Giovanni Francesco Barbieri, detto
Guercino (Cento 1591 – Bologna 1666)
Le fonti documentarie “ci danno ampie ragioni di credere che
un’importantissima influenza formativa debba averla esercitata sul
Guercino l’opera di Ludovico Carracci che poteva aver conosciuto in
occasione delle visite a Bologna, dove per gran parte tali opere erano
accessibili al pubblico. La fase di Ludovico che lo interessò in modo
particolare deve essere stata quella iniziale, a partire probabilmente
dalla Conversione di San Paolo (commissionata nel 1587 e terminata nel
1589) per culminare con la pala di Cento del 1591. Egli fu certamente
attratto in Ludovico da quel certo uso della luce alquanto «correggesco»
unito ad una certa fluidità d’esecuzione. [...] Senza dubbio il
Correggio rappresentò nell’arte di Ludovico un fattore più importante
dei veneziani; nondimeno, laddove il colore di Ludovico è ricco ed
intenso – e questo deve aver attirato il Guercino – c’è una certa
affinità con i veneziani. Penso, per esempio, al
Martirio di Sant’Orsola del 1592, che certamente ha diritto di
essere descritto come pre-guercinesco. C’è tuttavia una corrente più
pura per spiegare l’influenza veneziana sul Guercino: quella che passa
attraverso Ferrara. [...] Roberto Longhi aveva chiaramente ragione
quando insisteva nel 1934 sulla forza degli elementi ferraresi, e
particolarmente dosseschi, nell’arte del Guercino. Ciò che da allora si
è chiarito è che questa corrente fu mutuata attraverso lo Scarsellino in
particolare: cioè attraverso un artista ferrarese che sebbene
appartenesse a una generazione più vecchia di quella del Bononi,
modernizzò la tradizione del Dosso a contatto con la pittura veneziana
contemporanea (specialmente le ultime opere del Veronese, ma anche
quelle del vecchio Tiziano, del Bassano dell’ultima maniera e persino di
Palma il Giovane)” (Mahon 1968).
Se il Guercino guardò inizialmente a Ludovico Carracci, questi, dal
canto suo, s’accorse subito delle capacità del giovane artista. In una
lettera del 25 ottobre 1617 si legge infatti: “Qua vi é un giovane di
patria di Cento, che dipinge con somma felicità d’invenzione. È gran
disegnatore, e felicissimo coloritore: è mostro di natura, e miracolo da
far stupire chi vede le sue opere. Non dico nulla: ei fa rimaner stupidi
li primi pittori” (Bottari 1754).
Nel Paesaggio con concerto
degli Uffizi, “attraverso suggestioni ferraresi, e più specificatamente
dossesche, il Longhi [1934] propose di intendere l’esuberanza cromatica
di questo piccolo rame, la cui intonazione dolcemente veneziana il
Guercino poté appunto desumere dagli esempi pittorici del Dosso e dello
Scarsellino, di certo a lui congeniali” (Ottani 1965).
Il San Bernardino in preghiera
davanti alla Madonna di Loreto (Cento, Pinacoteca Civica), precede
di poco “il superbo San Guglielmo
d’Aquitania della Pinacoteca di Bologna, databile al 1620. Ed in
verità ne prepara l’intensa atmosfera poetica. Anzi in questa tela è
forse il punto in cui l’impeto del luminoso cromatismo guercinesco
d’origine naturalistica ludovichiana si contempera con la più dolce
effusione della luce neoveneta cara allo Scarsellino. Il risultato è
quello di una rara, rasserenata intimità spirituale, il cui patetico
ardore si diffonde sotto il cielo vespertino: domestico colloquio fra
mura, panni e immagini familiari, che il bagliore improvviso svela in
sorprendenti brani di natura” (Cavalli 1959).
“Quella «gran macchia», di cui parlano ammirati gli storici, quella
robustezza primeva della sua tavolozza, discopre sin dall’inizio
finalità squisitamente pittoriche. Il «chiaroscuro» tonante, così
efficace nelle graduazioni di una inconfondibile gamma temporalesca,
protesta ancora questo intento antiplastico a favore di una scoperta
esaltazione coloristica che, nei confronti delle intenzioni
caravaggesche, non avrebbe potuto riuscire più antitetica. È tale
prorompente inclinazione al colore a rendere l’artista estraneo, e per
sempre, al rigore e agli intenti di un Caravaggio, al quale si è pure
cercato di accostarlo, fraintendendo peraltro il significato tutto
magico del luminismo guercinesco, non mai proteso alla rivelazione di
una realtà che nel Merisi assume le intonazioni più crude e drammatiche”
(Ottani 1965).
