Articoli correlati:
Condividi su
Facebook
Anton Zoran Music
Alessandra Doratti
Anton Zoran Music nasce il 12 febbraio 1909 a Gorizia (allora
austro-ungarica), discendente da una famiglia di possidenti e produttori
vinicoli del Collio goriziano. Il padre era direttore di scuola
elementare e la madre insegnante. Allo scoppio della prima guerra
mondiale la famiglia viene trasferita a Völkermarkt, in Carinzia. Qui
Zoran inizia i suoi studi liceali che terminerà poi a Maribor. Prima di
iscriversi all'Accademia di belle arti a Zagabria, trascorre brevi
periodi a Vienna dove conosce molti giovani dell'ambiente teatrale e
letterario. I primi incontri con la pittura sono Klimt e Schiele e, più
tardi, gli impressionisti francesi a Praga. Il suo maestro in Accademia
è Babic, l'allora più celebre pittore croato; questi parla con
entusiasmo al giovane Zoran della pittura spagnola e soprattutto di Goya.
L'artista nel 1935 trascorre due anni di studio a Madrid dove esegue
delle copie dalle pitture nere di Goya e da El Greco. Seguono poi nella
sua vita dei lunghi soggiorni in Dalmazia e il tanto amato paesaggio
carsico diventa determinante nell'evoluzione della sua pittura. Nel 1942
rientra in Italia, dove soggiorna a Gorizia, Trieste e Venezia. Nel 1944
viene arrestato dalla Gestapo e trasferito a Trieste. È accusato dalle
SS di amicizie e collaborazione con gruppi antitedeschi, e viene
deportato a Dachau. Nel campo di concentramento riesce a procurarsi la
carta e a disegnare. Poco dopo a causa di una grave angina lo ricoverano
nell'infermeria, dove infuriava il tifo petecchiale e dove i
prigionieri, stremati, morivano a un ritmo inverosimile. Egli ricorda:
«Ancora oggi mi
accompagnano gli occhi dei moribondi come centinaia di scintille
pungenti che mi seguivano mentre mi facevo strada, scavalcandoli. Occhi
luccicanti che in silenzio chiedevano aiuto a uno che poteva ancora
camminare. Erano le ultime settimane del campo e questi moribondi erano
i resti di trasporti evacuati a piedi dagli altri campi lontani. Quelli
che sono stati trascinati fino qui e che non sono morti ai bordi delle
strade. Verso sera quelli che morivano e tra loro anche quelli solo
creduti morti venivano accatastati come pezzi di legna su un mucchio,
come per un rogo, quasi una torretta. Una torretta allucinante che si
muoveva, che scricchiolava, si direbbe, se questo scricchiolio non fosse
gli ultimi gemiti.
Durante la notte è caduta leggermente la neve - eravamo in marzo -, la
mattina dopo la torretta non si muoveva più. Si viveva in un mondo fuori
da tutto quello che si poteva immaginare. In un mondo assurdo,
allucinante, irreale. Forse su un altro pianeta. Come strane regole, un
ordine preciso, crudele, portato al limite di credibilità. Visti da
lontano mi sembravano come chiazze di neve bianca, argentea sulle
montagne, come macchie bianche di gruppi di gabbiani appoggiati in
laguna sullo sfondo scuro della tempesta. Disegnando mi aggrappavo a
mille particolari. Quanta tragica eleganza in questi fragili corpi. I
dettagli così precisi. Queste mani, le dita sottili, i piedi, le bocche
aperte nell'ultimo tentativo di respirare ancora un po' d'aria. Le ossa
coperte da una pelle bianca, quasi celestina.»
«...ho imparato a vedere le
cose in un altro modo. Dopo le visioni di cadaveri, spogli di tutti i
requisiti esterni, di tutto il superfluo, privi della maschera
dell'ipocrisia, delle distinzioni di cui si coprono gli uomini e la
società-, credo di aver scoperto la verità, di aver capito la verità, -
la terribile e tragica verità che mi è stato dato di toccare».
Nel 1946, dopo che il campo è liberato dagli americani, Music ritorna in
gravi condizioni di salute a Gorizia e poi a Venezia. Riprende
l'attività esponendo a Roma, Ginevra, Zurigo e New York. Nel '51 vin-ce
a Cortina il Premio Parigi, attribuitogli da una giuria di critici
francesi; nel '52 si stabilisce a Parigi. Negli anni a venire riceve
vari premi e dal '61 comincia una serie di esposizioni nei musei e nelle
gallerie tedesche, jugoslave e austriache. Nel '73 vince il Gran premio
della pittura alla Biennale internazionale di Mentone e si dà inizio a
numerose sue retrospettive in tutta Europa e in America.
