Giuseppe Bernardino Bison (Palmanova 1762 – Milano 1844) - lo stile pittorico
“La vicenda artistica
di Bison sembra essersi attivata sotto la spinta di una tensione
sostenuta da uno stile che nella sensibilità per la buona pittura
ricerca un assunto tale da preservarla dalle eleganze e dalla misura
formale del gusto neoclassico, affermatosi in quegli anni, e che nella
pratica artistica del maestro corrisponde ad una sostanziale divergenza
nei confronti delle tendenze più moderne. L’impossibilità di
identificare l’arte di Bison con le «avanguardie» del tempo parte, a ben
guardare, sin dalle origini della sua formazione a Venezia.
L’Accademia veneziana al Fonteghetto della Farina non forniva in quegli
anni le migliori occasioni per aggiornarsi sulle più avanzate tendenze
classicistiche. Significativamente proprio nell’autunno del 1779, quando
Bison si accingeva ad entrarvi, Canova lasciava l’Accademia e Venezia
per raggiungere Roma, dove avrebbe trovato le manifestazioni più
complete della cultura europea di quei decenni” (Magani 1993).
“Nel noto dipinto di Bison Gruppo di figure in un interno di palazzo
Pola (Treviso, Museo Civico) risalta la doppia specialità dell’artista,
che si applicò tanto alla produzione di genere (e la scenetta qui
situata al centro della composizione ne è un esempio) quanto alla misura
monumentale della decorazione ad affresco: l’interno qui raffigurato
esibisce infatti pareti e soffitto interamente decorati da scene
mitologiche e da rigogliosi motivi d’ornato a monocromo di gusto
classicistico. [...] È nella terraferma che l’artista ha le maggiori
opportunità d’esprimersi in questo campo. Anzitutto a Padova, in palazzo
Maffetti (poi Manzoni), dove lavora in due ambienti forse intorno al
1790. In città era tutto un fiorire di nuove decorazioni, a opera di
figuristi come Novelli e Canal, e di ornatisti come Paolo Guidolini e
Lorenzo Sacchetti. Specie certe invenzioni di quest’ultimo rivelano
singolari affinità con quelle di Bison, come le sopraporte di palazzo Da
Rio, con aquile poste a custodire antichi medaglioni. Nel salone di
palazzo Maffetti l’artista combina la tradizione di ascendenza
tiepolesca, palese nel brano di figura del soffitto – La Virtù incorona
la Nobiltà – con i dettami del «moderno» decorare, recependo quelle
istanze del classicismo tardosettecentesco già diffuse nei palazzi di
città e negli interni di villa. [...] Verso il 1791-92 lo troviamo
impegnato nelle decorazioni di villa Raspi (poi Tivaroni) a Lacenigo, e
nella villa di Jacopo Spineda a Breda di Piave, entrambe nel trevigiano.
[...] È il mondo della scenografia che si riversa in questi interni,
quale era stato creato da Andrea Urbani, da Chiarottini, da Antonio
Mauro III (Bison lo ebbe maestro dell’Accademia e con lui lavora a
Padova nel Teatro Nuovo), da Francesco Fontanesi (il decoratore della
sala teatrale della Fenice): un mondo manifestamente illusorio, che vive
di riverberi di luce colorata, di sorprese, per sedurre lo sguardo e
tener desta l’attenzione, in cui serpeggia liberamente lo spirito del
capriccio, alla fine di un secolo che del capriccio aveva fatto una
bandiera. [...] Il ciclo di affreschi di Breda di Piave è certo il
capolavoro di Bison, nel quale la fantasia inventiva e cromatica
dell’artista si estrinseca felice, anche per la scelta di applicare alla
pittura murale una tonalità minore, così da farne una pittura da stanza,
equivalente alla musica da camera: proprio una delle esperienze più
gratificanti è il passare di ambiente in ambiente lasciandosi
sorprendere di continuo dal fuoco d’artificio delle trovate. Alla fine,
dopo tanta eccitazione visiva, può restare nel ricordo, come dopo un
sogno, «uno sbocciare fresco di petali, una liquida macchia d’ombra, il
muoversi arioso d’un nastro»” (Pavanello 1997).
