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Giambattista Mengardi (Padova 1738 – Venezia 1796) - lo stile pittorico
“La produzione pittorica di Giambattista Mengardi è interessante, più
che per le sue qualità intrinseche, per i mutamenti di gusto che essa
documenta nel contesto della pittura veneziana degli ultimi decenni del
Settecento, quando alle libere forme del rococò vengono sostituendosi
moduli più contenuti, in ossequio alle teorie di Mengs sul «Bello
ideale» e per influenza della scuola romana della pittura. Mengardi è
ricordato appunto come diffusore dell’opera di Raphael Mengs a Venezia,
oltre che per aver avuto allievo il giovane Canova quando quest’ultimo
frequentava l’Accademia del Nudo negli anni tra il 1769 e il 1776” (Pavanello
1974).
Egli svolse un ruolo di primo piano nel processo di rinnovamento in
senso classicistico della pittura veneziana nell’ultimo Settecento,
specie nel campo della decorazione d’interni. “Il ciclo di maggior
rilievo si conserva in palazzo Bellavite-Baffo a San Maurizio [a
Venezia], esteso a pareti e soffitto d’una stanza al mezzanino, dove
intervennero, nei vicini ambienti, Giuseppe Bernardino Bison e il
figurista Pietro Moro. Siamo nell’ultimo scorcio del XVIII secolo e
mentre il più geniale Bison è ancora costretto al ruolo di ornatista,
Mengardi sperimenta il genere aulico del finto rilievo: un genere in
voga in quegli anni specie per i colti rimandi all’antico. Solo a
monocromo è realizzata, infatti, la decorazione di questa stanza,
affacciata su campo San Maurizio: quel monocromo apprezzato dai teorici
rigoristi dell’età neoclassica come il mezzo più idoneo a interpretare
in pittura, e in particolare nella decorazione ad affresco, le istanze
razionalistiche allora in voga. […] Su vasti spazi, dunque, si
punteggiano gli affreschi, secondo lo spirito delle incisioni ercolanesi.
[…] L’impiego esclusivo del monocromo è particolarmente idoneo perché
Mengardi possa esprimersi al meglio, data la qualità del suo stile,
formato sulle stampe, come già precisava Giannantonio Moschini. […] Come
grandi disegni finiti sono trattati i nostri monocromi, impreziositi da
tocchi come a biacca, con effetti di lumeggiature preziose che ravvivano
le composizioni, conferendo loro un più accentuato risalto plastico” (Pavanello
1999).
Realizzati presumibilmente tra il 1759 ed il 1767, quindi prima del suo
trasferimento a Venezia, il Sacrificio di Isacco e la Cacciata
di Caino
della chiesa parrocchiale di Campagna Lupia (Padova) rivelano “una
pittura di forte effetto, dagli sbattimenti forti di luce, una luce
giallastra e livida che domina i secondi piani e gli sfondi. Le forme
sono fortemente accademizzanti, al limite dell’accademia seicentesca,
come nel nudo riverso di Abele per il quale si possono trovare più
illustri precedenti nei caravaggeschi (Renieri) o nei «tenebrosi» (Langetti).
Il disegno è netto e marcato, e le stoffe crepitano come al solito in
Mengardi: se a tutto ciò aggiungiamo anche la caricata «espressività»
dei volti – si a guardi a Caino, dalla capigliatura svolazzante secondo
i correnti canoni neoclassici – se ne ricava in effetti l’impressione di
un pittore di transizione, incerto tra soluzioni nuove, e un rococò
oramai superato” (Fantelli 1984). La pala d’altare, raffigurante l’Immacolata e San Luigi, firmata e datata 1783, della chiesa dell'Immacolata Concezione di Maniago (Pordenone) è invece “condotta con estrema eleganza, quasi, si direbbe, in chiave pittoniana. Nonostante la data, non ha affatto sentore di quel gusto neoclassico che, dopo il ritorno del Novelli da Roma, si era diffuso anche fra le lagune; ma forse l’artista si sentiva più libero lavorando per la provincia che non per la nobiltà e la borghesia, ormai affascinate dalla moda neoclassica, alle cui aspettative doveva corrispondere” (Pallucchini 1995).
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