Allievo dapprima di
Matteo Ponzone, passò presto sotto la guida di Sebastiano Mazzoni. La
felice unione di queste componenti, la tardomanieristica del primo e la
barocca del secondo, rendono caratteristica, e facilmente riconoscibile,
la sua pittura. Interessatosi al gusto naturalistico dei tenebrosi, in
voga in quegli anni fra le lagune, risalì, attraverso quella corrente,
ad una delle sue origini più vitali, la pittura neoveneziana, dorata e
ricca d’impasto, di Luca Giordano. Da Mazzoni trasse il gusto per il
colore vivido e la pennellata nervosa, che egli portò alle estreme
conseguenze nelle ultime opere, quasi dissolvendo la forma nella luce.
“Il dipingere di questo valentuomo era assai singolare nel modo. Molte
volte non meschiava i colori sulla tavolozza, siccome ognuno suol fare;
ma mettendo sulla tela una striscia di biacca, una di terra rossa, di
gialla, e d’altri colori, univa ogni cosa sul quadro istesso e formava
quelle parti, ch’egli avea pensato con incredibile felicità, e con bell’effetto
di tenerezza. [...] I contorno delle figure del Celesti non erano de’
più eruditi; ma grande n’era il carattere, bella la forza, e armoniose
erano le composizioni delle opere sue; finché meritatamente è tenuto per
uno de’ primi Maestri di quell’età” (Zanetti 1771).
Delle prime opere, realizzate per la cappella della Pace ai Santi
Giovanni e Paolo di Venezia nel 1675 (Zanetti), rimane solamente
l’intelligente lettura che ne fece Cochin (1758): ”Ils sont ingénieux de
composition; la manière en est grande; le caractère du dessein en est
rond, et les formes molles et indécises, surtout dans les draperies. L’effet
en est piquant, les ombres fort noires; les demi teintes sont colorées
de tons extrêmement vifs beaux et variés. Il y a beaucoup de tons
pourprés, et ils ressemblent fort à ceux de Rubens, lorsqu'il est le
plus haut en couleur. Le pinceau en est flou. C'est le plus hardi
coloriste qu'on ait vu à Venise: mais il est outré à l'excés et la
nature n'est point de cette force”.
Avviato dalla sua educazione accademica allo studio della grande eredità
cinquecentesca, e particolarmente in direzione del Tintoretto, verso il
quale l’attirava il temperamento visionario e la tendenza a trasfigurare
magicamente la realtà per virtù del chiaroscuro, il suo gusto presto
virò verso una fluidità schiarita di intenzione neoveronesiana,
sotto lo stimolo di Mazzoni tardo e di Giordano.
Celesti impagina sontuosamente le sue scene entro telai architettonici
di gusto veronesiano, spiega con dovizia le forme ma ne trascura, per lo
più, il disegno, che solo di rado compare a delineare le ampie campiture
di colore generosamente distese da una pennellata fluida e liquida. La
sua tavolozza si scoglie sempre più in una sorridente ebbrezza di luci.
È questo il linguaggio che Andrea Celesti spiega con straordinaria
ricchezza e stupefacente festosità di colore nelle moltissime opere
dipinte, in quasi tre lustri, sulle rive del lago di Garda. Nel
grandioso Martirio di San Lorenzo (cm. 950x450), realizzato nel 1703 per
la chiesa di San Lorenzo di Verolanuova, “la scena notturna è
rischiarata dalle fiamme delle torce che mandano bagliori sulle armature
metalliche. Le architetture sullo sfondo sono avvolte nel chiarore
perlaceo emanato dalla falce di luna, mentre in alto le nubi sono
squarciate dall’improvviso apparire degli angeli che recano la corona e
la palma del martirio” (Marelli 2000).
Il ritrovamento di Mosè della Galleria Civica di Reggio Emilia rivela
invece una composizione sobria, vivificata però da un colore tutto
impasti: rosati ed azzurrini nel fondo, bianchi, gialli dorati nelle
stoffe e negli abiti delle due donne. Il suo stile precorritore appare
evidente in quel modo “ormai disorganico di impiantare la composizione,
tutto un gioco di spumosità e di iridescenze, d’una succosità
prettamente settecentesca e sottilmente rococò” (Pallucchini 1951).
L'artista "svolge le scene della Storia Sacra con una fantasia e una
ricchezza d'invenzioni sbalorditive: i suoi conviti non sono meno
festosi di quelli di Paolo Veronese: personaggi in numero enorme vi
partecipano, servi, suonatori, donne con bambini; donne affacciate ai
balconi li contornano. La fantasia vivace del Celesti si spiglia nella
descrizione di vesti, vasellami, di nature morte, di panneggi,
riportando sulle sue tele lo sfarzo dei costumi e delle ricchezze che il
vicino Oriente sfoggia al sole di Venezia" (Mucchi - Della Croce 1954)
Nelle opere dell’ultima fase l’artista porta avanti il suo luminismo
fino ad immergere le cose e l’atmosfera in un pulviscolo dorato,
scorporando la forma stessa ed offrendo suggerimenti di qualche portata
alla nuova pittura veneta del Settecento. La sua tipologia
inconfondibile, derivata in parte, forse, da Andrea Vicentino, fu
ripresa da Giuseppe Nogari, ma si possono trovare tracce anche in
Antonio Guardi.
Lanzi (1795-96) lo definì “pittor vago, fecondo di belle immagini, di
contorni grandiosi, di campi ameni, di arie, di volti, e di vestiture
graziose, e talora paolesche; di un colorito finalmente non lontano
dalla verità, lucido molto, lieto e soave”.