Pittore elegante, cravattina a
farfalla, fusto leggero e trasparente d’occhialini che oggi possono
ispirare Alain Mikli, Spazzapan, a cui è intitolata la nota galleria
d’arte gradiscana, ebbe gusto per l’indipendenza, atteggiamenti ribelli
e anarcoidi (di sera rientrando a casa dopo animate discussioni
artistiche con gli amici, non mancò per anni di pisciare sulla pianta di
un ricco signore disprezzato per il comportamento avuto nei suoi
confronti); l’aspetto borghese di Spazzapan mascherava il suo carattere
difficile (fu aggressivo e gentile nello stesso tempo), e anche la sua
dinamicità, il suo essere sempre entusiasta rampante, violento e
romantico con tendenze malinconiche. Fu stravagante, ma tuttavia
coerente. Si sentiva “oppresso” dal provincialismo e fu
tormentato dalle sue ispirazioni: gli capitò spesso di distruggere
furiosamente i disegni eseguiti che non gli piacevano. Il suo occhio era
infallibile come l’obiettivo di una macchina fotografica ed egli
attingeva dalla memoria. Non voleva essere schiavo di fatti, azioni
convenute, di quadri di colleghi famosi e d’opere già “masticate”,
viste, ripensate: davanti al foglio di carta egli esaltava il proprio
vissuto in modulazioni personali e vertiginose. Con l’acqua creava
situazioni impreviste e imprevedibili, sfumava le mezze tinte: una sorta
di gioco d’azzardo che via via affinò a tal punto, da personalizzare il
suo stile oggi da chiunque riconoscibilissimo.
Così scrisse di sé negli anni
Sessanta:
“ Nacqui a Gradisca e finiti gli
studi a Gorizia, mi recai a Vienna per studiare pittura ed architettura.
Trovai Vienna in piena secessione, quel floreale viennese che inondò
tanti paesi. Eleganze di Klimt, retorica balorda e patriottarda. I musei
ricchi di Rembrandt, i Goja, i Velasquez mi facevano venire le
vertigini. Ma erano anni della rivoluzione nell’arte quelli dal 1910 al
1914.
E Futurismo, Severini con il suo can
can, Balla con il suo cagnolino a tante gambe, Dadaisti, Cubisti. Quanto
desiderio di andare da Vienna, d’andare là dove si facevano queste belle
cose.
Ma venne la guerra del 1914 che mi
portò via sei anni. Tornando a casa trovai il poeta Pocarini, strinsi
amicizia con lui ed entrai nel gruppo futurista giuliano. Partecipai a
tante mostre d’avanguardia ed anche alla prima mostra futurista di
Padova con sculture violentemente colorate. Polemica e polemiche.
Successi di un giorno. Derisioni, sfottiture, ma ero giovane e contento.
Un salto a Monaco m’informò sull’espressionismo tedesco. Costruttivisti,
scuola di Kandinsky. Assimilavo tutto con gran facilità perché avevo la
mano fatta e leggevo tutto e sempre. Il teatro espressionista tedesco,
Pirandello, Martinetti, ed i francesi, Majakowski il russo. Ma uno era
più bello dell’altro, tutto così vivo, esplosivo. Nel 1925 feci il gran
colpo a Parigi. Esposi alla grande esposizione internazionale dei
pannelli astratti puri (mi dispiace per Soldati che ci tiene tanto
essere il primo astrattista).
Mi credevano pazzo eppure mi pigliai
una medaglia d’argento.
Disegnavo sempre tutto ciò che
vedevo, ma così a memoria. Mi bastava osservare attentamente, sapevo
cogliere l’essenziale, l’espressione, che divertiva me e più ancora i
miei amici, quando dipingevo sui tavolini dei caffè i tipi.
Girai e girai sempre irrequieto. Nel
1928 mi chiamò l’architetto Pagano a Torino. Scattai con entusiasmo ma
il lavoro mi fu tolto ed il passaporto anche. Fu la fine. Chiuso per
sempre un capitolo della vita di un pittore. Cercai lavoro come
illustratore, pittore di pubblicità, ma avevo un altro gusto, un
mestiere tutto nuovo che non andava. Tempi difficili per me. Conobbi
Persico e diventammo amici. Le nostre discussioni furono spesso feroci.
Persico mi organizzò a Milano, al Milione, una mostra di disegni.
