Tiberio Tinelli (Venezia 1587 - 1639)

 

 

Come ricordato dall’amico Ridolfi (1648), che all’artista dedicò una biografia, Tinelli fu dapprima scolaro di Giovanni Contarini, “indi se ne passò alla scola del Cavalier [Leandro] Bassano, piacendogli la maniera dei suoi ritratti”.
Affermato ritrattista di dogi, procuratori, magistrati, uomini d’arme, letterati e gentildonne, condusse una vita avventurosa e travagliata. Non gli mancarono tuttavia importanti  gratificazioni come ad esempio il titolo di Cavaliere conferitogli da Luigi XIII di Francia, conosciuto a Venezia nel 1633. Ridolfi narra che il pittore visse un matrimonio poco fortunato “poiché invaghitosi d’una fanciulla di modesti costumi, studiosa della Pittura, e quella tal’hora visitando, propose farsela sposa formandosi nella mente con tale unione delitie di Paradiso; la quale per sottrarsi alla tirannia del Padre, vi dava con la Madre medesima l’orecchie; ma l’impediva certo voto fatto di Castità prestato fede ad un indovino, che le predisse, che d’un parto sarebbe morta. Si conclusero in fine le nozze con le strettezze del voto, e ridottala Tiberio in casa sua, con esso lei per qualche tempo sen visse in pacifico stato facendo comuni le fortune col Suocero, il quale avanzatosi in autorità, pretendeva disporre à suo piacimento della casa e degli haveri del Genero; onde facilmente si ruppero tra di loro, trattandosi di dominio e d’interesse, cagione la più efficace per dividere gli affetti; ma non tolerando quegli vedersi privo della figliola, ma più de commodi, che traheva dalla sua virtù, come huomo ardito e sagace, assalì più volte Tiberio con le arme e con le minacce, che di leggieri si sarebbe vendicato degli affronti; ma il tratteneva il rispetto della moglie, che havevasi proposta per Idolo della mente.
Passò molto tempo l’infelice Tinelli tra quelle angustie: Più non conversava con gli amici, tralasciato haveva il dipingere, mutati i pennelli in ispade, d’altro non ragionava che della perfidia del Suocero, disturbavasi spesso con la moglie, e era del continuo molestato da pensieri noiosi, effetti cagionati da un animo geloso e inasprito dalla passione” (Ridolfi 1648).
“Nel racconto ridolfiano dello sfortunato amore di Tinelli per un’innominata fanciulla abbondano particolari degni di un feuilleton: il voto di castità di lei, fatto prestando fede alle parole di un indovino che le aveva predetto la morte per parto, la complicità della madre a favore delle nozze, l’ostilità iniziale del padre e in seguito il suo tentativo di metter mano al patrimonio del genero, le violenze d’armi, la gelosia del marito, e infine la fuga della sposa con l’assistenza del fratello.
È curioso che la sposa resti anonima, d’altro canto è impossibile pensare che Ridolfi, amico di Tinelli, dal quale si fa anche ritrarre, non sapesse che la casta consorte dell’artista altra non era che Giovanna Garzoni, da lui precedentemente lodata tra le «famose donne» nella vita di Marietta Tintoretto.
Un ritrovamento documentario consente ora di affermare che la situazione romanzata da Ridolfi sia ben più di un amore sfortunato, anzi dev’esser stato un vero e proprio scandalo per l’epoca, in quanto sfocia in una pesante accusa di stregoneria al tribunale del Santo Uffizio, cui segue una complessa istruttoria:
 
Però havendo Tiberio Tinelli molto tempo insidiata con ogni occulta maniera la figliola di me Zuan Giacomo Garzoni, afflittissimo at addolorato padre – detta Giovanna – per haverla per moglie, havendo notizia ch’io mai gli l’havrei concessa rispetto alle condizioni et di più, havendo la figliola promesso al santo Dio verginità fin alla morte, costui per diabolica immaginatione ha trovato strada con sortilegij e strigarie d’indur la figliola a romper la promessa a Dio...
 
