Luca Giordano (Napoli 1634 - 1705)

 

 

Fin dalla prima educazione, legata alla tarda attività di Ribera, Giordano rivela una straordinaria capacità di assimilazione dei linguaggi pittorici altrui. A Roma, e successivamente a Venezia, il contatto con le esperienze di Pietro da Cortona, Rubens, Poussin e Mattia Preti lo conducono verso un codice figurativo nuovo, ‘neoveneto’, incline all’utilizzo di un colorito prezioso, schiarito, massimamente affine a quello di Paolo Veronese. Tali modelli, di fatto, lo affrancano da quel mondo tenebroso e violento nel quale la scuola napoletana, e lui con essa, versava ormai da mezzo secolo.
Dopo l’apprendistato napoletano e quello romano si trasferisce a Venezia dove “per la prima volta il Giordano ha incarichi di notevole importanza, per pale d’altare; e qui assai più che a Roma, si determina l’arricchimento della sua cultura pittorica che segnerà poi, radicalmente, il successivo destino della sua arte” (Ferrari 1965). La Madonna delle Grazie di San Pietro di Castello “si qualifica per il suo robusto impianto naturalistico riberiano, ma in chiave più affettiva e popolare” (Pallucchini 1981). L’opera “è ancora tutta minuzie stanzionesche e riberiane, dove sulle solide nubi le figure si rivelano fatte di un impasto sapido che appare più denso nelle plastiche pieghe” (Arslan 1938). Nelle opere successive la tensione provocata dal gusto riberiano inizia ad allentarsi. Fra le lagune Giordano, da un lato introduce un linguaggio figurativo di forte contenuto drammatico, ripreso poco dopo da alcuni “tenebrosi”, primo fra tutti Langetti, dall’altro si accosta ai grandi maestri veneti del Cinquecento, Tiziano e soprattutto Paolo Veronese, abbandonando certe soluzioni naturalistiche a vantaggio di un intenerimento espressivo modulato su una cromia più preziosa. I viaggi a Venezia furono probabilmente più d’uno, e tutti importanti per l’accrescimento che ne derivò, a lui attraverso la suggestione della grande pittura veneta del passato, ed alla cultura artistica veneta di quegli anni per la salutare sorpresa che significò l’innesto di quel “particolar suo modo di dipingere con un maneggio di pennello così franco e intenso” (Zanetti 1771).
“Il risultato di questi ulteriori ampliamenti e approfondimenti in direzione veneziana, operati senza escludere rinnovati e costanti interessi per Rubens, Lanfranco, Pietro da Cortona o finanche Nicolas Poussin, e documentati oltretutto da dipinti di una calda e sensuale bellezza cromatica – dal Convito di Adone di privata raccolta napoletana e dal Ritorno di Persefone del Museo di Chalon-sur-Saône alla coppia con Lucrezia e Sesto Tarquinio e Venere e Cupido e un satiro già d’Avalos e ora Capodimonte – fu l’ormai convinto e definitivo approdo alle sponde soleggiate e luminose del Barocco” (Spinosa 2001). “Tutto è quivi facile: facili le tinte aperte e accordatissime in un tuono generale che ispira letizia; facile il fare, che diresti bonario e quasi tutto Paoloesco se non fosse che il Giordano lo ammoderna sentimentando alquanto più il nudo, facile il faldeggiare; facile financo la dottrina ch’è moltissima, né pare; sì ch’io sarìa per dire l’invenzione fiorirvi in concerto alla composizione; nulla affatto sendovi di quel troppo cerco ed erudito solito a tarare le gran mitologie de’ Lebrun o degli altri imprenditori di siffatti operoni per le Accademie franzesi” (Longhi 1950).
A Firenze, dal 1682 al 1686, il pittore eseguì nella galleria di palazzo Medici Riccardi una decorazione ad affresco, raffigurante la Glorificazione della dinastia medicea, le Virtù Cardinali e i diversi stati della vita umana, che diede l’avvio alla pittura atmosferica settecentesca, con esempi di dilagante luminosità che gli procurarono la piena affermazione anche a livello internazionale. Giordano in questa sede svolse una composizione senza soluzione di continuità, nella quale i vari episodi delle fasi e delle attività della vita umana si dipanano “collegati l’uno all’altro nel ritmo fluido e incessante del racconto disposto tutto lungo il perimetro della volta. [...] Quel che ne risultò fu una rappresentazione di esaltante levatura poetica, nella quale prorompe l’indicibile incanto della florida natura e delle mitiche personificazioni che nel loro svelto succedersi torno a torno come in un diorama sembrano seguire la cadenza di un lieto componimento musicale. E prorompe un atteggiamento liberamente profano, edonistico, che si risostanziava di classica poesia, ben oltre le tipiche implicazioni culturali del tardo Barocco” (Ferrari 2000). Tali esempi furono subito raccolti dal veneziano Sebastiano Ricci che li tradusse negli affreschi di Palazzo Pitti “in raffinate e impreziosite soluzioni rocailles”. “L’accrescimento del vecchio Giordano si può definire, senza tema di esagerare, prodigioso. A settant’anni il pittore, reduce dalle monumentali imprese spagnole, in una serie ancora numerosa di opere procede speditamente verso un libero pittoricismo e perviene a tali risultati quali il suo giovane rivale Solimena, dotatissimo ma invischiato in un crescente processo di involuzione accademizzante non raggiunse mai. [...] La novità dell’ultimo Giordano consistette soprattutto nell’aver trasposto, dilatata ad una dimensione grande e drammatica, quella pittura di tocco che egli aveva preannunciato nei bozzetti e nelle parti più moderne della sua produzione spagnola. Se da un lato perciò il pittore continuava a svolgere un felice e fantasioso racconto – come negli affreschi di San Martino – in chiave di ‘barocchetto’ leggero e prezioso, preannunciando i tempi e i modi del Giaquinto, dall’altro egli inaugurava anche una pittura spaziata, austera di colore, improvvisata nell’esecuzione tutta fatta di annotazioni concise e di tono energico, a tratti addirittura violento” (Scavizzi 2000).
Va detto infine che le sempre più numerose commissioni lo indussero ad avvalersi d’una affollata bottega. Aiuti e collaboratori “sviluppavano «in grande» disegni e bozzetti forniti dal maestro, completavano opere da quest’ultimo solo iniziate, replicavano in formati diversi sue composizioni «di successo»; mentre in molti casi lo stesso Giordano al più si concedeva d’intervenire, con qualche colpo di pennello ben messo, a dare autenticità ai lavori condotti a termine dagli allievi” (Spinosa 2001). Tale vastità di produzione unita ad una rapidità d’esecuzione gli valse l’appellativo di “Luca fa presto”.
 
 

Daniele D'Anza