Fra Galgario, ovvero il “maggior ritrattista del Settecento, non in tutta
Bergamo, ma in tutta Europa” (Longhi 1953), si forma a Venezia
nell’ultimo quarto del diciassettesimo secolo. Nella breve parentesi del
ritorno in terra natia l’artista realizza alcune opere di carattere
sacro per le chiese della provincia, purtroppo però tali dipinti non
sono ancora stati rintracciati. Fra Galgario pittore “ritrattista” nasce
quindi nella bottega di Sebastiano Bombelli, dove entra verso il 1693
prima come discepolo, poi come aiuto, riuscendo infine a misurarsi con
il maestro stesso, se è vero che nella Scuola di San Marco il “Ritratto
del Cancelier grande”, dipinto dal bergamasco, veniva affiancato ad uno
di Bombelli, senza “distinguesi qual sia il migliore” (Tassi 1793).
Dall’esempio dell’udinese egli trasse “le più chiare tendenze della sua
arte pomposa e affascinante, esagerandone con spavalda bravura quell’aria
di fatuità che nel Bombelli appena trapela” (Fiocco 1929).
“La rivelazione poetica il Ghislandi l’ebbe comunque
a quarant’anni suonati rientrando a Bergamo, padrone ormai di ogni
artificio tecnico e d’ogni segreto del colore. Lasciati i motivi di
genere e gli argomenti sacri, se mai, per l’avita riluttanza bergamasca,
ne dipinse, egli si mise, come il Moroni ed il Ceresa, a ritrattare la
società del suo tempo e più della sua città, ad indagarne la psicologia,
a sviscerarne passioni, dolori, presentimenti, speranze. [...] Con
l’ironia tagliente, alla Diderot, dell’innovatore e dell’intellettuale
ed al tempo con la coscienza d’essere lui stesso frutto di quella
società, con lo spregio della ragione e l’affetto del cuore, il
Ghislandi seppe chinarsi su quei volti viziosi, su quegli sguardi velati
dalla noia e dal rimorso per colpe presenti ed antiche, vividi di
passione ebbra e di prezzante orgoglio. [...] Sete e broccati, velluti,
rasi coloratissimi, merletti, guarnizioni di pelliccia, giustacuori di
forbitissimo acciaio, gioielli, argenti, costumi orientali, i manufatti
più preziosi adornavano questa superba galleria. La preoccupazione di
rendere quella materia era tale che il pittore, fermate le sembianze del
modello, passava al manichino, «una figura di legno quanto il vivo», che
«copriva di panni, o d’altri ornamenti per poterli a sua comodità ed al
vivo perfettamente imitare»” (Ferro 1966).
Verso il 1720 fanno la loro comparsa i
primi “forti contrasti di luce e di ombra; il rilievo delle figure
diventa ancor più vigoroso; la vivacità suggestiva dei volti viene
accentuata da sprazzi di luce nel fondo scuro, dietro le teste; la tinta
delle carni si fa più accesa, come riscaldata da un sangue generoso; gli
occhi scintillano pieni di vita e di espressione, e il contrasto dei
colori bassi e dei colori lucenti diventa tipico della sua composizione
coloristica del quadro.
È «l’alto e formidabile colorito» di cui
parla il Tassi, nel quale trionfano le note squillanti della sua famosa
lacca rossa, distesa a velature su di una preparazione chiara, come
usavano i pittori veneziani del Cinquecento, dell’azzurro di cobalto,
del verde smeraldo, al disopra di toni sfatti, dei bruni profondi e
dorati delle terre naturali e bruciate. Nello stesso tempo l’impasto si
fa più nutrito e forma una superficie smaltata, il tocco diventa sempre
più scoperto e più prode.
Rappresentativo di questa
maniera è il Ritratto del Conte
Filippo Marenzi all’Accademia Carrara, a mezza figura chiusa in
ovale, in abito e berretto rosso con sciarpa azzurra foderata di color
cremisi che gli attraversa il busto dalle spalle al fianco e un’altra di
giallo chiaro intorno alla cintola. È un’opera da collocarsi fra il 1720
e il 1725 ed è decorativamente del tipo più fastoso e sfoggiato, e
coloristicamente più audace” (Milesi 1946).
Il Gentiluomo con tricorno del Museo Poldi Pezzoli di Milano, difatto,
“rimane il più coraggioso ritratto del secolo in Europa. È un
personaggio di alto rango (un cavaliere dell’Ordine Costantiniano) e di
più alta corruzione: avvicinato da chi questa corruzione sa riconoscere
in ogni suo trasalimento e condannare ed amare. Mesta e solenne come un
Miserere una sinfonia di grigi, di viola, di neri, di ori e di argenti,
si asserra nel febbricitante pallore, sulle labbra sensuali e stanche.
Vizio e ragione, orgoglio e indifferenza, desiderio e noia divengono qui
inscindibili” (Ferro 1966).
Nello stesso anno in cui
esegue il suo Autoritratto
(Bergamo, Accademia Carrara) datato 1732, l’artista “avendo la mano
alquanto tremante cominciò a dipingere col dito anulare tutte le
carnagioni, la qual cosa continuò sino alla morte; e siccome era stato
di Tiziano perfetto imitatore nel colorito, così compiacevasi di
imitarlo ancora in questo, asserendo che tale maniera di dipingere,
assai bene ed a grande comodità gli tornava; né mai più, nel far le sole
carnagioni però, si servì di pennello, se non in qualche minuta parte, o
per dare gli ultimi colpi; ed in questa sua ultima maniera ha fatto
bellissime teste, e pastose quant’altre mai, tuttochè fatte a tocchi
interamente” (Tassi 1793). In quest’ultima maniera abbreviata che presuppone il massimo possesso della forma “lo stile del maestro si arricchisce di ulteriori effetti nella già straordinaria forza ed esuberanza del colore e nella stesura pittorica; le paste cromatiche, intrise di luce, appaiono non di rado stese a spatola e modellate direttamente con i polpastrelli conferendo all’immagine una inedita vitalità e una eccezionale carica espressiva. Ancora irrisolto appare il problema della attività di Fra Galgario quale autore di quadri storici e sacri dei quali non resta più alcuna traccia se non nelle pagine del Tassi, il primo dei suoi biografi a farne menzione” (De Pascale 1989). Non si possono, infine, "negare salti di qualità all'interno della vastissima produzione ghislandiana, ma l'atteggiamento del pittore nei confronti dell'effigiato rimane comunque imparziale: la modernità del Ghislandi risiede anche in una nuova obiettività verso il personaggio, senza distinzioni di stato, condizione sociale, sesso. Come aveva già compreso Roberto Longhi nel 1953, proprio questa lucidità di stampo illuministico consente al Ghislandi la creazione di una straordinaria galleria di personaggi di provincia, dalle più svariate «coloriture» umane e sociali" (Gozzoli 1982).
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