Fu una novità. Mi feci conoscere con
quei disegni di un rabesco libero, di un’espressione forte, macchie
d’inchiostro violenti e poi lavate (i lavis). Lionello Venturi li trovò
interessanti e ne comprò diversi forse per aiutarmi. Venne Oppo per una
Sindacale a Torino, s’interessò di me e mi portò alla Quadriennale di
Roma. Devo tutto a lui. Alla Quadriennale ebbi successo. Ojetti scrisse
bene di me, anzi mi chiamò “mano maestra”. Fui presentato al Re in
quell’occasione e anche a Mussolini. Da allora fui sempre invitato alle
Mostre Nazionali e Internazionali. Feci ancora una mostra a Parigi da
Alberti ed una alla Jeune Europe. Buona critica anche là. Mi acclimatai,
accettai il postimpressionismo, accontentandomi di far vedere solo il
mio temperamento ed il colore, il colore soprattutto. Trovai lavoro come
illustratore alla Gazzetta del Popolo. Con quel lavoro tornai alla mia
boccettina d’inchiostro di china. Lavoravo di notte e mentre facevo
illustrazioni, mi venivano altre cose in testa e giù anche quelle. Notti
intere passate così. Mi piaceva immensamente lavorare così di memoria
senza correggere niente. Prima uso l’inchiostro di china, che penetra la
carta e non lo leva nessuno più. E mi divertiva misurare il mio sapere e
la mia impotenza. Se voglio fare una cosa vedo subito se la so fare o la
potrei fare. Andare a vedere come è fatta una cosa, eh no! Non mi piace
più. Quella prima che ho immaginato, quella deve chiudersi in
un’immagine. Questo è il mio ideale e qui ci lascio la vita volentieri.
Se guardo le cose mentre dipingo mi
frego, perché corro stupidamente dietro all’oggetto e perdo la pittura.
E io non sono proprio niente impressionista. Ora m’accorgo, devo fare
come per i disegni, che mi servivo unicamente della memoria e sulla
carta vuotavo l’oggetto mio, quello che si era formato dentro di me. La
mia natura è anti-impressionista e io devo fare un’altra cosa e cercare
il massimo dell’astratto.
Scoppiò la guerra, mi bruciò lo
studio, tutti i quadri e migliaia, migliaia di disegni. Dopo la guerra
con Mastrojanni, Moreni e Sotsass decidemmo di organizzare una grande
mostra a Torino di sola arte nuova. Dal cubismo in su come si diceva
allora.
Ma che nome dare? Premio
Torino. Il premio fu dato a Pizzinato, a Vedova, Fazzini, Mascherini, e
non ai più vecchi assi. Abbiamo fatto vedere al pubblico torinese
Bodner, il più vecchio astrattista svizzero e uno dei più giovani
Spiller.
Ma intanto succede che a Venezia
Pallucchini rinnova la Biennale e fa finalmente vedere in Italia
l’espressione del mondo nuovo.
… E già tutto passato. E qual è
adesso la vera pittura? Mah! E chi lo sa! Non sento più parlare di
Cèzanne e di tanti altri belli come lui. Dove sono finiti? Dove li hanno
messi?”
Spazzapan scrisse poco e a stento. La
firma su una cartolina o su un documento era già troppo per lui. Proprio
per questa ragione si è voluto qui riportare quasi integralmente alcuni
suoi interessanti spunti da completare più avanti con qualche
altra nota biografica da lui stesso trascurata o volutamente
dimenticata. Ciò anche per rispetto del suo modo di pensare: egli
intravide, infatti, il grave danno che i “letterati” possono portare
all’arte.
Non sempre i suoi rapporti con la
critica furono sereni: egli avvertì varie volte l’obbligo di non essere
sistematico (era questa la sua vera natura!), addirittura contrario ai
criteri stabiliti e talora non fu capito. Gli furono contrari
soprattutto coloro che, esaminando le sue opere, cercarono precipuamente
in esse, solo gli elementi narrativi o l’organizzazione di tali
elementi. Spazzapan predilesse sempre la trasposizione visionaria
della realtà!
La sua opera abbondante fece di lui
un uomo felice. L’estro naturale che egli manifestò rese vitale
l’insieme e gli procurò euforia con il passar degli anni.
Giovane, tra il 1911 e il 1913, nei
vari saltuari soggiorni a Vienna, tentò invano gli esami d’ammissione
all’Accademia di Belle Arti.
Le vicende militari durante la prima
guerra mondiale lo videro sui Carpazi, a Graz, a Libanowska. Fu fatto
prigioniero, evase due volte in modo rocambolesco.