Così, fino al viaggio romano del 1621, tutta la struttura culturale del
Guercino cresce e si fortifica nell’ambito della civiltà padana,
corroborata dall’influenza degli artisti veneziani del Cinquecento.
La Susanna e i vecchioni
(Madrid, Museo del Prado), eseguita nel 1617 per il Cardinal Arcivescovo
di Bologna Alessandro Ludovisi, “non è solamente un’opera di
considerevole significato, ma vanta anche un brano di magica bellezza
nella figura femminile che le merita in pieno l’epiteto di capolavoro
attribuitole nel 1920 da Matteo Marangoni. [...] Nella
Susanna e i vecchioni si richiede uno sforzo per rendersi conto dei
debiti del pittore verso Ludovico e lo Scarsellino, poiché questi
diventano ora meno importanti nei confronti dell’uno o dell’altro brano
notevolmente caratteristici della nascente personalità del giovane di patria di Cento che tanto entusiasmò Ludovico Carracci”
(Mahon 1968).
Il risultato dell’esperienza del viaggio veneziano (1618) si sostanzia
invece apertamente nell’Apollo che
scortica Marsia (Firenze, Palazzo Pitti) e
nel celebre Et in Arcadia Ego. Quadri che “ci riportano al mondo romantico di
Giorgione e Tiziano” (Salerno 1988).
“Cade a questo punto (1621) la chiamata di Alessandro Ludovisi, salito
alla cattedra di Pietro con il nome di Gregorio XV. Il Guercino, senza
esitare, punta risoluto verso Roma e vi esordisce con un’opera che
rimane forse il suo capolavoro. Gli affreschi del Casino Ludovisi
vertono su quello stesso tema dell’Aurora
che pochi anni prima il Reni aveva scelto per la decorazione del Casino
Rospigliosi, con l’aggiunta, sulle lunette delle pareti minori, delle
figurazioni allegoriche del Giorno
e della Notte. Profondamente
diversa si rivela tuttavia l’intonazione del racconto, giocato sui tasti
di una schiettezza e di una istintività pittoriche sconosciute affatto
all’estro calibratissimo del Reni. Dal punto di vista formale il
Guercino, ricusando gli autorevoli esempi del classicismo romano che da
Annibale a Guido avevano fedelmente «riportato» sui soffitti la
tradizione decorativa dei dipinti parietali, promuove un rivolgimento di
non scarsa portata, innestando da un lato desunzioni lampanti dal
linguaggio veronesiano (e si vedano gli inserti architettonici
fortemente scorciati che conosceranno, lungo il corso del secolo,
fortunati sviluppi) e puntando dall’altro verso risoluzioni formali di
immediata e sicura felicità creativa. Nasce così quella trascorrente
immagine dell’Aurora
che sempre incanta per quel fondo di vitalità contadina che il Guercino
vorrà poi gradualmente smorzare, assimilando l’eloquenza idealizzante
del Reni. Ma più ancora sorprende l’esuberanza indicibile della
tavolozza che, quasi dissolvendo il soggetto nelle vibrazioni della
macchia, ne preserva tuttavia un’impressione favolosa e magica, come è
del brano stupendo dei cavalli pezzati, accostamento purissimo di zone
cromatiche” (Ottani 1965).
Terminati i lavori del Casino Ludovisi, l’artista ottenne la commissione
del gigantesco dipinto con la Sepoltura e Assunzione di Santa Petronilla per la Basilica di San
Pietro, oggi conservato nella Pinacoteca Capitolina di Roma. “Nella
storia dell’attività del Guercino quest’opera rappresenta un momento di
particolare impegno, per l’importanza di natura religiosa e politica
della commissione, che imponeva la massima solennità e perfezione di
risultato. Se nel Casino Ludovisi lo spazio era ristretto, qui ce n’era
su scala addirittura grandiosa e le misure stesse del dipinto erano
eccezzionali” (Salerno 1988). Il realismo dei popolani nella zona
inferiore ha fatto spesso invocare il nome di Caravaggio e non a caso
Roberto Longhi nel 1926 scriveva: “la scelta del momento naturalistico
del seppellimento effettivo è un tratto tipicamente caravaggesco quando
si pensi soprattutto al grande dipinto di Santa Lucia a Siracusa, mentre il giovane col cero e l’altro col
cappello piumato [...] richiamano a San Luigi dei Francesi”.
Si deve però a questo punto osservare che “non tutta l’opera Guerciniana
si informa coerentemente al principio innovatore contenuto in molte sue
parti. Il Guercino non era né un apostolo, né un polemista come per
esempio il Caravaggio. Egli operava in questo senso quasi
inconsciamente, sotto la spinta incontenibile di un istinto naturale.
