Scolaro, aiuto e
imitatore del padre, Marco Liberi fu considerato dagli antichi biografi
un suo modesto contraffattore. “Ebbe tuttavia questi un certo suo
carattere particolare nelle forme spezialmente, che hanno sveltezza e
grazia, ma non hanno la grandiosità di quelle del padre. Le fisionomie
sono perfettamente uniformi e quasi caricature delle belle teste
dell’insigne maestro” (Zanetti 1771). Va detto che la critica moderna ha
in parte rivalutato la posizione di Marco, che appare quantomeno erede
non indegno della pittura di Pietro Liberi.
Il Giove e Mnemosine del Szépmüészeti Mùzeum di Budapest è l’unico
dipinto firmato dall’artista. La tela, “con l’aquila in cui s’è
trasformato Giove che sovrasta con la sua massa scura il delicato nudo
di Mnemosine, appoggiata con un braccio sulla terra in una
difficilissima posa, è nella maniera di quelle profane paterne tanto
nella tipologia come nella colorazione. Ma l’opera manca di quella
robustezza formale, di quel calore cromatico che caratterizza il fare
paterno. Marco sa dunque mimetizzarsi nello stile paterno, ma con una
certa superficialità: soprattutto la sua tavolozza è esangue rispetto a
quella del padre, e i contorni sono più marcati, quasi ritagliati” (Pallucchini
1981).
L’aspetto forse più personale e genuino della sua arte affiora in un
gruppo di dipinti conservati a Pommersfelden (collezione
Schönborn-Wiesentheid), dove la condotta pittorica si fa più precisa e
descrittiva, d’un naturalismo più insistito. Queste mezze figure,
”benché intenzionalmente non lontane dai modi di Pietro Liberi [...]
rappresentano l’aspetto più personale e genuino di Marco, per qualche
verso memore dell’attenzione alla realtà di certo Forabosco, ma volto
soprattutto, per via di portamenti di lume, a una chiarezza definitoria
indice di quel «gusto di materializzazione quasi medianica degli
oggetti» che il Longhi (1927) gli riconobbe in comune, oltre che col
Bellotti, col Caroselli e col ferrarese Caletti” (Pilo 1959).
Evidentemente, lavorando per il mercato tedesco, il pittore accentò,
verso la fine del secolo, questa vena naturalistica, senza però mutare
la morfologia ereditata dal padre.
“Pur distaccandosene per le modalità della stesura, la seconda maniera
di Marco è tuttavia, ed ovviamente, legata agli esiti della prima per
analogie che appaiono evidenti al conoscitore; i medesimi nasi
spioventi, le bocche larghe e mollemente disegnate, gli scorci delle
membra talvolta più contratti, un insieme di caratteri «morelliani» che
aiutano nella distinzione delle mani dei due gruppi; mani che, del resto
– pur senza voler riproporre qui, per analogia, l’annoso problema «delli
fratelli Guardi» – non è difficile pensare si siano unite talvolta in
collaborazioni assai strette, soprattutto nelle opere di maggiore
formato, all’interno delle quali è difficile distinguere l’apporto
dell’una e dell’altra, in un lavoro comune che si estende probabilmente
anche ad altri membri della bottega, e cioè dell’insieme allora
storicamente operante, al quale, spesso, male si applica la filologia
attuale, erede del mito romantico della personalità e dell’autografia”
(Ruggeri 1996).