Antonio Carneo (Concordia Sagittaria 1637 - Portogruaro 1692)

 

 

“Ammaestrato nella pittura da suo padre, che fu anch’esso pittore di qualche nome, colorì di buon gusto e nella carnagione riuscì morbido e pastoso. Per non essere mai uscito dal suo paese pochi ebbero notizia di lui, onde poco operando, e male riconosciuto si ridusse a menare una stentata e miserabil vecchiaia” (Guarienti 1753).
La sua formazione artistica potrebbe esser avvenuta nell’ambiente culturale di Portogruaro e Concordia, dominato dalle presenze di Palma il giovane, del Padovanino, nonché, come suggerito da Rizzi (1960), da opere bassanesco-tintorettiane. Secondo Pallucchini (1981) e Aikema (1990) Carneo potrebbe aver frequentato intorno il 1660 la bottega di Pietro della Vecchia a Venezia. Lo proverebbe un Sacrificio di Polissena di collezione privata che l’artista avrebbe replicato da un originale del maestro. “Tuttavia, sebbene il Vecchia fosse conosciuto in provincia attraverso opere come il perduto gonfalone eseguito tra il 1626 e il 1628 per la confraternita del Carmine che aveva sede nel Duomo di Pordenone o la pala di Sant’Agostino risalente al 1762 e tuttora conservata nello stesso Duomo, di un suo effettivo influsso sul Carneo si può parlare esclusivamente in rapporto alle forzature fisiognomiche ed espressive di alcune figure, alla dinamicità interna di qualche composizione e infine a talune consonanze tematiche” (Furlan 1995). 
Comunque sia, la sua complessa cultura figurativa rivela un interesse vario e costante che spazia dai grandi cinquecenteschi ai precorritori del rococò: dalla meditazione sul Tintoretto, sul Veronese, sul Pordenone, ai presupposti del Palma, del Padovanino, del Vecchia; dalla conoscenza del Fetti e del Liss, agli apporti del Rubens, dello Strozzi, del Maffei, alle suggestioni di Eberhard Keil, all’accostamento al primo Giordano. Questo suo eclettismo sveglio e non accademico gli garantì un ruolo di spicco nel panorama della pittura veneta del ‘600, anche se talvolta lo fa apparire anacronistico rispetto allo svolgimento contemporaneo del gusto.
Il suo percorso artistico sembra partire da un gusto neocinquecentesco per procedere, attraverso una fase più naturalistica, all’adesione alla corrente dei tenebrosi, continuando verso esiti più propriamente barocchi.
“Genio maggiore di questo dopo il Pordenone non diede il Friuli, [...] fu ingegnoso e nuovo ne’ partiti delle grand’istorie, fiero nel disegno, felice nel colorito specialmente delle carnagioni” (Lanzi 1795-96). La Sacra Famiglia venerata dal Luogotenente e dai Deputati dei Civici Musei di Udine, è considerata dalla critica la prima opera nota dell’artista. Firmata “Carneus F(acie)b(a)t”, essa fu probabilmente realizzata l’anno stesso dell’arrivo del pittore a Udine (Geiger 1940). “Tela di carattere devozionale, ma di commissione pubblica e quindi con dichiarate finalità politiche, simboleggia l’omaggio, l’ossequio del potere politico, rappresentato da Luogotenente e Deputati visti in una rasserenante dimensione familiare dovuta alla presenza dei bambini, alla divinità: nel caso specifico alla Sacra Famiglia. [...] Al centro della composizione tre deputati, due bambini e sullo sfondo il castello di Udine, alto sul colle. [...] Impostata secondo schemi cari a Palma il giovane e al Padovanino (mutuati - secondo il Rizzi – da Giovanni Giuseppe Cosattini presso cui sarebbe stato a bottega), mostra nel gruppo della Sacra Famiglia reminescenze veronesiane già notate da Zambaldi” (Bergamini 2003).
Eseguiti poco dopo, il Giramondo e la Meditazione, (Udine, Civici Musei) rappresentano un “autentico monumento all’anima friulana” (Rizzi 1960); essi, stilisticamente, dichiarano l’adesione dell’artista alla corrente dei “pittori della realtà”.  La forte connotazione realistica appare derivata da alcuni esempi diffusi dal danese Keil oltre che dalle stampe di Bloemaert. Ciò che colpisce in questi dipinti “è l’estrema libertà della condotta pittorica e la fluidità della pennellata, che si avvale di una gamma cromatica impostata in prevalenza sulle tonolità bruno-ocra e sui bianchi (Furlan 1995).
“Non costretto da una vita cortigiana che gli avrebbe imposto forse qualche restrizione nello svolgimento del suo programma di pittore, libero di inventare e di sognare a suo modo, è così che il Carneo crea tutto un suo mondo di figure, poste in un’aurea dove s’avvicendano l’irreale e il reale, dove la ragione d’essere delle sue creature consiste nel piacere che il pittore aveva avuto nel crearle. La sua gioia di dipingere è tanto grande che si può chiamare una vera furia, furia ch’egli esplica, per quanto rapido, con un pennello sempre diafano e chiaramente costruttivo nelle vie che percorre. Le sue costruzioni nascono, per nulla concettuali, dal quadro ch’egli porta in sé e che estrinseca, quasi incosciente, per istinto. Così si affacciano alla ribalta quei giganti, quegli Ercoli commisti alle Sibille, quelle menadi, quegli Evangelisti nudi «rannicchiati con mirabile artificio in una piccola tela», come commenta un cronista, i quali non trovando posto proprio in chiesa né in casa, sembrano dipinti dal Carneo per proprio uso e consumo. Olimpici scesi dall’Olimpo. Astrazioni che si toccano con mano. Quadri fra i più azzardati ed originali e, se si vuole, fra i più moderni che il Carneo conducesse. Né gli importa che sia un San Luca o un satiro ch’egli stende sulla tela, uno sgherro o un profeta, l’uno e l’altro non essendo che pretesto per la sua immaginazione. Così vediamo scene d’omicidio e di lotta, frammezzate da idilli; filosofi che si suicidano; regine che languiscono; un Marsia scorticato da un Apollo tanto poco olimpico; un Diogene visitato nella botte da un Alessandro tanto poco regale, come soltanto i poemi «piacevoli» dello stampo accennato osarono rappresentare” (Geiger 1940).  

 


Daniele D'Anza