Tiberio Tinelli (Venezia 1587 - 1639)

 

 

Il famoso Tinelli/ Arriva con i colori, e co i pennelli./ E questa Dea, che sembra altrui dipinta/ È vera, e non è finta,/ E se tace, e non parla;/ È perché attende prima i detti tuoi, / Per risponderti poi (G. F. Loredan 1638).

Tiberio Tinelli fu “valorosissimo, et capriccioso pittore, et operò ne’ ritratti mirabilmente, e sono li fatti da lui in gran preggio tenuti” (Ridolfi 1648). “Il suo stile peraltro ha originalità e grandezza di carattere. Seppe bere ben saggiamente al fonte della verità; e comecché tutta la grazia delle forme ei non potesse aggiungere a quella, non mancano le opere sue di buona naturalezza e di nobiltà. Maneggiò il pennello e il colore con gusto e con magistero; e se’ vedere in fatto quanto sta scritto ch’egli soleva dire, cioè che disapprovava quella prontezza, a cui mancassero le necessarie cognizioni dell’arte” (Algarotti 1743).

Tinelli assume un ruolo importante nello svolgimento della ritrattistica veneta, che condusse da forme cinquecentesche ad una nuova sensibilità barocca. Il Ritratto di Emilia Papafava Borromeo (Padova, Museo Civico), “ch’egli fece nel fine della vita: in cui gareggia la bellezza e lo stato signorile” (Ridolfi 1648), è certamente la sua opera più significativa. Il personaggio, ritratto a figura intera, si stacca sullo sfondo con suggestiva maestosità, “la veste nera è impreziosita dagli ornamenti dorati, analiticamente descritti, con una vivezza e scioltezza di pennellata, unita ad una acutezza nella resa del volto, che prelude direttamente ai ritratti del Forabosco” (D’Arcais 1968).  

Allo stesso periodo risale lo splendido ed enigmatico Ludovico Widmann. Tale ritratto “colpisce, oltre che per la sua bellezza, soprattutto per la sua straordinaria modernità: esso è del tutto affine a testi coevi, o di poco precedenti, di Anton van Dyck come il Ritratto di William Villiers. Nessuno a questa data, né in Italia né in Europa, dipinge così. C’é da chiedersi dunque come Tinelli venga a conoscenza delle nuove iconografie del periodo inglese di van Dyck, del tutto contemporanee; forse tramite stampe, o forse si tratta di una coincidenza. Certo è significativo che Ludovico Widmann, personaggio affascinante, grande affarista e nel contempo amatore d’arte e collezionista, da uomo di mondo colto e curioso qual’é, scelga proprio Tinelli per immortalare la sua effigie. Non è escluso che nella costruzione del dipinto, il committente abbia un ruolo importante: certo egli non si fa ritrarre come si conviene a un gentiluomo veneto: nel suo atteggiamento ambiguo, nell’abito particolare che indossa, si legge quasi una sfida al patriziato veneziano, cui ancora non appartiene. [...] Già Shapley (1979) si pone la questione se la messa in scena del dipinto sia un’idea del pittore o dell’effigiato, osservando fra l’altro l’originalità del quadro, anticipatore di più di un secolo del Ritratto di Peter Beckford di Batoni. In molti rilevano la particolarità dell’impaginato ove il prossimo conte, definito da Pallucchini «modello di effeminata eleganza», posa tra rovine e reperti classici da un lato, ed un sereno scorcio paesistico con cacciatore dall’altro. Peraltro, fra i marmi sembra di poter ravvisare un’interpretazione del celebre Torso del Belvedere, ripreso da tergo. Secondo Magani (1989) la presenza delle rovine potrebbe alludere ad un viaggio che aveva soddisfatto gli interessi classici di Widmann. Ma la netta bipartizione dello spazio sembra avere un valore simbolico assai preciso, come già osservato da Zanotto (1992): potrebbe alludere alle due grandi passioni di Lucovico e cioè a quella nota per l’arte e a quella per la campagna [...]. È dunque ragionevole pensare che il pur giovane Ludovico abbia una parte importante nella costruzione del dipinto; altresì sappiamo che Tinelli è profondamente inserito in questo clima di raffinata intellettualità, che esprime felicemente dedicando composizioni originali e distinte, personalizzate ai ruoli ricoperti dagli effigiati” (Bottacin 2004).       

Il telero della Rotonda di Rovigo testimonia invece la capacità dell'artista di misurarsi con opere devozionali . “Vedesi in questo apparire in gloria servita dagli Angeli Maria Vergine con il Bambino, e avanti ad essa umiliata Sant’Antonio di Padova, il quale le raccomanda il Provveditore Luigi Morosini, che sta inginocchiato al suolo assistito dalla Giustizia e dalla Carità, presente la città di Rovigo” (Bartoli 1791). Il dipinto è un’opera felice, “impostata con scioltezza, come nel gruppo delle figure allegoriche strette attorno al Morosini, sullo sfondo di un portico in prospettiva, mentre a destra si apre la visione celeste: snodati e sinuosi gli angeli che accompagnano l’apparizione della Vergine. È un’opera che, in un certo senso, inaugura un gusto pittorico e tematico, che sarà poi sviluppato dal Forabosco e dal Carpioni” (Pallucchini 1981).

 


Daniele D'Anza