L’opera sua doveva risentire di questa incertezza programmatica, di
questa anzi assenza di programma, così che accanto ad opere o a
frammenti di opere che sembrano spalancare le porte dell’avvenire, altre
ripetono più o meno liberamente motivi e forme tradizionali. Al che non
dovettero essere estranee le esigenze particolari dei committenti” (Barbanti
Grimaldi 1968).
Non a caso, ad un certo punto, il pittore volse la propria arte
verso una “nuova realtà più sedata”, specie dopo la morte di Guido Reni
nel 1642, quando decise di trasferirsi a Bologna, realizzando di fatto
“quella successione al potere che nessuno del resto avrebbe osato
contestargli”. “Senonchè la possibilità di questa evoluzione era già
nella natura «barocca» dell’artista, che non divenne, per così dire,
caravaggesco a Roma nel ’21-23, quando vi fu chiamato da Gregorio XV
Ludovisi, più di quanto non fosse già reniano nel ’42, quando si
trapiantò a Bologna. [...] La parabola discendente dei caravaggeschi,
gli affreschi «monumentali» dei bolognesi, del Domenichino, di Guido,
l’ambiente stesso della Corte Papale dominata dalle idee classicistiche,
fecero da contrappeso alle meravigliose doti della sua fantasia e ne
trattennero via via gli slanci, creando in lui una sovrastruttura
mentale d’ordine incertamente idealizzante, che non gli era affatto
congeniale. La sua prepotente natura non gli bastò, sostenuta com’era da
pensieri ormai incerti e vacillanti. Ne sortì un compromesso dignitoso,
spesso nobile, da fare il paio con l’Albani vecchio. E la generazione
che seguì non si rivolse a lui, ma a Guido, al Cantarini: Il vero
Guercino doveva restare quello cui attinse il Crespi per uscire dal
vicolo cieco delle deliquiescenze tardobarocche: quello che sortiva
dalla costola di Ludovico” (Cavalli 1959).
Le diverse stagioni della sua arte furono, sul finire del XVIII secolo,
compendiate da Luigi Lanzi in tre maniere. “La prima è la men nota;
piena di fortissime ombre con lumi assai vivi, meno studiata nei volti e
nell’estremità, di carni che tirano al gialliccio, e in tutto il resto
men vaga di colorito: maniera che lontanamente somiglia alla
caravaggesca. [...] Passò quindi alla seconda maniera, ch’è la più
gradita e la più preziosa. [...] Il fondo del gusto è sempre
caravaggesco: gran contrasto di luce e di ombra, l’una e l’altra
arditamente gagliarde; ma miste a gran dolcezza per l’unione e a gran
artifizio per il rilievo. [...] Spesso paragonando le figure di Guido
con le guercinesche, si direbbe quelle pasciute di rose, come dicea
quell’antico, e queste di carne. [...] Vedendo che il mondo applaudiva
tanto alla soavità di Guido, si mise in cuore di emularla. [...] Alcuni
assegnan per epoca di tal cangiamento la morte di Guido, quando il
Guercino vedendo di poter primeggiare in Bologna, lasciò Cento, e si
stabilì in quella gran città. Ma vari quadri della terza maniera fatti
prima che il Reni morisse fan rifiutare tale opinione: anzi è voce che
Guido notasse quel tal cangiamento e lo volgesse in propria lode,
dicendo ch’egli si scostava dallo stil del Guercino il più che poteva, e
questi il più che poteva si apprestava al suo. [...] Per quanto piaccia
questa terza maniera, i periti avrian desiderato che Guercino non
recedesse dalla robustezza della seconda, per la quale era nato, e nella
quale è stato unico al mondo” (Lanzi 1795-96).
Va detto infine che “molto peso nello stabilire il modo divenuto
corrente di considerare la pittura del Guercino ebbe la biografia
scritta da Giovan Battista Passeri (1610-1679) ultimata nel 1673, ma
apparsa postuma nel 1772. Il Passeri che fu amico del Domenichino,
critica la maniera giovanile del centese perché «mancante di una certa
esattezza, e leggiadria di disegno, e di contorni vezzosi del buon
stile». Inoltre, confonde Guercino col Reni creando l’equivoco
dell’incontro del pittore con Caravaggio, sostenendo rapporti diretti
fra i due pittori per collaborare agli affreschi della cupola di Loreto
[...] D’altro lato il Passeri fissò anche il cliché del Guercino che
sarebbe divenuto imitatore del Reni e osserva in proposito che egli
«diede in una debolezza poco gradita (così dicean li buoni Professori)
et in una maniera languida, e di poco vigore»” (Salerno 1988).
aprile 2005
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