CONSULENZE-STIME-EXPERTISE
Condividi su
Facebook
Simone Brentana (Venezia 1656 - Verona 1742)
-
lo stile pittorico
Scolaro del pittore
Pietro Negri, di cui conservò l’ispirazione naturalistica e la
“tenebrosa” maniera del chiaroscuro, Simone Brentana “ebbe presto a
riuscire un pittore di merito, prevalendo specialmente nell’invenzione e
nell’intelligenza dei lumi” (Zannandreis 1891). A Venezia, studiando i
“soliti” veneti, rimase certamente affascinato dalla pittura del
Tintoretto. Di questo suo periodo non resta però che la descrizione di
un’opera perduta, il Sogno di San Giuseppe dipinto per la Scuola di
Santa Maria della Carità, trasformata ed incorporata nell’Ottocento
nelle nuove Gallerie dell’Accademia. L’attività giovanile, entro il XVII
secolo, è ancora oggetto di discussione. La critica riconosce
tradizionalmente come momento chiave di questa prima stagione le tele
eseguite per la chiesa veronese di San Nicolò, prove indiscutibili della
sua adesione alla corrente “tenebrosa”. Il Giobbe di San Nicolò appunto,
“mostra la formazione di un tenebroso, un allievo di Pietro Negri, ma
con una teatralità nuova, dove la tragedia si mescola al comico
dell’irrisione, della beffa” (Marinelli 2000). Forse ancora più
interessante appare il modelletto per la Giuditta e Oloferne (Verona,
chiesa di San Nicolò), conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte
Antica di Trieste, che tramite “pennellate guizzanti e abbreviate, mette
in evidenza le capacità squisitamente pittoriche del giovane Brentana,
che in questo caso sembra ancora memore di certe esperienze luministiche
della pittura veneziana di metà secolo. In particolare la maschera
grottesca e deformata della vecchia fantesca completamente in luce
richiama alla memoria le fisionomie caricaturali di Pietro della
Vecchia, mentre gli audaci passaggi cromatici e talune iridescenze
potrebbero rinviare a quei «classicisti» meno ortodossi attivi a Venezia
nel corso del Seicento, come Federico Cervelli, Giuseppe Diamantini,
Ludovico David o lo stesso Louis Dorigny” (Craievich 2001).
“Una prova indiretta della non superficialità del rapporto già indicato
tra Dorigny e Brentana è nel Sogno di Giacobbe, recentemente apparso a
un’asta Druot-Richelieu (dicembre 1997) a Parigi come opera di Brentana,
ma da ascrivere invece sicuramente a Dorigny” (Marinelli 1997). La
vicinanza tra i due appare evidentissima inoltre nel Serpente di bronzo
di collezione privata, eseguito da Brentana. In quest’opera il contatto,
“più forte che mai”, si palesa “anche nell’accentuato verticalismo delle
figure, nei disegni acuti dei profili, nella drammaticità magniloquente.
Sarebbe importante poter precisare questo momento di massima tangenza
tra i due artisti, che tuttavia non può esser lontano dal frammentario
Serpente di bronzo di Dorigny per San Biagio a Verona, ora a Breonio,
subito dopo le imprese di San Nicolò a Verona e Palazzo Montanari a
Vicenza, dove i due artisti avevano lavorato insieme e avevano avuto
modo di conoscersi” (Marinelli 1997).
Il seguito della sua carriera, ben documentato, evidenzia un
accostamento ai modi di Antonio Balestra. Tale influenza appare evidente
nella Sant’Elena della chiesa veronese di Santa Maria in Organo del 1716
circa, e nelle altre opere riferibili a questo periodo, mentre nel San
Francesco che adora il Crocifisso del Santuario di Santa Maria dell’Olmo
a Thiene “il marcato chiaroscuro, appena ravvivato da bagliori verdi,
sembrerebbe suggerire una data precoce, tuttavia il composto plasticismo
della figura, la solida resa pittorica e soprattutto la particolare
levigatezza della materia, fanno propendere per una datazione avanzata
nel secondo decennio del Settecento [...]. E in realtà sono
l’intonazione austera e il patetismo contenuto, che qui assume una
dimensione intima, del tutto aliena da effetti teatrali e
melodrammatici, che caratterizzano quest’opera sofferta, nella quale il
vigore e l’impeto del periodo giovanile, che Brentana aveva assorbito
dai tenebrosi, sembrano ormai spenti” (Rigoni 1997).
La pala della Parrocchiale di Pescantina, con La Vergine col bambino e i
santi Giovannino, Antonio e Carlo mostra invece “una routine ormai
avviata e collaudata dalle riprese delle pale precedenti dei Riformati,
di isola Rizza, di Colà. In tutte queste opere si sente un’assimilazione
ben dissimulata ma profonda delle immagini ormai antiche di Claudio
Ridolfi, una attualizzazione sottile delle sue psicologie dolcissime,
una traduzione cromatica del suo tenero sfumato baroccesco. Il
condizionamento della provincia anche per Brentana si fa sempre più
sentire col tempo. Il pittore mantiene tuttavia ancora il controllo
sicuro dei colori e delle forme del piccolo teatro sacro dai larghi
gesti stentorei, anche quando nuove sollecitazioni esterne sembrano
mancare alla sua creatività” (Marinelli 1997).
A questo periodo è sicuramente riferibile la Sacra Famiglia del Museo
veronese di Castelvecchio, “che ripropone tutto un repertorio d’oggetti
già visto contro uno sfondo luminoso giallo ormai indistinto e senza
profondità, di sapore vagamente preottocentesco. La testa della Vergine
sembra risentire involontariamente di languori cignaroleschi mentre
quella di San Giuseppe, purtroppo danneggiata nella sua conservazione,
appare psicologicamente assente e spenta. Si ha l’impressione di sentire
un pittore molto vecchio, ma anche per questo forse si deve pensare più
a Brentana che ai suoi aiuti” (Marinelli 1997).
Negli anni Trenta del Settecento si collocano il dipinto per San Gaetano
a Vicenza (1731) e quello per Torri del Benaco (1733), con i quali si
conclude la sua attività documentata.
Daniele D'Anza
aprile 2005