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Uno sguardo alle opere “veneziane” di
Zoran Music
Daniele D'Anza
Intervistato sulla
natura di quel Carso in cui è cresciuto, Zoran Music, dopo averne
descritto le note caratteristiche morfologiche, che tanta influenza
avranno sulla sua pittura, indaga ed esplicita l’antico legame con
Venezia: “A dire il vero questa terra non è stata sempre così ingrata.
Ma sono ormai secoli che i nostri signori veneziani hanno completamente
disboscato, senza alcuno scrupolo, questa regione – coperta un tempo di
querce, il cui legno è servito per farne le famose palafitte su cui è
costruita Venezia. Senza parlare degli alberi delle sue galere. Come
vede il mio paese ha contribuito a modo suo alla potenza della
Serenissima”.
La Dominante, insomma, oltre a impossessarsi di quelle terre, ne trasse
giovamento fagocitandone i frutti più interessanti. Destino simile toccò
all’artista Music, “rapito” per sua stessa ammissione da
quell’affascinante e secolare civiltà: “A Venezia ritrovai l’Occidente e
l’Oriente intimamente riuniti attraverso l’antica civiltà veneziana
nella quale c’era in fondo la mia tradizione, la mia verità. Dalle icone
ortodosse, dagli affreschi dei monasteri serbi, passando per i mosaici
bizantini, mi sembrò di approdare direttamente sulla soglia dell’arte
moderna. È a Venezia che si sviluppa la mia opera più ragionata e
personale. Fino a quel momento, credo, non avevo ancora una personalità
ben definita”.
Zoran Music, Motivo Dalmata 1955.
Litografia.
Zoran Music, Cavallini, 1953. Litografia.
Se fra le lagune, nel
secondo dopoguerra, egli elabora i suoi famosi Cavallini e meglio
definisce i Motivi dalmati, d’altro canto sente la necessità di
penetrare l’ambiente circostante, di inserirsi in una tradizione
secolare, che prevede lo studio di quell’impareggiabile paesaggio urbano
offerto dalla città dei dogi. Nascono allora i cosiddetti acquerelli
veneziani, dove il medium pittorico adottato permette all’artista
di creare visioni luminose, intrise d’una serenità di afflato e di
contenuti.
Zoran Music, Porto di Marghera, 1983.
Puntasecca.
Alla Venezia feriale,
Music alterna quella festiva o comunque monumentale: dai Bragozzi nel
Canale della Giudecca colti sia all’attracco che in cabotaggio,
passa alla Basilica di San Marco variamente colorata o alla
liquida raffigurazione di Palazzo Ducale. Opere, eseguite dopo la
tragica esperienza dell’internamento a Dachau, che paiono esser intese
dall’artista stesso a guisa di “nugae, bagatelle poetiche cui Music
riconosce una peculiare capacità di conforto e di sollievo rispetto ai
fardelli del cuore e ai fantasmi della mente; fogli leggeri dunque
affidati all’aria sottile che li pervade e percorsi da segni ancor più
vaporosi ed impalpabili, da tracce di colori tenui, sciolti nell’acqua
della laguna”. Essi esprimono una visione gioiosa ammessa dall’artista
stesso allorquando, nell’ottobre del 1946, esclama: “Finalmente tanta
luce, tanto sole, questo cielo enorme fino all’orizzonte basso della
laguna – tutto per me, dove posso respirare liberamente. Quanto
profondamente dovrei aspirare quest’aria per recuperare tutta quella che
mi mancava? E’ proprio vero che nessuno mi sorveglia, che sono libero di
fare questi acquerelli sulle Zattere? Non ho bisogno di nasconderli, di
piegarli in quattro o perfino tagliarli a pezzi. … Alle Zattere vivo i
giorni più felici. Magari questi acquarelli potessero essere le prime
gocce di una fonte”.
Tra i soggetti veneziani preferiti dall’artista spicca l’edificio
seicentesco della Dogana, avamposto estremo proteso entro il bacino di
San Marco e lambito dalle acque del Canale della Giudecca da un lato, da
quelle del Canal Grande dall’altro. Verso i primi anni Ottanta, egli
ritorna su questo soggetto e la visione è diversa: non più sostanziata
da rapidi tocchi di colore, ma cristallizzata mediante una stesura
cromatica a vasti campi uniformi, che avvolge i volumi in un’impalpabile
crisalide atmosferica.
Zoran Music, Canale della Giudecca, 1981.
Acquatinta.
Zoran Music, Canale della Giudecca, 1981.
Acquatinta.
Contemporaneamente approda allo studio del Canale della Giudecca,
dove, per converso, la tavolozza si avvale soltanto di poche terre, con
le quali riesce a modulare una scala delicata di toni e mezzi toni,
ocra, azzurri stinti, bruni e rosa sottilmente accordati. Mirabile lo
sfondo chiuso da incerti agglomerati architettonici, percepibili
soltanto nei loro volumi, mentre le chiatte per il carburante con
quell’intreccio di tubi, quel groviglio di manicotti e sfiatatoi,
conferiscono a questo ciclo “un forte quoziente antropomorfico, o
comunque organico: quasi un divincolarsi di serpenti o membra umane.
