
cultura visiva veneziana del Settecento: il suo nome rimane legato alle luminose
acqueforti, agli innumerevoli disegni architettonici, alle vignette per libri,
ai trattati antibarocchi, alla testimonianza di un dinamismo poliedrico che
aderì in maniera esemplare agli ideali illuministici del Settecento. L’intera
produzione incisoria, di cui viene qui presentata la parte più significativa
concernente le vedute, è stata schedata nel catalogo della mostra Canaletto &
Visentini, Venezia & Londra (Succi 1986).
Il primo giudizio sulla
qualità estetica delle incisioni di Visentini spetta a Francesco Algarotti che,
durante il soggiorno a Venezia con l’incarico di acquistare dipinti per la
Galleria di Federico Augusto di Sassonia, in una lettera del 17 giugno 1743 (Posse
1931, p.42) scriveva al conte von Brühl: “J’ai inclus aussi deux avis touchant
desEstampes gravées a Venise dignes d’entrer dans le Cabinet du Roy, et dans
celui de Votre Excellence. Les vües de Venise sur tout sont extremement belles.”
La data della missiva e la presenza di un album di Visentini nel
Kupferstichkabinett di Dresda (Heinecken, 1778-1790, III, p. 559) fa ritenere
quasi certo il riferimento alle vedute veneziane che erano state appena
pubblicate (1742). Moschini (ante 1840, ed. 1924, p. 151) osservava, con
notevole finezza critica, che nelle acqueforti di Visentini “vi è franchezza,
spirito, intelligenza, e que’ tagli fuggitivi co’ quali e’ trattava l’acqua in
ispezialità,
sono maraviglia agl’intelligenti […]. Non so, che i biografi degl’intagliatori
ne ricordassero il Visentini. Eppure il meritava quando ancora non avesse che
questa sola opera [le Prospettive di
Venezia] condotta”. Intorno al 1818 don Sante della Valentina, il primo
biografo, ricordava che l’artista aveva intagliato nel “miglior gusto così
architettonico che prospettico […] l’Isolario delle nostre lagune, e lasciò per
tal modo un vero monumento di quello che alcune delle nostre amene isolette un
tempo erano, e più non sono” (Succi 1986, p. 382). Cicogna (1847, nn. 4545,
4592) definì “pregevolissima edizione” la raccolta delle Prospettive di Venezia
e “graziosissime vedutine” quelle dell’Isolario. La lunga parentesi del
successivo oblio induceva Watson nel 1950 (Notes on Canaletto and his
engravers) a definire Visentini “a dim figure”, una figura oscura.
Pallucchini (1941, p. 44), dopo aver riconosciuto all’artista l’impiego di un
tratteggio interrotto e “sbavato”, particolarmente propizio a rendere l’estrema
ariosità dei dipinti di Canaletto, successivamente (1960, p. 174) giunse ad
affermare che “le trascrizioni incisorie di Visentini peccano di fredda
pedanteria”, perché offrirebbero una interpretazione degli originali
canalettiani “vuota” e “abbastanza infelice.” Per Pittaluga (1952, p. 104),
Visentini era “uno degli interpreti del vedutismo obbiettivo settecentesco, a
scopo di ricordo di città, le cui stampe, più che dalla fantasia, sono nate da
uno stato di curiosità: curiosità non priva di vita sentimentale, di grazia,
come tutto ciò che è settecentesco, ma estranea di fatto all’arte”. Dillon
(1976, p. 72) notava che lo stile incisorio di Visentini utilizza un “sistema
semplificato ma continuamente variabile di tratti paralleli intermittenti, con
incroci limitati e leggeri, che riflette senza dubbio lo stile grafico di
Canaletto e sembra denunziare perfino la conoscenza del Visentini di qualche
primizia acquafortistica dell’artista”. L’ipotesi non tiene conto del fatto che
le incisioni visentiniane precedono quelle di Antonio Canal. Dopo il contributo
scientifico di Montecuccoli degli Erri (1980) sugli stati dei quattordici rami
Prospectus Magni Canalis Venetiarum del 1735, Bettagno (1982, p. 25)
rivolse a Visentini il rimprovero di aver “propagandato, non sempre con
risultato positivo, l’aspetto e il valore più topografico di queste opere [i
dipinti di Canaletto] che, nel segno imitativo preciso ma fondamentalmente
freddo del Visentini, ha finito col diffondere l’idea di un Canaletto piuttosto
surgelato”. Le basi di una diversa valutazione critica furono poste nel catalogo
della mostra Da Carlevarijs ai Tiepolo (Succi 1983, p. 416): “I fogli di
Visentini sono tutt’altro che vuoti e freddi perché in essi l’incisore
riproduttore riesce a reinventare in maniera originale l’atmosfera dei dipinti
canalettiani, dandone un’interpretazione personale ricca di sentimento artistico
e pervasa da una singolare verità interiore.”
È già stata rilevata dallo scrivente l’incongruenza del metodo di lettura
utilizzato dagli studiosi per valutare le stampe derivate dai dipinti di
Canaletto, considerando le acqueforti di Visentini “non come espressione di una
tecnica artistica autonoma ma come il tentativo – più o meno riuscito – di
trasferire sulla carta le qualità prospettiche e pittoriche dei dipinti
canalettiani. Siffatta chiave di lettura ha avuto la conseguenza di far reputare
fredde, vuote, prive di respiro atmosferico le incisioni di Visentini,
confrontate con la solare luminosità dei dipinti canalettiani. Ma non è corretto
porre a confronto due generi del tutto diversi come la pittura e l’incisione, di
fatto accettando ancora il declassamento di quest’ultima ad arte minore, sorella
povera in bianco e nero della sontuosità cromatica della pittura” (Succi 1986,
p. 139). Per la sua peculiare natura, la trascrizione incisoria, essendo priva
di quel fondamentale elemento del dipinto che è il colore, può realizzare le
qualità artistiche del modello originale solo secondo una scala di valori
autonomi. I limitati mezzi di cui l’incisore dispone, ristretti al gioco dei
vari tipi di tessitura segnica sul bianco del foglio, impongono l’utilizzazione
di una chiave di lettura diversa, perché diversa è la materia su cui l’artista
interviene: il che non impedisce di riconoscere che l’incisore possa talvolta
trarre da quella fonte di per sé luminosa che è la carta, valori uguali o anche
superiori a quelli dell’opera presa a modello. Come osservava Argan (1970, p.
