Louis Dorigny (Parigi 1654 - Verona 1742)

 

 

Dorigny si dedicò prevalentemente alle grandi decorazioni a fresco di ville, palazzi e chiese dove dimostrò “egregia virtù, essendo in lui copia, e bizzarria d’invenzioni appropriate a personaggi, e a siti rappresentati, pratica del lavorare del sotto in sù, intelligenza de’ lumi, e perfettione del disegno” (Dal Pozzo 1718). Trattò soggetti profani e religiosi con stile enfatico, passando dalla tradizione romana di Maratta al colorismo manierato dei settecenteschi veronesi, non senza, a volte, risentire, attraverso Antonio Zanchi, della spigliata bravura decorativa di Luca Giordano. Una certa grazia mondana, spesso convenzionale, valse a renderlo famoso tra i suoi contemporanei.

Perduti gli affreschi di San Silvestro lodati da Zanetti (1771), una delle prime testimonianze è certo la decorazione della chiesetta di Ca’ Nave a Cittadella (1689), ovvero “uno dei più integri, omogenei e qualitativamente eletti esempi di decorazione pittorica e plastica del tardo Seicento veneto. Pittura e scultura, completandosi a vicenda secondo il principio del ‘bel composto’, hanno trasformato la semplice aula rettangolare in una sala magnifica, un theatrum sacrum, dove ha luogo una gloriosa manifestazione del soprannaturale. [...] La decorazione ad affresco vi ha un ruolo dominante, estendendosi a tutto il vano, saturando il colore. [...] Sulla volta, intorno alla grande apertura, si susseguono monocromi in color rosa carico con episodi evangelici, profilati da cornicette a foglie di palma dorate. Alla densità dell’ornato e alla dominante tonalità fulva dell’insieme, che evoca lo splendore della doratura, si contrappone la visione del cielo, in gran parte sgombro, se non per uno stormo di angioletti e di cherubini e per una figura d’angelo reggicartiglio (vi si legge FILIVS MEVS DILECTVS) che vola al limite dell’ovale, verso l’ingresso. La parte figurale s’addensa nella zona in corrispondenza dell’altare, dove irrompe illusivamente dall’alto, fra un vaporare di nuvole, il Padreterno in una gloria d’angeli. Essi sciamano con impeto festoso intorno alla colomba dello Spirito Santo, che si manifesta entro uno scoppio di luce, vero fuoco visivo del complesso. L’apparizione soprannaturale ha il suo complemento e la sua stessa ragion d’essere nella presenza della statua [in marmo] del Risorto. Il sacro evento cui assistiamo è, infatti, l’Ascensione o, più precisamente, il ricongiungimento che sta per aver luogo fra le Persone della Trinità [...], autore degli affreschi è Louis Dorigny: una paternità che, anche se non fosse documentata, risulta lampante per evidenza di stile. Del resto, egli è uno degli artisti più riconoscibili, fedele alle sue sigle formali dal principio alla fine: tutt’al più in questa opera ancora giovanile, esse appaiono innervate  da una particolare energia, rese vigorose da sottolineature chiaroscurali. Sono comunque tipici del suo stile la sforbiciatura delle immagini in profili nitidi, la predilezione per forme falcate o affusolate, di sofisticata eleganza neo-manieristica, la resa a intarsio del chiaroscuro, la tavolozza chiara in cui dominano il giallo, il lilla, il verde acqua, abbinati tuttavia, in questo caso, con il rosso-ruggine delle ombre degli incarnati e delle nuvole. Dorigny si conferma un pittore di cieli senz’aria, ideatore di un barocco per così dire raggelato, tradendo in questo l’educazione francese, avvenuta nell’atelier di Charles Le Brun e sulle stampe paterne riproducenti opere di Simon Vouet” (Mariuz-Pavanello 1997).    

“Solo dopo la significativa impresa decorativa di Dorigny nella chiesetta di Ca’ Nave, la prima conservataci che sia finalmente ancorata cronologicamente, può essere collocata quella di Ca’ Zenobio, e precisamente ancora dopo il suo intervento in palazzo Leoni Montanari di Vicenza del 1692-93, nella cui decorazione, comprendente dipinti su tela posti alle pareti, è coinvolto Paolo Pagani assieme a maestri veronesi, quali Marchesini, Menarola, Lonardi e Brentana e all’Arrigoni. Nelle articolate decorazioni ad affresco qui realiz­zate con soggetti mitologici e di storia, purtroppo non tutte conservate in termini soddisfacenti, e nei dipinti che completavano la decorazione del palazzo, recentemente riscoperti in Villa Valle a Brendola (Vicenza), si trovano i migliori elementi di confronto stilistico per collocare, dunque, qualche tempo dopo, come era già stato supposto, la decorazione di Ca’ Zenobio. Per quest’ultima ci si riporta di preferenza al 1695, momento che può essere convalidato dalla documentata presenza in contemporanea di Antonio Balestra appena di ritorno da Roma. [...] Un tale risultato difficilmente può essere spiegato all'altezza della data tradizionalmente assegnata al ciclo, anche a tener conto dell’oscillazione massima di essa tra il 1682 e il 1687, variamente riportata dalla storiografia con unici termini di riferimento quelli del trasferimento veronese del Dorigny che si è voluto fissare con fin troppa determinatezza nel 1687, come se esso fosse definitivo, mentre invece il maestro, anche grazie ad inediti riscontri, si trova in realtà anco­ra documentato a Venezia, almeno sporadicamente, per la gestione di vari interessi, come nel marzo 1690 e nell’aprile dell'anno seguente. Tale datazione degli affreschi veneziani rivela la sua incongruità soprattutto a seguito della significativa scoperta della decorazione ad affresco che si ammira nella chiesetta di Ca’ Nave di Cittadel­la, in cui il Dorigny dovette intervenire in prossi­mità del 1689, data messa in bella evidenza sulla facciata dell’edificio sacro, con tutta probabilità in risposta alla volontà del committente, Bartolomeo Nave, di significare la fine dei lavori (Fossaluzza 1998).

Ad ogni modo, assieme a “Paolo Pagani, Dorigny segna il primo rinnovamento figurativo a Verona intorno al 1680. Dal Pozzo [1718] segnala Dorigny come residente a Verona esattamente dal 1687 ma è evidente che ciò va inteso solo nel senso di base operativa per un più largo raggio di spostamenti, come avvenne poi per tutto l’arco della sua esistenza” (Marinelli 2000).

Nella pala con I santi Pietro Martire e Antonio da Padova, conservata nella sagrestia della parrocchiale di Caprino Bergamasco, che “presenta un santo domenicano accostato a un santo francescano, va rilevato l’atteggiamento di studiata eleganza, si direbbe pre-pittoniana, di sant’Antonio da Padova: un’immagine che ben esemplifica il contributo dell’artista francese al rococò veneziano. Si consideri pure la ricercatezza del gesto di entrambi nel reggere il giglio o come venga a svolgersi nell’aria la candida veste del martire domenicano, anche nel tentativo di determinare un motivo di collegamento fra le due figure, ciascuna assorta in un proprio pensiero mistico” (Pavanello 1997). 

Un’atmosfera “misteriosa e silente”, generata da spiccati effetti di controluce, avvolge invece la Caduta della manna della chiesa veronese di San Luca (1704), dove “la natura desolata e spoglia sembra diventata muta spettatrice dell’evento miracoloso” (Pasian 1999).

 

 

Daniele D'Anza