Giovanni Lanfranco dopo il tirocinio
in patria presso Agostino Carracci, giunse a Roma nel 1602. “Erano
quelli gli anni in cui era più vivo il dissidio fra la corrente
classicistica carraccesca e la corrente naturalistica caravaggesca. Pur
facendo parte della schiera carraccesca il Lanfranco non restò del tutto
insensibile ai richiami del Naturalismo” (Novelli 1966).
Dalla “luce universale” della cupola parmense del Correggio “e da quella
affascinante e romantica interpretazione che ne dava il concittadino
Bartolomeo Schedoni”, Lanfranco dedusse “quel suo luminismo
all’emiliana, che già prima della partenza per Parma aveva dato qualche
timido segno di non voler farsi assorbire tutto dal classicismo di
stretta misura (Cristo e la Maddalena di Napoli) orecchiando a modo suo
dal caravaggismo « in minore » del tipo Gentileschi-Saraceni-Elsheimer,
che sul primo decennio diffondeva in mirabili capolavori in misura
ridotta il lume universale del Caravaggio. Basterebbe soltanto il taglio
della composizione dell’Agar nel deserto del Louvre, tutta sbilanciata
sulla sinistra, mentre a destra s’apre un sereno squarcio di pianura
gentileschiana” (Cavalli 1959). Caratteri simili si ritrovano nella
Sant’Agata in carcere curata da San Pietro della Pinacoteca Nazionale di
Parma, databile ai primi anni del suo secondo soggiorno romano (1613
c.). “Quel taglio trasversale della luce, emanata dalla candela
sostenuta dall’angelo a rafforzare quella fioca proveniente dalla
finestra, lo ritroviamo in Battistello Caracciolo, in Orazio Riminaldi,
in Borgianni come gli incarnati di porcellana arrotondati dal
bilanciarsi delle luci e delle ombre, come i panneggi vasti e
vaporosamente ripiegati in larghe, profonde e sintetiche linee.
L’artista dimostra in questi anni, un interesse profondo per il
caravaggismo, soprattutto attraverso la divulgazione dei suoi seguaci,
adottando l’uso della luce indiretta per imprimere una credibilità
naturalistica ai suoi dipinti ma anche per sottolineare gli effetti
espressivi: caratteri intrisi anche del fiamminghismo di Valentin e di
Gherardo delle Notti” (Fornari Schianchi 1983). La capacità di gestire e
modulare tali effetti produrrà quella “secca esplosione luminosa
dell’Annunciata della Cappella Costaguti in S. Carlo ai Catinari a Roma,
a mezza via fra Borgianni e Vouet. [...] Si pensi alle idee che in
questo momento tenevano il campo fra i bolognesi a Roma, e alla piccola
parte pubblica riservata al Lanfranco. Eppure, era non poca cosa in una
situazione letteralmente in mano a Guido e al Domenichino. [...] Ed ecco
nel quadro ai Catinari la risposta del Lanfranco a Guido, la cui
Annunciata egli aveva visto alzare a Montecavallo; Guido da cui aveva
tratto il grande gesto, il «largo», era ora l’alternativa dialettica, il
suo antagonista segreto. Col Domenichino l’antagonismo diverrà,
addirittura, guerra aperta. D’altro canto, il caravaggismo del secondo
decennio, il cosiddetto «metodo manfrediano», di cui non doveva
sfuggirli la forza di rottura, era troppo lontano dalla sua indole
ottimista e serena di buon carracesco di prima maniera; era troppo
d’umor tetro e formalmente chiuso nel suo spazio bloccato dalla luce
emergente. La luce del Lanfranco doveva essere quella di casa sua, nata
fra Parma e Bologna, nella valle padana più bassa, una luce chiara e
ondulante, fasciante, dolce e sfumata, che circolasse ovunque a
raccorciare le distanze fra il cielo e la terra. Era la luce che sognava
non diciamo la religiosità del Lanfranco, ma la sua confidenza
religiosa, il suo civile cattolicesimo emiliano” (Cavalli 1959).
La pala della chiesa di Sant’Antonino alla Motta di Varese (Vergine con
il Bambino, San Giuseppe e San Carlo Borromeo), firmata e datata 1620,
“documenta visibilmente una svolta stilistica che decreta la fine
definitiva della fase « borgiannesca », con il suo stile raffinato e
delicato, e l’inizio del « quinquennio protobarocco », caratterizzato da
un’espressione più aspra e tesa. [...] A questo punto Lanfranco aveva
trovato un linguaggio personale: non doveva più niente a nessuno, almeno
a nessuno dei pittori contemporanei, compreso il Baburen della cappella
della Pietà (1616-1617) in San Pietro a Montorio” (Schleier 2001)
Proseguendo su questa strada l’artista tra il 1625 ed il 1628 realizza
forse il suo capolavoro, la decorazione della cupola della chiesa
romana di Sant’Andrea della Valle. Egli “fu il primo a delucidare
l’apertura di una gloria celeste con viva espressione di un immenso
luminoso splendore” (Passeri ed. 1772). Con quest’opera Giovanni
Lanfranco “lasciò a’ posteri del suo gran genio un mirabile esempio.
