Giovanni Battista Langetti (Genova 1635? - Venezia 1676)

   

Dopo un’iniziale educazione in patria, l’artista fu giovanissimo a Roma dove “apprese principj della pittura sotto il Cortona; quantunque non sempre cortonesco sia stato il colorito, robusto per altro, risentito e vivace. [...] I principali studj però furono dal Langetti fatti in Venezia ove si perfezionò sotto la direzione di Gio. Francesco Cassana” (Ratti 1769). Fra le lagune, l’artista fu uno dei primi ad imporre quel realismo enfatico che in poco tempo divenne di moda, ben più del caravaggismo di marca pura. Aiutato da una tecnica valorosa, qualificò, in modo convincente, i suoi eroi muscolosi ed i suoi nudi abbondanti. In questi appare chiara l’influenza di Ribera, l’artista napoletano che aveva rielaborato la lezione caravaggesca utilizzando il chiaroscuro in senso drammatico e cruento, quasi sempre teso ad un violento naturalismo.

Alcune voci raccolte da Zanetti (1771) riferivano come Langetti “fosse solito a dipingere riccamente vestito di robe d’oro; esercitando l’arte molto politamente: e che mettendosi dinanzi un modello, con grande prontezza e facilità ne formasse in una sola mattina una bella mezza figura per il più d’un qualche Filosofo, che non vendea meno di cinquanta ducati a’ dilettanti innamorati delle pitture sue. Quando tuttavia dovea far opere d’impegno tenea un ordine di studio maggiore; e molto bene solea condurle; conservando sempre brio di pennello, buon maneggio di colore, forza e vivacità”. Appartiene alla prima famiglia di opere l’Archimede della Galleria di Braunschweig. “Energico e nemico della comodità, seduto di sghimbescio sovra la rozza unica seggiola, in atto di sollevar alto come un archipenzolo la penna. Insomma il pretesto per un nudo; di quei nudi opulenti che tanto piacevano a Luca Giordano” (Fiocco 1922). Tra le opere di prima qualità, “per le quali oltre ai cinquanta ducati e più il pittore metteva la posta dell’onore”, si segnala invece l’Apollo e Marsia realizzato per il conte Gasparo Tiene, già alla Gemäldegalerie di Dresda (distrutto durante la seconda guerra mondiale) e lodato con entusiasmo da Boschini (1660): “No se puol figurar con più modestia/ Quel Dio tuto de razi luminoso,/ Ne più feroce el satiro rabioso,/ Mezo homo, mezo cavra, e tuto bestia./ I compagni salvadeghi hà tormento/ In veder quela bestia a scortegar./ Par propriamente sentirla a sbragiar/ Con urli e smorfie, che ve fa spavento.” “Non meno orripilante è la rappresentazione a mezza figura del Suicidio di Catone [Genova, Palazzo Rosso] [...]. Presentando il personaggio in un close-up del suo busto, l’artista riesce a portare i dettagli ancora più vicini all’osservatore [...]. Il dettaglio raccapricciante delle dita che tormentano la ferita e la bocca spalancata in un urlo incontrollato e selvaggio, non paiono rendere giustizia al carattere nobile di Catone”, ma all’artista “interessava semplicemente ottenere un «effetto shock» eseguito con virtuosismo compositivo, e in questo intento riuscì perfettamente” (Magani 2001).

“La carriera pittorica del Langetti, che a Venezia durò circa un ventennio, fu caratterizzata da una precisa coerenza di modi espressivi e di intenzioni programmatiche. Vecchi filosofi, personaggi biblici, mitologici, classici diventano i protagonisti di melodrammi, anzi di tragedie recitate con spavalda foga oratoria in chiave naturalistica. Il Langetti studia e analizza i corpi di quei personaggi, il gioco dei loro sentimenti, la dinamica dei loro sguardi, la mimica delle loro mani, fino allo spasimo fisico. Non si ritrae dinanzi all’orrido, anzi lo affronta con furia espressionistica” (Pallucchini 1981). A tal proposito una delle opere più riuscite è l’Issione di Ponce (Portorico), “capolavoro profano ascrivibile alla giovinezza più matura, come il Cristo in Croce delle Terese rappresenterà poco dopo, cioè nella prima maturità, il culmine religioso. Nell’Issione il contrasto con l’oscuro ambiente infernale, dove il chiarore che qua e là trapela evidenzia alcuni particolari rispetto ad altri, mette in straordinario risalto la figura del dannato in trasversale, conforme alle tipologie fin qui descritte, ma con uno slancio del tutto singolare che lo libra, alleggerendone il peso fisico, anche grazie a un sapiente scavo anatomico. [...] A destra vediamo, in uno sfondo a tocchi sfatti alla Mazzoni (ma di origine castiglionese) Caronte remare in un vortice tempestoso. Intorno al Titano è tutto un turbinoso ruotare di serpenti avvinghiati alle sue braccia e di drappeggi bleu-madonna (di ascendenza cortonesca)” (Stefani Mantovanelli 1990). 

 “In opere come queste i suoi personaggi diventano i protagonisti di vicende brutali, narrate con una foga oratoria che giunge spesso a sconfinare nell’«orrido», esibito con compiaciuta ostentazione. Il tutto narrato in un gioco intensissimo di chiaroscuro, con le figure principali, per lo più ignude, che emergono con inusitata violenza dai fondi tragicamente cupi, spesso avendo accanto dei comprimari – efferati assassini, compagni di prigionia in orribili carceri, semplici astanti che partecipano con grande coinvolgimento emotivo al dramma del protagonista – egualmente colti in pose intensamente drammatiche” (Pedrocco 2000).

 

 

Daniele D'Anza