Antonio Zanchi
(Este 1631 - Venezia 1722)
“Educato all’arte in patria, forse presso il bresciano Pedrali, lo Zanchi giunge assai giovane a Venezia, dove entra dapprima a far parte della bottega del dalmata Matteo Ponzone, per poi seguire in particolare gli insegnamenti del Ruschi. Ma è sicuramente negli esempi giovanili di Luca Giordano, presenti numerosi in città, e nell’opera del Langetti che egli trova i modelli più consoni alla sua personalità” (Pedrocco 2000). Importante comunque rimane il discepolato presso Matteo Ponzone, che gli permette di avvicinarsi “alla tradizione neotintorettesca della cerchia dei palmeschi; ma il Ponzone s’era rinnovato con un tocco più libero, un macchiare con ombre che, certamente restarono impressi nel giovane estense. Nella cultura figurativa dello Zanchi entrano altri elementi: per esempio egli si ricorderà della tipologia di Luca Ferrari (morto nel 1654 a Padova), che aveva lasciato opere nella provincia padovana; come pure farà presa su di lui il decorativismo alla Ruschi, di cui si dice sia stato allievo. Il modo di piegare risentito e angolo dello Zanchi tiene molto del Ruschi” (Pallucchini 1981). “Pittor celeberrimo”, appare presto un affiliato di quella poetica “tenebrosa” importata a Venezia da Luca Giordano e Giambattista Langetti. Le prime opere, dai vigorosi risalti cromatici e chiaroscurali, sono già fortemente caratterizzate in senso drammatico e naturalistico. L’Abramo che insegna l’astrologia agli Egizi della chiesa di Santa Maria del Giglio “dovette apparire una rivelazione, un unicum nell’ambiente veneziano, dovette destar meraviglia e suscitar ammirazione per la forza esplodente delle figure costrette nel rettangolo, per l’illusionismo potentemente realistico, per lo splendore delle tinte, per l’evidenza plastica derivata dal magistrale impiego della illuminazione, per le novità infine della concezione” (Riccoboni 1961-1962). Nel 1666 l’artista è chiamato a rievocare le tristi giornate della Peste a Venezia sulle pareti dello scalone della Scuola di San Rocco, lavorando così a stretto contatto con i grandi modelli tintoretteschi. Il suo linguaggio intensamente patetico e dotato di potente suggestione drammatica nel dominio “d’ombre gagliarde” e di “masse grandi di scuro”, tagliate da violenti sbattimenti di luce, era certo il più idoneo ed efficace ad una resa lugubre ed accorata, e perciò naturalmente intesa, dei “tristi effetti dell'orrida peste”: “genti ferite dal flagello, altre moribonde; e molte appena morte gittate in alcune gran barche per essere trasportate altrove, a tutela di chi illeso restava ancora dal male”. Dell’anno successivo è la grandiosa e drammatica scena con il Cristo che scaccia i mercanti dal tempio della Scuola di San Fantin. “Lo Zanchi svolge il suo assunto scenico tenendo presente le composizioni di Paolo Veronese, al quale evidentemente si ispira nelle architetture di fondo. Il Cristo domina al centro, rivolto a destra, mentre una figura nuda di uomo diverge verso sinistra su un asse contrastante. Il tema era propizio per una scena violenta, martellata nel chiaroscuro, ma forse un po’ troppo affastellata. I movimenti delle figure sono tesi, scattanti, un poco angolosi. L’aderenza ad un certo gusto napoletano vi è abbastanza scoperta” (Pallucchini 1981). Nel 1675 firma il “telero” con la Visione di Sant’Alberto Magno per la chiesa trevigiana di San Nicolò, dove terra e cielo paiono uniti da un “frequente fluttuare delle masse di chiaro e di scuro, ma anche in un luminoso sfumato che tende ad attenuare e soffocare i colori e le forme in una uniformità di bruno grigio caldo” (Coletti 1935). L’anno dopo licenzia la pala con il Martirio di san Daniele per la chiesa padovana di Santa Giustina. “Un dipinto in cui la lezione del maestro Ruschi si irrobustisce con il chiaroscuro e la tensione di Giovan Battista Langetti. [...] La forza chiaroscurale e l’animato impasto cromatico dovettero essere esemplari per il gusto naturalistico dei tenebrosi” (Fantelli 2000).
Interessante inoltre
il profilo dell’artista tracciato da Zanetti nel 1771: “Non so se dalla
scuola del Rusca, o piuttosto dal proprio genio tratto fosse il Zanchi a
dipingere con ombreggiamenti assai caricati, e con tinte per lo più
malinconiche: cercando forza e vigore, e non grazia e nobiltà [...]. Era
dunque pertanto buon naturalista, rappresentando la morbidezza e gli
effetti della carne con intelligenza e facilità, dando rilievo alle
figure sue con il mezzo d’ombre gagliarde e masse grandi di scuro”.
Secondo Lanzi (1795-96) invece il suo genio fu “triviale nelle forme,
malinconico nel colore, e tutto volto a sorprendere con la pienezza e
facilità del pennello, con certo brio pittoresco, coll’effetto del
chiaroscuro e con un insieme che pure impone per grande. Nel resto
considerato partitamente vi si scorge non di rado la scorrezione del
disegno, e quella indecisione e acciecamento di contorni ch’è il
disimpegno dei deboli o almeno dei frettolosi”.
La pittura di
Zanchi infatti verso la fine del secolo rivela momenti di stanchezza, di
esaurimento della visione. Spinto probabilmente da esigenze economiche, accelera e moltiplica la sua
produzione tentando di aggiornare il proprio linguaggio, schiarendo la
tavolozza e ricercando effetti di un’eleganza formale che talvolta
appare come un vuoto esercizio accademico. La sua ultima
produzione è segnata da una profonda crisi. Mentre fra le lagune si
impone la corrente nuova, decorativa, di Fumiani, Bellucci e Sebastiano
Ricci, “il pittore atestino perde terreno: il suo gusto miseramente si
sfascia, rinunciando a quel cupo e martellante chiaroscuro per aderire
ad un colorismo più schiarito, formalmente senza nerbo” (Pallucchini
1981).
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