Francesco Fontebasso
(Venezia 1707 -
1769)
- lo stile pittorico
“Avendo inclinazione
naturale per la pittura, si mise a studiare sotto la disciplina di
Sebastiano Ricci attendendo con tutta diligenza ad imitare la del suo
maestro, come si vede nelle sue egregie operazioni” (A. Longhi 1762).
“Il pittore, nato nel 1707, dalla scuola del Ricci aveva tratto il ritmo
composito, la pennellata sfrangiata e luminosa ed una ben individuata
tipologia, cui, dopo il viaggio di perfezionamento a Roma e Bologna,
aveva aggiunto un gusto d’impianto prospettico-quadraturistico
scenorafico che, unito al plastico modellato chiaroscurale romano,
diluendo il suo iniziale riccismo, lo farà avvicinare al pathos
aggressivo ed impetuoso del giovane Tiepolo. A questi tenterà di
accostarsi Francesco anche nella ricerca di spazi liberi, di cieli
aperti «ad infinitum», di un colorito dissolventesi in pura luminosità
atmosferica, non riuscendo tuttavia mai a sganciarsi completamente da
quell’idea di materia e di articolazione della forma, che gli perdurerà
in qualcosa di sgraziato e caricato” (Magrini 1974).
“La sua attività fu così vasta, direi torrentizia, soprattutto di una
disponibilità di generi così abbondante che finora è stato difficile
schedarla sotto un unico denominatore. Alla pittura, cioè di soffitti,
unì quella di storia; eseguì molte opere di carattere religioso, non
disdegnò la pittura di genere, dove anzi lasciò le sue pagine forse più
schiette; fu ritrattista ed incisore. Insomma il Fontebasso provò molti
registri, tenne le mani su molte tastiere, con una disinvoltura ed uno
slancio ai quali non corrispondevano altrettante qualità di espressione
poetica. Non che gli mancasse una certa fisionomia di stile, ma non
riuscì mai a decantare in vena poetica quella rude e grezza forza di
racconto pittorico che era in lui la qualità forse più fervida ed
accettabile” (Pallucchini 1957).
In uno dei primi lavori, la Natività del Duomo di Burano a Venezia, “il
problema spaziale non si è ancora proposto e le figure risultano
ammassate in uno spazio chiuso [...] la Vergine ha i caratteri somatici
tiepoleschi, mentre dai volti dei pastori traspare una volontà
espressiva, quasi espressionistica e nel giovane di sinistra si nota
quasi un riverbero del luminismo caravaggesco” (Magrini 1974).
Un’impaginatura più complessa dimostra il Transito di San Giuseppe della
chiesa di Cison di Valmarino (Treviso), il quale “ha il suo punto di
forza nell’effetto scenografico della luce che scende dall’alto ad
illuminare in modo più netto la figura patetica del morente e l’angelo
che l’assiste. Essa lascia ritagliare di profilo la figura di Cristo,
quindi, diffusa e riflessa, gli dona una maggiore evidenza plastica e
chiaroscurale” (Fossaluzza 1984).
Successivamente il suo fare, stimolato dalle grandi imprese decorative,
diviene ampio, solenne e “s’appoggia ad una plasticità risentita nella
forma pittorica, resa luminosa dallo spazio aperto nel fondo” (Pallucchini
1980).
La Continenza di Scipione del Szépmüészeti Mùzeum di Budapest per
esempio “ha una tonalità piena e solenne: abbonda di bellissime figure
secondarie ed è divertente in quanto ritrae uno dei protagonisti, il
giovane Cartagena che ringrazia il duce romano vincitore, come un
ballerino che rasenta la caricatura. Questo quadro mette particolarmente
in evidenza il modo di dipingere del tutto personale del nostro artista:
lo spalmare pastoso, tratteggiato dei colori che vale a sostituire quasi
la firma e renderebbe sicuramente individuabili anche le opere che
fossero frammentarie” (Pigler 1959-60).
