Accolti gli stimoli
di alcuni fra i maggiori maestri emiliani del tempo quali
Lionello Spada, Bonone, Camillo Gavassetti e Guercino, Luca Ferrari
cresce a contatto con l’arte di Alessandro Tiarini, del quale fu aiuto a
Modena nel 1627 (Arcangeli 1959). Tuttavia “allorché inizia la
collaborazione col Tiarini, ha già formato un suo gusto, basato sul
disegno e nel colorito chiaro, campito nettamente e plasticamente
rilevato nella luce, che costituirà la base per la formazione d’uno
stile monumentale, largo e solenne, ma nello stesso tempo decorativo,
«barocco»” (Fantelli 1978).
Con il grande telero votivo,
La pestilenza del 1630, commissionato da Lionello Papafava per la
chiesa padovana di Sant’Agostino (oggi Cassa di Risparmio), Ferrari
introduce nel Veneto i “modi narrativi emiliani, cadenzati con un gusto
naturalistico attento e preciso, senza lacerazioni patetiche alla
lombarda, e in una luce schiarita, adatta ad una messa in scena
paesistica” (Pallucchini 1981).
Durante il primo soggiorno a Padova,
oltre a conoscere l’arte di Paolo Veronese, entra in contatto con le
voci nuove della pittura veneta, ovvero Bernardo Strozzi ed il suo
seguace padovano Ermanno Stroiffi ma anche con Nicola Renieri, allora
attivo a Venezia, donde quella “mescolanza tra gusto accademico e lucida
diligenza di particolari” che gli è tipica (Arcangeli 1959). Allo
scadere del primo soggiorno padovano è collocabile l’Annunciazione
della parrocchiale di Carceri d’Este (Padova). Ferrari “si muove ormai
con la sicurezza di chi ha raggiunto la piena padronanza di un proprio
personale linguaggio artistico; che, in fondo, resta sostanzialmente
legato alle sue origini, ma è pure quello di un emiliano in libertà
senza obblighi o costrizioni di regole o di scuole. Così egli spesso
accetta, delle parlate venete, i termini a suo giudizio più consoni a
ciò che di volta in volta si sente esprimere” (Pirondini 1999).
Molto apprezzata fu anche la tematica
classica e mitologica che Ferrari, fin dal suo periodo giovanile, andò
sviluppando tanto in Emilia quanto nel Veneto. Nel
Crise che domanda la restituzione di Briseide e nell’Incontro
di Ettore e Andromaca (Venezia, Palazzo Pisani-Moretta) “la
presentazione dei personaggi a mezza figura e il lume radente sono in
funzione di una intensa caratterizzazione patetica e di una pungente
evidenza ottica dell’immagine, mentre un effetto teatrale è conseguito
dai costumi sontuosi, resi con brillante virtuosismo [...] e dalla
mimica eloquente dei gesti e delle mani” (Pavanello 1976).
Ritornato a Reggio Emilia per affrescare
la chiesa della Madonna della Ghiara, l’artista “si abbandona a un volo
fortunato” dove “brilla in candore di carni e di vesti, in aria di
frasche, quasi in anticipo del migliore ‘gran gusto’ settecentesco, e in
una forma che non conosce l’uguale, non per qualità ma per carattere,
nella pittura seicentesca dell’Emilia” (Arcangeli 1959).
In conclusione va detto, che se la cultura figurativa padovana degli
anni a ridosso della metà del XVII secolo si presenta all’insegna del
gusto emiliano, ciò è dovuto soprattutto a Luca Ferrari. Attorno alla
sua figura “infatti ruota un gruppo di artisti che ne svilupperà i modi
e tra questi innanzitutto due conterranei verosimilmente giunti a Padova
al suo seguito” (Fantelli 2000). Uno è Lorenzo Bedoni, che “lavorerà per
la basilica di Sant’Antonio soprattutto come pittore, pittore
quadraturista e architetto” (Fantelli 2000), l’altro, di cui abbiamo
poche notizie, si chiama Francesco Viacavi.
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