161), la riproduzione a stampa ha una forza di appello visivo assai limitata di
fronte alle dimensioni talora imponenti o alla sontuosità dei colori di un
quadro. Per tale motivo, essa “piuttosto che contemplata o ammirata, viene letta
e riletta; il suo messaggio è diretto al singolo individuo e il fatto
culturalmente importante è proprio che lo stesso messaggio sia ricevuto
singolarmente da ciascuno”. Considerata in tale ottica, la qualità intrinseca
della produzione visentiniana deve essere valutata prescindendo dal giudizio
“esterno” sui dipinti corrispondenti. Si considerino le venti acqueforti dell’Isolario
che, eseguite tra il 1736 e il 1737, costituiscono invenzioni dello stesso
Visentini (schede nn. 41-60): il punto di vista rialzato, tipico dei vedutisti,
viene abbassato fin quasi al livello dell’acqua con l’intento di infondere una
maggiore naturalezza al taglio prospettico, spogliato di ogni retorica
monumentale. In piena armonia con la spontaneità della ripresa, la tecnica si
avvale di un segno nitido che inquadra gli elementi paesistici e architettonici
in una visione essenziale e fresca, con cieli ariosi che sovrastano gli
incantevoli piccoli mondi lagunari. Le vedutine sono adorne di cornici sempre
variate, in un delizioso intreccio di elementi classici e di ornamenti rococò: a
dispetto della molteplicità degli elementi compositivi – veduta, cornice
architettonica, ornato floreale – ogni vignetta risulta squisitamente tersa e di
incomparabile finezza. Collegate alle visioni insulari dalla comune destinazione
per l’edizione Della Istoria d’Italia di Guicciardini curata da Pasquali
(1738), le tredici lettere dell’Alfabeto figurato (schede nn. 61-73)
costituiscono un altro saggio delle capacità visentiniane: il disegno delle
lettere capitali stacca con misurato rilievo dalla veduta inserendosi nel
quadrato del piccolissimo rame con una felicità di proporzioni che crea un
rapporto perfetto tra forma e funzione. Con una
tecnica incisoria di una pulizia esemplare, l’artista crea una vignetta di
classica compostezza nella quale l’architettura miniaturizzata si offre con una
nitidezza visiva che ne consente la immediata leggibilità. Anche nelle trentotto
tavole Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores […] si rispecchia il
temperamento di un artista che, alieno dal ricorso ai forti contrasti
chiaroscurali, fu un finissimo interprete delle tensioni illuministiche del
Settecento. Dentro la gabbia delle linee prospettiche, la impeccabile sequenza
dei palazzi, nettamente scanditi nei loro volumi, si leva sulle acque del Canal
Grande come una realtà luminosa, immersa in un’atmosfera cristallina e immobile:
dalla limpidezza della descrizione ottica nasce un rarefatto equilibrio
espressivo, un lucido incantesimo. Il disegno impaginativo, coerente fino
all’estremo, salda le architetture, i cieli e le acque in immagini dalle quali è
espunta ogni concitazione: nulla deve turbare il trionfo delle regole
prospettiche, la fiducia illuministica di un’esperienza ordinata, la suggestione
di uno spazio perfettamente misurabile. Studiosi sensibili come Morazzoni (1943,
p. 191), Pignatti (1974-III, p. 15; 1968-II, p. 9), Mason (1973, p.57) hanno
pienamente intuito il fascino di queste acqueforti. Romanelli (1990, p. n.n.) in
occasione della donazione al Museo Correr della serie completa delle lastre
originali, ha osservato che “il Prospectus non è la somma di una serie di
vedute allineate una dopo l’altra: esso è una macchina esplicativa, un sistema
che appare funzionare così, nel suo complesso, nei nessi logici e vedutistici
che evidenziano – richiamandoli o iterandoli – i legami che connettono tra loro
le tavole, che esplicano una parte nell’altra o che anticipano in frammenti
evocativi quelle parti che verranno poi a comporre l’insieme della tavola
successiva.[…] Le lastre del Prospectus ci giungono quindi con la
capacità evocativa e con il fascino alchemico di grandi sublimi specchi della
città settecentesca: dentro di essi – in quello spazio virtuale e illusorio che
è tipico delle superfici riflettenti – mentre si celano profondità
incommensurabili, vengono portati in superficie e rappresentati caratteri,
qualità e forme di un mondo indagato nella sua complessità presente non meno che
disegnato nelle sue potenzialità per il futuro”. Montecuccoli (2002, pp. 49-51)
ha avanzato l’ipotesi di un intervento assistenziale “di tipo disegnativo” di
Canaletto nel miglioramento della resa delle acque avvenuto tra la prima (1735)
e la seconda (1742) edizione della raccolta di vedute. L’ipotesi non considera
che le eccezionali doti grafiche di Visentini si erano già perfezionate nel
1736-1737 con l’esecuzione dei rami delle isole lagunari, i cui accuratissimi
disegni preparatori, conservati al British Museum, ribadiscono l’originalità di
uno stile che nulla deve al lessico canalettiano.
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