Tra i numerosi cicli di soggetto storico eseguiti ad affresco per il
patriziato veneto, la decorazione di Villa Ca’ Zenobio a Santa Bona
(TV) e della sua Barchessa, è di certo uno degli esempi più felici. Sul
lato maggiore della Barchessa vi è raffigurato un Trionfo nel quale un
“imperatore romano assiso in un sontuoso carro, ornato con le figure
allegoriche della Fama e della Vittoria comanda il solenne corteo.
Dinnanzi avanzano, in catene, due nemici sconfitti mentre il porta
insegne, accanto ad alcuni dignitari, issa sulla lancia le armi dei
vinti. Il seguito, composto da soldati esultanti, si snoda fino ad un
grande arco a tre fornici, mentre sullo sfondo, avvolti in un pulviscolo
rosato, si scorgono templi, torri, piramidi e palazzi” (Fossaluzza
2004). Il lato minore invece ospita un ricco Banchetto dove “corpulenti
dignitari dai larghi volti con gli occhi acuti e fissi, vecchi barbuti
con turbanti fantasiosi e dame aggraziate, siedono alla ricca mensa,
mentre i servitori solerti, tra i quali l’immancabile negro, si
avvicendano con le portate e militi ossuti e piumati, con lunghe lance,
sorvegliano discretamente l’andamento del banchetto. Ariose arcate
sormontate da fregi classici e culminanti con balaustra coronata da
statue, fan da campo alla scena” (Precerutti Garberi 1968). “Ai lati,
seppur connessi all’evento centrale, l’episodio del concertino e quello
della dispensa potrebbero apparire come scene di genere nate in modo
autonomo. Indipendenti, seppur sempre inserite in un contesto organico,
figurano altresì le scene d’ascendenza veronesiana del Moretto col
pappagallo dinnanzi alla dama, del Nano con un pechinese e un soldato
[...] o ancora la Coppia di innamorati, o la Dama col cavaliere situati
in paesaggi sereni. Pause pacate di una narrazione a tratti gremita e
concitata. Vere e proprie divagazioni aneddotiche, brani desunti dalla
vita contemporanea e vivificati dalla naturalezza degli atteggiamenti.
Fontebasso in questo caso mette da parte la vena celebrativa e
declamatoria del dipinto storico e si riconduce al senso della realtà
quotidiana. Attitudine peraltro confermata da quelle gustose scenette di
genere, come la Fanciulla che mangia la pappa del Nationalmuseum di
Stoccolma” (Fossaluzza 2004). Motivi decorativi di chiara ascendenza
veronesiana si affiancano a riprese dal repertorio di Ricci e da quello
di Tiepolo coniugati però “con un gusto del comporre tutto suo, con uno
stile cristallino, di una corposità porcellanosa del tutto personale” (Precerutti
Garberi 1968).
Dopo il ritorno dalla Russia (1762), oltre all’incarico di decorare il
soffitto della sede dell’Accademia al Fonteghetto della Farina, gli
vennero commissionati gli affreschi dei soffitti di Palazzo Diedo;
ulteriori testimonianze del successo dell’artista presso la commitenza
veneziana, i quali “rivelano in alcune parti una notevole forza di
colore” (Pavanello 1976). D’altra canto che il suo stile non sia in
crisi, lo prova la pala raffigurante la Madonna col Bambino in trono e i
Santi Martino e Carlo Borromeo, eseguita tra il 1762 ed il 1764 per il
duomo di Tolmezzo (Udine), dove “alla ritmica impaginativa e alla
scultorea articolazione delle figure fa eco la tensione del colore, un
continuo zampillare di materia, deposta con tecnica `puntinistica' e a
svirgolature, sulla macchia di fondo lievitante di luce” (Rizzi 1966).
“Rispetto alla splendida pala della chiesa veneziana di San Salvador, di
un quarto di secolo prima, tutta crepitante di colore, si ravvisa qui un
senso di monumentalità più riposata ed accademica, senza peraltro che
quel gusto così sensuoso della materia pittorica si affievolisca” (Pallucchini
1995).