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Giovan Battista Piranesi (Mogliano Veneto 1720 – Roma 1778) - lo stile pittorico

 

 

Per comprendere lo sviluppo del Piranesi acquafortista ritengo necessario scindere la sua produzione in due macro-gruppi: uno concernente le vedute di città, piazze e quant’altro, anche di invenzione ma sempre legati ad un linguaggio urbano, e uno riguardante quei soggetti non necessariamente legati alla città ma frutto della più libera fantasia e della situazione personale dell’artista. Partendo dal primo insieme di opere si può infatti notare come le vedute giovanili (Veduta di Piazza del Popolo e Veduta di Palazzo Mancini, databili intorno al 1750) riflettano la lezione dei grandi artisti veneti quali il Canaletto e Giambattista Tiepolo, poiché in queste prime opere si osserva una luce soffusa e armoniosa lambire dolcemente i palazzi, le chiese e le strade; un’atmosfera serena resa tale grazie ad una profondità di incisione pressocchè uniforme in ogni parte della lastra di rame.

Risulta molto arduo separare la produzione piranesiana dalle sue esperienze biografiche: non è infatti casuale che le incisioni del Piranesi presentino una forte impostazione scenografica, molto probabilmente figlia di quel periodo di apprendistato presso i fratelli Valeriani. Ma, nonostante la teatralizzazione delle visioni sia un effetto costante nella produzione di questo artista, «il volerne fare l’asse portante […] porterebbe ad una loro banalizzazione» (Contessi, p. 16). Il periodo successivo mantiene, anzi esaspera, questa impronta teatrale, e segna inoltre una svolta nello stile piranesiano (si veda la Piramide di Cestio, del 1756, oppure Veduta dell'Anfiteatro Flavio detto il Colosseo, realizzata una ventina di anni piú tardi): anzitutto il disegno realizzato direttamente sul rame dà un'impostazione pittorica all’incisione, il cui pittoricismo viene ulteriormente enfatizzato grazie ad un innovativo modo di condurre la morsura. «Rovesciando ogni tradizione, osando tutto nella spavalda sicurezza del suo temperamento prepotente, avventava l’acido al metallo fino a squarciarlo in solchi di ampiezza e profondità mai vedute […]. Ritengo che il segreto del solco piranesiano sia soprattutto nella sua profondità» (Carlo Alberto Petrucci in: Pratz, pp. 981-982). Una ricchissima graduazione di toni, quindi, che amplifica ulteriormente quell’effetto di esaltazione monumentale ricercata dall’artista tramite espedienti come il rimpicciolimento delle  figure e l’adozione di un adeguato punto di vista, in genere leggermente ribassato. Ciò che ne scaturisce è una veduta piú soggettiva, più coinvolgente ed indubbiamente più emozionante, ottenuta portando all’eccesso quelli che erano i codici iconografici dei secoli precedenti, riassumendo e stravolgendo quello che prima di lui avevano fatto i vedutisti da Van Wittel a Pannini.

Un paragone con le opere del suo maestro Giuseppe Vasi può far comprendere appieno quale fosse la differenza tra un vedutista “tradizionale” e il Piranesi, vero e proprio creatore dell’antico. Mentre il primo realizza incisioni in cui lo sterrato sembra tirato col pettine, in cui gli oggetti appaiono generici e fermi, in cui la prospettiva è senza profondità, il Piranesi, spinto da un interiore senso del tragico, da un personale compiacimento verso la desolazione e la fatiscenza, da una sensibilità prospettica senza uguali, crea «una città dove tutto vive, tutto è aggressivo» (Pratz, p. 978), dove le strade sono infinite e i palazzi monumentali, dove la luce non si dissolve armoniosamente sulle superfici ma le attacca. Le incisioni tarde dell’artista veneto abbandonano in parte questo atteggiamento irruente, molto probabilmente anche a causa dell’apporto del figlio nel realizzare alcuni lavori, come ad esempio le vedute di Paestum: queste infatti recuperano alcune caratteristiche delle prime incisioni, presentando una maggiore uniformità di distribuzione di chiari e scuri.

Analizzato il gruppo delle vedute, un’attenzione particolare meritano quelle tavole in cui domina l’elemento fantastico-irrazionale e in cui il carattere soggettivo e personale della visione risulta ancora più evidente: di queste fanno sicuramente parte i Grotteschi. Nonostante siano grosso modo coevi alle vedute di impostazione veneta accennate poc’anzi, questi si distanziano da quelle sia per quanto riguarda il soggetto trattato, sia per lo stile: infatti, mentre nei paesaggi romani è evidente che il Piranesi parta da un dato topografico reale per poi reinterpretarlo, nei Grotteschi l’ambientazione è assolutamente estranea alla realtà, direi quasi onirica. Il disfacimento morale e la decomposizione fisica dei personaggi qui rappresentati, figli dell’allegoria della decadenza contenuta nel frontespizio della Prima parte di Architettura e Prospettive, sono stati variamente interpretati. Ad ogni modo, qualunque sia il significato datogli dal Piranesi, ritengo possa essere facilmente accettata l’idea che queste incisioni siano la metafora figurativa di un disagio interiore dell’artista derivante da un periodo, quello degli anni Quaranta, di incertezze lavorative (non riusciva a trovare lavoro come architetto) e delusioni personali. Un disagio che viene esasperato dall’energica conduzione del bulino, a sua volta resa più espressiva nelle Carceri d’invenzione (la cui prima edizione è contemporanea ai Grotteschi), nelle quali il segno grafico risulta estremamente gestuale e quasi irrazionale. Infatti, nonostante ad un primo esame superficiale queste tavole sembrino non mostrare altro che degli enormi sotterranei a volta con gigantesche scale e tenebrosi macchinari da tortura, ad un esame più approfondito si può scorgere come le scene, cariche di una tensione drammatica fortemente teatrale, sembrino essere invece una trasposizione pittorica di quelle «metafisiche prigioni che sono site all’interno della mente, le cui mura sono fatte di incubi e di incomprensioni» (Huxley, p. 197). A livello stilistico, nelle Carceri si ritrovano tutte le peculiarità di magnificenza e grandiosità tipiche delle vedute pianesiane, nonostante in queste incisioni il risultato sia sostanzialmente diverso. Se in quelle la sovradimensionalità proporzionale è infatti mezzo atto a rievocare il glorioso ma perduto passato di Roma, in queste le mura enormi, le scale infinite e i giganteschi macchinari comunicano un silenzioso senso di solitudine, acuito dalla presenza di anonimi esseri umani che, disillusi spettatori di questa magnificenza fine a sé stessa, sembrano anime perse in un labirinto senza fine.

 

 
Mirko Moizi