Music appare come un pittore del sentimento; ha sempre dipinto di ogni
cosa, paesaggio, persona e oggetto, l'essenza; con occhio abituato alla
contemplazione, al guardare prolungato entro la solitudine, è andato
sempre oltre la superficie. Nessuna cosa del mondo è se stessa nella sua
mutevole apparenza, ma lo è nella sua immutabile interiorità. Per
arrivare alla compattezza spirituale di ciò che è dentro, sono necessari
un nativo impulso, una difficile e particolare formazione, la forza
della solitudine, l'arte del silenzio, un rapporto col mondo che conosce
la caducità del suo volto colorato e felice, la permanenza delle sue
note grigie e dolenti. Queste sono le concezioni della vita che Music ha
avuto in sorte e ha condotto in una zona di margine, o di incontro, tra
civiltà diverse; di confini o di centralità. Forse non esistono zone
marginali, poiché non esiste un centro nella vita degli uomini: dove un
uomo nasce, vive, assimila esperienze e cultura, lì è il centro.
Silenzio, solitudine, libertà e senso di uno spazio che va oltre
l'immagine sono caratteristiche fondamentali dell'opera di Music. Ma
questa amplificazione dello spazio non è ottenuta con l'uso della
lontananza, dello sprofondamento, nasce anzi da quella specie di arresto
spaziale che è la bidimensionalità, come un rilancio verso ciò che non
si conosce, la fissazione di un mistero, di un ignoto.
Stando alla critica, si sa che questo elemento in Music deriva dall'arte
bizantina, è il segno del suo "orientalismo" ed è il modo per lui di
creare quel distacco dalla realtà che funziona da filtro poetico: tutto
ciò che passa come giunto attraverso il setaccio deformante della
memoria, si fissa immobile e diventa poesia. La bidimensionalità volta
ad accentuare il momento della meditazione, dell'evocazione, altera così
lo spazio, lo trasforma da spazio della realtà in spazio della fantasia,
del ricordo, dello spirito, altera il tempo, rende immobile ed eterna
l'immagine.
Avviene nella pittura di Music qualcosa di inesplicabile, lavora al suo
centro come in un nucleo di mistero: ciò che è scabro si trasforma in
tenero, ciò che è buio in luminoso, ciò che è povero in lirico, un
edificio in fantasma, l'orrore in bellezza, la decomposizione in
preziosità, un atelier in un grande spazio aperto, un interno di
cattedrale in un sogno vago, l'architettura in musica. In Music, quanto
nella superficie di una tela può sfuggire è immobile, fissato, senza
tempo, senza ora, senza epoca, senza realtà; la sua è un'opera ferma, di
tempo solidificato, di durata eterna.
I suoi paesaggi sono i luoghi privilegiati della sua vita: carsico,
dalmata, castigliano, senese, umbro, appenninico, dolomitico. Essi
formano una lunga sequenza di scabra poesia che ha pochi paragoni
nell'arte contemporanea. Desolato, ridotto ed essenziale, seppur dolce e
sensibilissimo, deposto in delicate "soffiature", in efflorescenze
tenaci ed esili al tempo stesso, in luminose velature, in tenerezze
tonali, ci appare il colore: madreperle, terre, rosature antiche, quasi
carnali, azzurri; il tono dominante è quello appena bruciato, appena
scaldato delle terre, dei vecchi legni, della polvere, delle rocce
abbrunite, dei cespugli secchi, delle crete millenarie, dei cadaveri e
del miele. Talvolta i colori sono più accesi anche in chiaro-scuri, o
meglio in giochi d'ombra e di luce, dove le immagini sono fatte di
vento, di sole, di macchie, di nuvole; mentre a volte sulla luce
omogenea del fondo, su quei toni distesi in sottili paesaggi, pochi
tocchi di bianco, di rosso, di azzurro brillano come pietre preziose e
rendono l'immagine simile a un reliquiario sontuoso, ma che racchiude
resti di morte. È difficile da descrivere il suo senso del colore
poiché è completamente interiorizzato in ogni punto dell'opera. Artista
difficile per la complessità delle esperienze, per le sue divagazioni,
ha permesso alla critica ogni tipo di interpretazioni, ponendosi in
realtà come uno degli esponenti più responsabili e impegnati di tutta la
pittura europea dal '45 a oggi. Solo recentemente i critici sono
riusciti a considerare la sua opera come un corpus unico e omogeneo,
nella sua interezza, sorta da profondità di spirito e di ispirazione mai
mutate, sottoposta solo alla variabile figura dei temi, dei periodi,
delle vicende, degli affinamenti che lo stile ha subito nel suo
ininterrotto avanzare. In precedenza era d'uso consueto opporre delle
divisioni precise, con diversità di giudizi qualitativi, di
comprensione, di "ascolto". L'opera di Music si svolge in una completa
armonia, un lungo percorso che unisce i primi quadri (quelli a "motivo
dalmata") agli ultimi (il ciclo del "doppio ritratto"); un grande
"insieme" con un cuore segreto e doloroso, perennemente ferito, che
irradia la sua drammatica ombra. Forse che prima della sua opera non vi
sono i disegni fatti nel campo di concentramento di Dachau, anche se a
lato dell'opera per la mancanza di elaborazione fantastica e poetica,
nel loro eccesso di verità? Forse è in quella esperienza estrema,
vissuta sul margine tra la vita e la morte, che Music ha imparato a
conoscere la verità di ciò che è dentro, a vedere sempre oltre la
superficie, la miseria dell'uomo, le ossa sotto la pelle, i sentimenti
elementari sotto le complicate apparenze. È lì che abita la verità, sui
margini della poesia.
Alessandra Doratti