“Nonostante la sua formazione e permanenza a Venezia, circa fino allo
scadere del secolo, finora si ha notizia di pochissimi interventi di
tale natura nella Serenissima, e precisamente due stanze in coppia con
Costantino Cedini nel mezzanino di palazzo Giustinian Recanati alle
Zattere (1793) e alcune decorazioni a palazzo Dolfin Manin (1800)”
mentre nel Palazzo Bellavite spetta, tra l’altro, a Bison anche “la
continua teoria di coppie di animali affrontati, divisi da bucrani
inghirlandati, da candelieri e da palmette e tutta collegata, senza
soluzione di continuità, da sottili girali ingentiliti da racemi con
foglie e bacche, capaci di rendere unitario un originalissimo e vario
bestiario. Partorito da una fervida fantasia compositiva, non disgiunta
da una vera passione zoologica, esso ribadisce che è nelle realizzazioni
a ‘grottesca’, o comunque nei divertiti dettagli apparentemente
secondari – tanto apprezzati nella sua grafica – che il Bison afferma i
caratteri migliori del suo linguaggio” (De Feo 1997).
“Ma più che nella grande decorazione aulica ad affresco il Bison emerge,
tra gli altri contemporanei, per la sua produzione di piccole tempere,
quasi sempre di soggetto paesistico, eseguite con una bravura
straordinaria e una fantasia inesauribile. Opere talvolta di carattere
scenografico o ispirate ad altri pittori (Tiepolo, Canaletto,
Zuccarelli, ecc.), ma più spesso d’invenzione propria. Pittura sovente
descrittiva sì, ma realizzata sempre con una forma perfetta, con un
tocco freschissimo e una tavolozza splendida, che non ha niente del
«pittoresco», ma semmai dell’altamente «pittorico», sia che rappresenti
una burrasca o un sereno paesaggio agreste. Una pittura spontanea e
limpida, spesso aderente alla sostanza e ai fenomeni della natura, come
osserviamo in certi paesaggi invernali o in altri raffiguranti l’estate
sparsi d’abituri e di contadini ai lavori: paesaggi che ricordano quelli
del lontano Marco Ricci, ai quali sovente sia per spirito che per
qualità non sono inferiori” (Martini 1982).
“Il paesaggio idealizzato, in cui case, capanni, vegetazione, cielo e
uomini convivono in una stagione senza tempo dove solamente una luce
incontaminata li unisce, è il modo di Bison di proporre un’arcadia nella
quale si profonde l’auspicio per il presente”. Altre volte invece
“gigantesche architetture sprofondate nella natura circostante non
appartengono ad una «veduta», ma costituiscono il pretesto per inventare
una prospettiva illusionistica, seguendo gli insegnamenti della
scenografia nel gioco dell’arco molto scorciato in primo piano che
incrocia l’infilata di palazzi e antichi monumenti in cui si unificano
stili diversi, così come avviene in una invenzione piranesiana” (Magani
1993).
L’arte di Bison attraversa il periodo neoclassico ma resta
sostanzialmente legata a forme settecentesche dalle quali deriva quella
tipica spontaneità e spigliatezza. Nel piccolo olio, Maschere, del
Civico Museo Revoltella di Trieste, la scena d’intrattenimento “alimenta
quello spirito nostalgico o il desiderio di confrontarsi con
l’immaginario aristocratico del passato da parte della società borghese
del primo Ottocento. La festa o, piuttosto, una «mascherata», è
descritta nei più schietti modi veneziani settecenteschi ricordando, per
la pungente e lucida osservazione, il contenuto della pittura di genere
di Pietro Longhi, Francesco Guardi e Giandomenico Tiepolo, risolta dal
maestro di Palmanova con sottili vibrazioni nel tratto...” (Magani
1997).
“È noto quanto fertile sia stata anche l’ultima pittura del Maestro,
ormai anziano, operante a Milano: quadretti di maniera, ripensamenti
giovanili ma anche quadretti di nuova, fresca, vena realistica, seppur
cedenti alla moda corrente, al gusto dell’aneddoto, al prevalere di
certa tematica - scene in conventi, frati in preghiera, vita claustrale
- comune pure al Migliara (Zava Boccazzi 1971)”.