Ormai il battello più non esiste: la scena davvero impressionante e pure
ancora una volta dolcissima si svolge sullo sfondo delle case della
Giudecca. … Il parallelo con i cadaveri di Dachau è impressionante. C’è
chi ha visto (e continua a vedere) un mucchio verminoso che esce dal
basso sporgendosi verso l’alto, quasi con una disperata voglia di
vivere”. Parallelo che coinvolge anche i coevi Motivi vegetali,
dove il tormento degli alberi è della stessa specie di quello dei corpi
scheletrici del campo di concentramento: tronchi stesi a terra dalle
radici dissotterrate, rami senza linfa rinsecchiti e contorti.
Le chiatte per il carburante, che tanta parte giocavano nel ciclo
suddetto, scompaiono in alcune straordinarie visioni della Giudecca
o del Molino Stucky, le cui forme dall’apparenza larvale, evocate
più che definite, sono perennemente avvolte da una caligine greve e
oscura. Il tutto espresso mediante un leggero e quasi monocromatico
impasto, che si raddensa in superficie, lasciando affiorare la trama
della tela.
In relazione a questa produzione si segnalano alcuni disegni, varianti e
viatico per alcune acquaforti del 1983. In queste opere l’artista gioca
sulla contrapposizione fra l’ampia mole del Molino Stucky,
soltanto accennata, e l’avanzare di una piccola e solitaria
imbarcazione. Altre volte lo sfondo è chiuso all’orizzonte dal porto di
Marghera con le sue ciminiere fumanti e con l’inconfondibile arco del
Petrolchimico. Soluzione, quest’ultima, accolta altresì in una rara
incisione, dove un solitario e impassibile pescatore, che assolve a una
presenza umana ricurva e pensosa, in definitiva statica, bilancia e si
contrappone al battello, anch’esso solitario, che procede, si direbbe
inevitabilmente, verso il grande porto industriale.
Zoran Music, Reti di pescatori, 1958.
Acquatinta.
In precedenza, nella prima metà degli anni Cinquanta, furono le Reti
e le Nasse dei pescatori di Chioggia ad attirare la sua
attenzione, sedotto forse dagli sviluppi, in senso astratto, che quelle
linee sinuose promettevano. Le flessuosità dei cordami posti in tralice
o esibiti verticalmente, a guisa di festoni o trofei ittici, si
distendono in uno spazio non altrimenti definito. Una poetica che
confluirà, al pari dei Motivi dalmati e dei Paesaggi senesi,
in quel “primo periodo astratto” delineato da Del Giudice in un suo
recente intervento, di contro al secondo periodo che lo porterà a esiti
vicini alla coeva pittura informale. Egli, in questo ciclo, alterna un
processo di schematizzazione formale a una visione intesa in senso
naturalistico, con la risultante di una percezione spaziale ancora
tangibile.
Zoran Music, Cattedrale 1984.
Puntasecca.
Gli interni delle
Cattedrali fanno la loro comparsa già nel 1944, ma è negli anni
Ottanta che Music, riprendendo quel tema, ne approfondisce il contenuto,
concentrandosi esclusivamente sulle controfacciate. Egli predilige il
silenzio e la penombra della navata, dalla quale scruta non la facciata
accesa dal sole, ma l’altro lato, quello “oscuro”, del monumento.
Conforme a questo atteggiamento, la pittura si fa discreta e silenziosa,
evocatrice di forme impalpabili che pur appaiono maestose. Visioni lievi
e trasecolate, immerse in una dimensione onirica o comunque metafisica,
si sostanziano in forme evocate entro un pulviscolo atmosferico intriso
di una sommessa religiosità, filtrata attraverso i vetri policromi dei
grandi rosoni posti al centro, i quali diffondono, soffusa, all’interno
del luogo sacro, la luce rivelatrice.
L’accentuata bidimensionalità di quest’opere, tutte portate in
superficie, permane nelle Facciate di palazzi veneziani dove, a
volte, l’artista compare a una finestra, timido inizio di una poetica
sviluppata e approfondita negli ultimi anni e che lo vedrà coinvolto in
riflessioni sempre più intimistiche e introspettive, si pensi al ciclo
noto come Atelier o agli ultimi Ritratti e Autoritratti.
Nelle Facciate l’artista ritorna a ravvivare la tavolozza,
recuperando gli ocra, i gialli, i rossi spenti e le forme trovano nel
colore stesso la loro fonte luminosa; si avverte un’armonia cromatica
orchestrata con crescente ricchezza e sonorità. È questo un linguaggio
che, pur staccandosene, non rifugge il contingente, ma lo cita in
trasparenza, immergendolo in una dimensione sospesa, ma non per ciò meno
reale.
Daniele D’Anza
Zoran Music
pittore europeo (Atti della giornata di studio, Trieste, Museo
Revoltella, 9 maggio 2009), Trieste, Il ramo d'oro editore, 2009.
P.S.: Per motivi di spazio
sono state omesse le note dell'autore.