Fin dalla prima educazione, legata alla
tarda attività di Ribera, Giordano rivela una straordinaria capacità di
assimilazione dei linguaggi pittorici altrui. A Roma, e successivamente
a Venezia, il contatto con le esperienze di Pietro da Cortona, Rubens,
Poussin e Mattia Preti lo conducono verso un codice figurativo nuovo, ‘neoveneto’,
incline all’utilizzo di un colorito prezioso, schiarito, massimamente
affine a quello di Paolo Veronese. Tali modelli, di fatto, lo affrancano
da quel mondo tenebroso e violento nel quale la scuola napoletana, e lui
con essa, versava ormai da mezzo secolo.
Dopo l’apprendistato napoletano e quello romano si trasferisce a Venezia
dove “per la prima volta il Giordano ha incarichi di notevole
importanza, per pale d’altare; e qui assai più che a Roma, si determina
l’arricchimento della sua cultura pittorica che segnerà poi,
radicalmente, il successivo destino della sua arte” (Ferrari 1965). La
Madonna delle Grazie di San Pietro di Castello “si qualifica per il suo
robusto impianto naturalistico riberiano, ma in chiave più affettiva e
popolare” (Pallucchini 1981). L’opera “è ancora tutta minuzie
stanzionesche e riberiane, dove sulle solide nubi le figure si rivelano
fatte di un impasto sapido che appare più denso nelle plastiche pieghe”
(Arslan 1938). Nelle opere successive la tensione provocata dal gusto
riberiano inizia ad allentarsi. Fra le lagune Giordano, da un lato
introduce un linguaggio figurativo di forte contenuto drammatico,
ripreso poco dopo da alcuni “tenebrosi”, primo fra tutti Langetti,
dall’altro si accosta ai grandi maestri veneti del Cinquecento, Tiziano
e soprattutto Paolo Veronese, abbandonando certe soluzioni
naturalistiche a vantaggio di un intenerimento espressivo modulato su
una cromia più preziosa. I viaggi a Venezia furono probabilmente più
d’uno, e tutti importanti per l’accrescimento che ne derivò, a lui
attraverso la suggestione della grande pittura veneta del passato, ed
alla cultura artistica veneta di quegli anni per la salutare sorpresa
che significò l’innesto di quel “particolar suo modo di dipingere con un
maneggio di pennello così franco e intenso” (Zanetti 1771).
“Il risultato di questi ulteriori ampliamenti e approfondimenti in
direzione veneziana, operati senza escludere rinnovati e costanti
interessi per Rubens, Lanfranco, Pietro da Cortona o finanche Nicolas
Poussin, e documentati oltretutto da dipinti di una calda e sensuale
bellezza cromatica – dal Convito di Adone di privata raccolta napoletana
e dal Ritorno di Persefone del Museo di Chalon-sur-Saône alla coppia con
Lucrezia e Sesto Tarquinio e Venere e Cupido e un satiro già d’Avalos e
ora Capodimonte – fu l’ormai convinto e definitivo approdo alle sponde
soleggiate e luminose del Barocco” (Spinosa 2001). “Tutto è quivi
facile: facili le tinte aperte e accordatissime in un tuono generale che
ispira letizia; facile il fare, che diresti bonario e quasi tutto
Paoloesco se non fosse che il Giordano lo ammoderna sentimentando
alquanto più il nudo, facile il faldeggiare; facile financo la dottrina
ch’è moltissima, né pare; sì ch’io sarìa per dire l’invenzione fiorirvi
in concerto alla composizione; nulla affatto sendovi di quel troppo
cerco ed erudito solito a tarare le gran mitologie de’ Lebrun o degli
altri imprenditori di siffatti operoni per le Accademie franzesi” (Longhi
1950).
A Firenze, dal 1682 al 1686, il pittore eseguì nella galleria di palazzo
Medici Riccardi una decorazione ad affresco, raffigurante la
Glorificazione della dinastia medicea, le Virtù Cardinali e i diversi
stati della vita umana, che diede l’avvio alla pittura atmosferica
settecentesca, con esempi di dilagante luminosità che gli procurarono la
piena affermazione anche a livello internazionale. Giordano in questa
sede svolse una composizione senza soluzione di continuità, nella quale
i vari episodi delle fasi e delle attività della vita umana si dipanano
“collegati l’uno all’altro nel ritmo fluido e incessante del racconto
disposto tutto lungo il perimetro della volta. [...] Quel che ne risultò
fu una rappresentazione di esaltante levatura poetica, nella quale
prorompe l’indicibile incanto della florida natura e delle mitiche
personificazioni che nel loro svelto succedersi torno a torno come in un
diorama sembrano seguire la cadenza di un lieto componimento musicale. E
prorompe un atteggiamento liberamente profano, edonistico, che si
risostanziava di classica poesia, ben oltre le tipiche implicazioni
culturali del tardo Barocco” (Ferrari 2000). Tali esempi furono subito
raccolti dal veneziano Sebastiano Ricci che li tradusse negli affreschi
di Palazzo Pitti “in raffinate e impreziosite soluzioni rocailles”.
“L’accrescimento del vecchio Giordano si può definire, senza tema di
esagerare, prodigioso. A settant’anni il pittore, reduce dalle
monumentali imprese spagnole, in una serie ancora numerosa di opere
procede speditamente verso un libero pittoricismo e perviene a tali
risultati quali il suo giovane rivale Solimena, dotatissimo ma
invischiato in un crescente processo di involuzione accademizzante non
raggiunse mai. [...] La novità dell’ultimo Giordano consistette
soprattutto nell’aver trasposto, dilatata ad una dimensione grande e
drammatica, quella pittura di tocco che egli aveva preannunciato nei
bozzetti e nelle parti più moderne della sua produzione spagnola. Se da
un lato perciò il pittore continuava a svolgere un felice e fantasioso
racconto – come negli affreschi di San Martino – in chiave di
‘barocchetto’ leggero e prezioso, preannunciando i tempi e i modi del
Giaquinto, dall’altro egli inaugurava anche una pittura spaziata,
austera di colore, improvvisata nell’esecuzione tutta fatta di
annotazioni concise e di tono energico, a tratti addirittura violento” (Scavizzi
2000).
Va detto infine che le sempre più numerose commissioni lo indussero ad
avvalersi d’una affollata bottega. Aiuti e collaboratori “sviluppavano
«in grande» disegni e bozzetti forniti dal maestro, completavano opere
da quest’ultimo solo iniziate, replicavano in formati diversi sue
composizioni «di successo»; mentre in molti casi lo stesso Giordano al
più si concedeva d’intervenire, con qualche colpo di pennello ben messo,
a dare autenticità ai lavori condotti a termine dagli allievi” (Spinosa
2001). Tale vastità di produzione unita ad una rapidità d’esecuzione gli
valse l’appellativo di “Luca fa presto”.