Alessandro Varotari detto il  Padovanino (Padova 1588 - Venezia 1649)

 

   

“Nel principio degli anni suoi non si trovò egli in Venezia; ed avendo appresi i primi elementi dell’arte dal Padre, non aprì gli occhi alla Pittura fortunatamente nelle scuole di quei dì, ripiene molto d’inganni” (Zanetti 1771). Piuttosto che dal padre Dario, veronesiano convinto, morto nel 1598, quando Alessandro aveva appena dieci anni, il giovane fu educato da Damiano Mazza, il più accreditato interprete del tizianismo a Padova. Ricorda infatti Boschini (1674) che il giovane soleva esercitarsi copiando “quei miracoli di Sant’Antonio di Padoa, dipinti a fresco da Tiziano [...], rimettendoli ad olio con maniera così naturale, che innamoravano chi gli vedeva”. Successivamente, a Roma, il pittore oltre a copiare “quei Baccanali, che già furono fatti da Tiziano per il Duca di Ferrara” (Boschini), entrò in contatto con la corrente del naturalismo post caravaggesco, ma soprattutto con quella classicistica allora impersonata da Annibale Carracci, Francesco Albani e Domenichino. È da notare che nel 1617, proprio durante il soggiorno nell’Urbe di Alessandro, il Domenichino licenzia la sua famosa Caccia di Diana, la quale “sembra rispecchiare le comuni esperienze tizianesche, dal Domenichino prontamente immesse entro un elaborato programma mitologico le cui forme acquistano  incantevole dolcezza di ritmi ondulati” (Cavalli 1962). Tale visione idealizzante classicista spronò il Padovanino a rinnovare la pittura veneziana in senso antimanieristico.
Egli “fu un cinquecentesco naufragato nel Seicento, un onesto ritardatario, che non poté far gran voli, ma insegnò alla scuola fiorente a rispettare il passato, non a saccheggiarlo” (Fiocco 1929). “Il Padovanino infatti aveva rotto coraggiosamente con l’accademismo discendente dal Palma Giovane che trascinava inerte ben dentro nel nuovo secolo il suo frusto ciarpame di citazioni tintorettesche, veronesiane, bassanesche, per tentare il recupero di un mondo felice; una autentica e ormai quasi mitica età dell’oro: quell’eliso fidiaco che pur era vivo e presente, per chi solo avesse cuore di intenderlo, nelle opere della giovinezza prodigiosa di Tiziano; che dovevan significare agli occhi di un veneto, la classicità stessa. L’operazione, convien dirlo, non era priva di ardimento; e si rendeva concepibile e realizzabile solo nella distaccata prospettiva di gusto nella quale operava il Padovanino, a distanza ormai sufficiente dai bagliori corruschi in cui il Cinquecento tramontava, spenti ben presto nelle brume di una sconfortante routine. Si trattava, è chiaro, di un recupero di natura culturale, che si contentava di appiattire le profondità tonali di Tiziano in brillanti placcature cromatiche, iscritte come simboli entro il sottile ricamo del rabesco lineare” (Pilo 1961).
“Seppe ben maneggiare qualunque tema trattato da Tiziano: i gentili con grazia, i forti con robustezza, gli eroici con grandiosità; e in questi particolarmente vinse, pare a me, ogni tizianesco. «Le donne, i cavalier, l’armi e gli amori», e generalmente i fanciulli, erano i soggetti del Padovanino più favoriti, che ritrae meglio e che introduceva più spesso nelle composizioni” (Lanzi 1795).
Le Nozze di Cana, realizzate nel 1622 per il Refettorio di San Giovanni di Verdara di Padova (oggi Venezia, Scuola Grande di San Marco), “costituivano la prima poderosa diga contro la tumultuosa mareggiata del tardomanierismo palmesco” (Pallucchini 1981), mentre la Betsabea al bagno del Museo civico di Padova appare “dichiaratamente tizianesca e, pur se non è reperibile nel Vecellio un modello precisamente citabile, il momento al quale sembra riferirsi il Padovanino è quello giovanile dei Baccanali e del Concerto campestre del Louvre, sia per la floridità dei modelli femminili che per l’ampiezza dell’esecuzione pittorica” (Ruggeri 1993).
Nel quarto decennio questo suo neotizianismo si arricchisce di “un senso nuovo del racconto, una sorta di retorica barocca evidente soprattutto nei dipinti degli Episodi della vita di Sant’Andrea Avellino a San Nicolò dei Tolentini [Venezia], databili alla seconda metà del quarto decennio” (Fantelli 2001). In queste composizioni, dai “clamorosi accessi di un barocco di rado sentito”, l’artista “trae gioiosi effetti dalla scapigliatura della composizione, tutta urla e squilli [...] esempio di costruzione formale ben più salda, di ricchezza pittorica degna del Seicento: non vi è forse altro esempio di così sbrigliata vena fantastica” (Venturi 1934). Al nuovo corso della sua pittura appartiene anche il Ratto di Europa della Pinacoteca Nazionale di Siena che “si distingue per una manovra cromatica e luministica più vivace ed eccitata rispetto a quella degli anni precedenti. Ma l’interesse della tela non si esaurisce in questo, dal momento che essa costituisce un raro esempio di relazione dell’artista con Paolo Veronese. Il dipinto infatti è esemplato sulla tela di eguale soggetto dipinta dal Caliari per Jacopo Contarini e legata nel 1713 alla Repubblica da Bertucci Contarini, oggi nella Sala dell’Anticollegio di Palazzo Ducale, dove la cita lo Zanetti nel 1733. [...] Si tratta di un’interpretazione del testo veronesiano secondo quell’inclinazione al cromatismo del giovane Tiziano che è tipica del Varotari” (Ruggeri 1993). 
Tale atteggiamento infatti è la sua più spiccata e sincera cifra stilistica. “Il Padovanino che aveva avuto la ventura di nascere fra due secoli, ne fu come il conciliatore, lieto di tramandare rispettata la voce della tradizione, di cui tutti i suoi compagni veneti si erano burlati” (Fiocco 1929).

 

Daniele D'Anza