L’atto di denuncia, per supplica, viene formulato dal padre di Giovanna, Giovan Giacomo Garzoni, il 27 aprile 1623: vi si sostiene che Tinelli avrebbe indotto la fanciulla a rompere il voto di castità, con la stregoneria, usando il fiore, divenuto poi un cedro ed un anello che ella non può tener nel detto facendoli un diabolico effetto con farla paralitica del brazzo con dollor suo eccessivo e grandi li protesti...
 
A testimoniare si chiamarono vicini e conoscenti [...]. Nella formulazione dei capi d'imputazione da parte degli Inquisitori compare un ulteriore inquietante elemento oggetto delle magie:
una testa di morto... sopra la quale, dicono, si fondino le strigarie ovvero il capo di una giovinetta, presunta vergine e santa (probabilmente una reliquia o una 'patacca') portata da tale padre Giulio Pietra, curato di Santa Maria Nuova, e, al momento dell'istruttoria, confessore delle monache di Ognissanti a Vicenza" (Bottacin 2004).
Ad ogni modo i testimoni chiamati a deporre “scagionarono” il pittore dalle accuse infamanti ed il processo venne archiviato per insufficienza di prove. Nondimeno dall’istruttoria “emerge un Tinelli assai particolare, non solo passionale e melanconico, la notizia riportata da Ridolfi che «tralasciato aveva il dipingere», si conferma nel vuoto di commesse nel Libretto a tutto il 1623, ma sicuramente intrigato anche con faccende occulte; in effetti è difficile spiegare l’esistenza certa di elementi quali la testa di giovanetta morta o i libri di stregoneria, se non pensando a interessi suoi precisi” (Bottacin 2004).
La produzione di Tinelli dopo questa sosta “forzata”, ricomincia con importanti commissioni pubbliche e private che di fatto gli preparano il terreno per la realizzazione del telero con gli Avogadori (1631) posto in Palazzo Ducale.   
A questa data inoltre risale la frequentazione con alcuni membri dell’Accademia degli Incogniti. Cenacolo letterario fondato e retto da Giovan Francesco Loredan, scrittore incline alle tematiche rare e ricercate talvolta addirittura anticlericali e blasfeme, che ogni lunedì sera ospitava nella propria casa dame e cavalieri veneziani, i quali “per star più liberi a sentirlo o comparivano mascherati o incogniti” (Lupis 1663). Con tale elite culturale Tiberio certamente condivideva “la grande passione per i libri proibiti. [...] Tra i pittori veneziani Tinelli fu infatti quello a cui vennero dedicate più odi da parte degli Incogniti: se ne riscontrano ben dodici [...]. Oltre ai ritratti Tiberio fece anche altri dipinti per gl’Incogniti: lavorò ad esempio per Luca Assarino «autore della Stratonica», e per Dardi Bembo, cui dipinse una Presentazione e disputa al tempio e un quadro tripartito su tela con la Nascita del Battista, Il Battista nel Deserto, e il Battesimo di Cristo. In merito Ridolfi scrive: «Dipingeva volentieri per i letterati, da’ quali traheva alcuna compositione, dimostrandola per testimonianza del suo merito, né fece d’altro infine acquisto, che di applausi e di honore». Dunque sembra che Tiberio amasse essere celebrato in letteratura, preferendo nobilmente la poesia al danaro. Certamente ciò denota una forte componente di ambizione personale, ma tale predilezione dimostra anche un grande amore per le belle lettere, e la sensibilità di uno spirito in apparenza esente da avidità materiali” (Bottacin 2001).
La fama raggiunta dal pittore è testimoniata, oltre che dalle lodi dei contemporanei, anche dall’invito di trasferirsi a Parigi avanzatogli da Luigi XIII, ma “sua madre che temeva di perderlo per sempre, gl’impedì di recarsi in Francia” (De Boni 1840). 
Nel 1638 è documentato a Mantova, assieme a Luigi Molino “andato a congratularsi per la repubblica col nuovo Duca” (Ridolfi 1648), dove esegue il ritratto di Carlo II con la madre. Rientrato a Venezia si spegne il 22 maggio 1639 (Bottacin 2004).

Daniele D'Anza