[...] Onde con ragione questa pittura è stata rassomigliata ad una piena
musica, quando tutti li toni insieme formano l’Harmonia; perché all’hora
non si osserva minutamente particolar voce alcuna, ma piace il misto, e
l’universale misura e tenore del canto. E si come in questa sorte di
musica si richiede all’orecchio una maggior distanza, così il colore
lontano si unisce, e riesce soavissimo all’occhio” (Bellori 1672).
“Il soggetto iconografico prescelto, in completa sintonia con il culto
mariano dell’Ordine teatino e del cardinale Alessandro Peretti Montalto,
è quello dell’Assunzione della Madonna, nella Gloria del Paradiso. La
rappresentazione si sviluppa, tumultuosa, dall’apice del lanternino
verso le sfere più basse, con il Cristo trionfante che si precipita
dall’alto per benedire i diversi personaggi che affollano il Paradiso e
per accogliere la propria Madre” (Costamagna 2001). “L’idea fondamentale
è ancora quella svolta dal Correggio nelle due cupole di Parma ma
l’accentuazione della mobilità della luce e delle forme è compiutamente
barocca” (Novelli 1966).
Successivamente nell’Erminia tra i pastori (Roma, Pinacoteca Capitolina)
“il significato doveva apparire evidente, più che in una allegoria: il
poema del Tasso era ben noto e quanto il pastore dice alla fanciulla
vestita delle armi di Clorinda rimandava a quel significato che da tempo
era il fine della letteratura pastorale, cioè l’insicurezza e la vanità
delle glorie, l’inutilità dei conflitti mondani, la pace che si trova
solo nelle cose semplici, a contatto con la natura. Nel suo dipinto il
Lanfranco non si è servito della storia di Erminia come pretesto per un
paesaggio né ha insistito sull’atmosfera pastorale. Ha cercato piuttosto
di rendere l’atmosfera della sera (proiezione dello stato d’animo
malinconico di Erminia) con il bosco, sul fondo, che diventa una massa
nera e indistinta contro la poca luce che ancora si attarda sul cielo.
Una luce livida e quasi lunare che illumina obliqualmente le figure, la
chioma argentea del pastore, il brillare della corazza, il bianco del
vello delle pecore, fissando, nell’attimo, il rapido movimento dei due
protagonisti. Nel gesto improvviso del pastore che si ritrae si legge lo
stupore; nella figura inclinata in avanti di Erminia, nel suo giungere
affrettato, si legge dolcezza, tristezza, gentilezza, d’animo. Qualcosa
di momentaneo, di agitato, di indefinito caratterizza questa
composizione. È il mondo di Lanfranco, certo, non il mondo del Tasso. Ma
i due mondi sono forse meno lontani in questo dipinto che in altri”
(Briganti 1985).
Il dipinto con Venere che suona l’arpa, realizzato poco prima della
partenza per Napoli (1634), “molto probabilmente fu eseguito da
Lanfranco espressamente per Marco Marazzuoli, virtuoso di arpa e
compositore per questo strumento, al punto che era chiamato «Marco
dell’arpa», a cui Lanfranco era legato oltre che dalla comune origine
parmense, anche dal fatto che il pittore, come riferisce Passeri, aveva
una figlia che cantava e suonava questo strumento. L’arpa raffigurata
nel dipinto era nelle collezioni Barberini ed è ora conservata al Museo
degli strumenti musicali” (Mochi Onori 2001).
Nel 1646 il pittore “fece per l’ultima volta ritorno a Roma dove si
apprestò ad affrescare la sua grande impresa finale: il catino absidale
della chiesa di S. Carlo ai Catinari con L'apoteosi di S. Carlo Borromeo.
L'affresco monumentale, che diverrà in breve tempo fonte d’ispirazione
per Pietro da Cortona, in primis, e per tutti i pittori della
generazione successiva, è da considerare come l’estremo testamento
figurativo del Lanfranco; questi, ultimata l’opera, morirà pochi giorni
dopo, alla mezzanotte del 29 novembre 1647” (Negro 1995).
“In realtà, è da credere che per il Lanfranco si possano usare molti
termini di qualificazione. Fu conservatore e reazionario (ognuno lo è a
suo modo e secondo la propria stagione), classicista e romantico, capace
di molte verosimiglianze e pronto anche ad intingere invenzioni vecchie
di un secolo nel calamaio del caravaggismo, lui «bolognese»,
schiettamente educato nell’ora di fortuna più fiorita. Ma non fu un
eclettico, ché, quasi sempre, anche nell'iniziale benpensare, il suo
passo giunge di frequente un piede al di là dei confini prevedibili. Più
moderno di quel che il tempo e l’ora potevano consentirgli” (Boschetto
1952).