La sua formazione a Venezia coincise con
la fioritura delle scuole dirette da Pietro della Vecchia e Antonio
Zanchi ma dalle quali Lazzarini presto si staccò al pari di quella del
suo primo maestro Francesco Rosa, un langettiano genovese, “che aveva
del gagliardo, risaltante e risoluto, e piuttosto trasse il suo genio
alla maniera di Girolamo Forabosco, pittore finito, diligente e vago, e
quindi caro all’universale” (Da Canal, 1732). Da quest’ultimo apprese i
fondamenti della prospettiva ed il gusto per la stesura levigata e
ferma, dal colore compatto entro una netta definizione disegnativa.
Egli inoltre interpretò il pittoricismo vibrante ed epidermico del
Forabosco in senso più formale ed accademico, quasi in aperta polemica
tanto con il mondo dei tenebrosi quanto con la corrente più decorativa
di un barocchetto che ai primi anni del Settecento doveva trasformarsi
in rococò.
“Non tendeva alla Veneta la maniera del
Lazzarini, ma piuttosto alla Bolognese, come quella che per lo più è
finita con esattezza e per lo disegno assai studiosa, a differenza della
nostra, la quale è meno stentata, ma risoluta, manierata ed assai più
vaga” (Da Canal).
“Lazzarini fu, con altri della sua
generazione (dal Bellucci al Segala, dal Balestra al Marchesini),
l’artefice di un movimento centrifugo
rispetto ai modelli
dell’ancor dominante gusto barocco,
verso una normalizzazione delle iperboli,
una eleganza un po’ stilizzata, una
nuova centralità progettuale del disegno
rispetto a quella tradizionalmente
veneziana del colore” (Lucco 2001). Va dato merito “a questo eccellente
Maestro di aver sgombrato intieramente la fosca maniera che aveva
regnato per qualche tempo in Venezia”. Nella sua pittura “non si vede un
solo principo di tenebre o d’altra scuola nell’originale suo stile” (Zanetti
1771). Sack (1910) infatti lo conisdera “un innovatore, per i suoi
chiari e luminosi colori” e sottolinea il ruolo decisivo “per l’influsso
che esercitò sulla sua scuola”. Lo stesso studioso ritiene che
Giambattista Tiepolo “debba a costui gli ammaestramenti e gli
incitamenti più essenziali e preziosi per il suo sviluppo”. Lazzarini
infatti “fu il più eccellente maestro che si potesse pensare nella
scuola veneziana […], artista riflessivo e assai ponderato, diede valore
in primo luogo al disegno” (Sack 1910). Di diverso avviso Fiocco (1921)
che a proposito del suo allievo più dotato scrive: “La forza degli
effetti di chiaroscuro, la energia disegnativa delle sue figure nel
periodo introduttivo, lo fanno apparir sempre meno scolaro
dell’accademico Gregorio Lazzarini” (Lorenzetti 1926).
Comunque sia, al di là dell’incidenza o
meno della sua pittura su quella del giovane Tiepolo, una delle sue
opere più riuscite e ammirate è sicuramente il grande
telero con l’Elemosina di San Lorenzo Giustiniani della chiesa di San Pietro di
Castello a Venezia (1691). Questa “è certo un’opera di grande respiro
tramata su di un telaio prospettico architettonico che fa pensare a
Paolo Veronese, ma nell’interpretazione classicistica d’un Padovanino.
Il Santo domina al centro, mentre sulla scala, che porta ad un palazzo
di sobria architettura classicheggiante, distribuisce l’elemosina ai
poveri, che gli si affollano attorno. Non c’e dubbio che il Lazzarini
nella rievocazione di tutti questi pezzenti tien conto del gusto dei
naturalisti, ma senza enfasi, smorzando quegli accenti in senso
accademico” (Pallucchini, 1981).
La sua personalità è “sostanziata di una
cultura tendente a identificarsi con la nostalgia del passato; limitata,
in gran parte, a una grande capacità di assimilazione; ma non priva di
tratti originali, come il colorismo intenso e vivace e l’abilità
nell’inscenare vaste composizioni” (Pilo 1957).
“Tra le storie ed i miti di cui la
cultura barocca propose innumerevoli repliche, il Lazzarini trasse
sovente ispirazione per soggetti ripetuti, sospinto in ciò da una
committenza che ben apprezzava la facilità d’esecuzione, la
piacevolezza, l’abilità nel trattare quei temi a sfondo più o meno
esplicitamente erotico che la letteratura offriva abbondantemente”
(Claut 1985). Nel Trionfo di David della chiesa di San Simon di Borca di Cadore, eseguito a cavallo tra il Sei e Settecento, “si impogono i tipicissimi modi dell’artista: la sua stesura levigata e ferma entro una nitida definizione lineare, quella sorta di irrisolto contrasto tra l’agitato barocchetto degli atteggiamenti enfatici e svenenti e la « classica » integrità della forma” (Lucco 1981). Nella fase matura della sua produzione si scorge l’adesione “ad un linguaggio più pacato, che tende a raggelare l’enfasi giovanile e a giungere ad esiti più accademizzanti. Dai legami con i modi pittorici di Pietro Liberi probabilmente deriva lo spirito dell’attività matura del nostro pittore che, grazie all’avvicinamento ad un linguaggio classicistico, riesce ad acquistare una posizione di maggior prestigio nella Venezia dei primi decenni del Settecento. Nelle composizioni d’impostazione accademica, costituite da una serie di corpi nudi che si incastrano tra di loro in un inestricabile ma composto groviglio, Lazzarini prende a modello opere di matrice liberesca. Questa derivazione è particolarmente evidente nel dipinto raffigurante Giunone sulle nubi posto al centro del soffitto della sala degli Arazzi indiani di Palazzo Labia a Venezia” (Crosera 1999).
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