Sul fronte italiano egli, di salute
già cagionevole, rimase a lungo sepolto sotto una frana con gravi
conseguenze polmonari. La guerra finì, ne uscì segnato nell’animo, ma
vivo. Insegnò geometria e matematica ad Idria e dal 1923 si dedicò
esclusivamente alla pittura. Partecipo' ad una mostra d’avanguardia a
Praga e alla Prima mostra Goriziana di Belle Arti, organizzata da
Antonio Morassi. Realizzò manifesti (Esposizione del Circolo della
Caccia di Gorizia), progetti di decorazione murale, tempere, disegni per
stoffe, epigrafi. In quegli anni strinse amicizia con i pittori Veno
Pilon, Sergio Sergi, Delneri e Fran Tratnik. I loro incontri al Caffè
Venezia e al Caffè Corso di Gorizia erano pure occasione di schizzettare
ed osservare le “macchiette” presenti cogliendone umoristicamente gli
atteggiamenti o gli aspetti più canzonatori: mani, nasi pronunciati,
baffi ispidi, bocche distorte da sigarette, grossi sigari o pipe,
orecchie a vela, calvizie emergenti, lucide nuche, pance dilatate
dall’alcol e anche cravatte storte, scarpe consumate,
abbigliamenti grotteschi.
Il tutto condito da una solenne
ironica autocritica. E se l’osservazione acuta fece di Veno Pilon
un graffiante e sensibile disegnatore e in seguito fotografo a Parigi,
Spazzapan dimostrò il meglio di sé in una scultura bronzea del 1925 che
rappresenta la testa dell’amico intimo. Azzeccata è la preponderante
linea obliqua del blocco che esalta l’espressione di Pilon e coglie
appieno i suoi tratti somatici accentuandone i lati “meritevoli” e la
“dilatazione” del viso chiusa in un sorriso beffardo.
Pure di quegli anni è la scultura
dell’ingegner Brunner dal cui volto emergono in un ghigno larghe e
polpose labbra.
Eseguì numerose tempere con
composizioni geometriche e persino ritratti femminili con tali
caratteristiche lineari.
Si formò dunque a Vienna poi in
Germania e in Francia, dopo una tangenza postfuturista sperimentò le
avanguardie da Kandinsky a Delaunay. Si disse attento all’opera di
Kokoschka e Beckmann, ma guardò pure a Matisse e Dufy.
Verso la fine degli anni venti
conobbe i pittori che in seguito formarono il “Gruppo dei Sei”. Strinse
amicizia con Edoardo Persico, con letterati e avvicinò il gruppo
torinese del “Selvaggio”: Mucci, Zeglio, Cremona. Disegnò su
La Gazzetta del Popolo.
Le chine di quel periodo sono
efficaci: donne allo specchio, donne alla toletta o solitarie in piedi
senza ambientazione alcuna, distese su un sofà o un canapè,
mostrano non di rado, abbondanti, flaccidi deretani, gambe avvolte da
calze autoreggenti, sinuose anche, pettinature scompigliate, carnose
labbra rosse, occhi truccati alla moda orientale e allungati in sguardi
maliziosi. Non mancano i cavallini che Zoran Music vide e poi trasfigurò
(non ignaro tuttavia delle pitture preistoriche rinvenute in diverse
caverne europee) in una personalissima, vaga e poetica Dalmazia;
negli anni trenta Spazzapan disegnò nature morte, paesaggi, uccelli,
selvaggina, scheletri e altri soggetti originali quali delfini o
mangiatori di lische. Persico, che collocò storicamente l’arte di
Spazzapan su un piano europeo, scrisse che i suoi disegni “sono nudi di
intenzioni polemica, come in Grosz, e d’ogni sotteso autobiografico,
come in Pascin (sic! in verità un mediocre illustratore); l’inquisizione
di Spazzapan non è mai una vendetta o una consolazione, ma una
contemplazione estetica, il processo dal reale al fantastico”.
Persico notò anche che “la visione di
un mondo decaduto si risolve in Spazzapan nell’espressione di un mondo
decadente, con lo stesso processo romantico per cui la voluttà è una
liberazione dal dolore”.
Angosciante e dirompente è il
Nudo femminile squartato del 1937 che ci riconduce alle opere di
Francis Bacon, ma in maniera assai più palese all’ attuale
cinematografia horror o a quella di Dario Argento, Jonathan Demme
o David Fincher che prediligono i serial killer mozzafiato. Ed è la
sorpresa, lo spiazzamento emotivo, l’incredulità anche ciò che lo
spettatore spesso avverte davanti un’opera del pittore!
La sua realtà fantastica è complessa,
per niente convenzionale, il timbro della sua pittura lo rende diverso e
nel contempo isolato.
La sua trovata tecnica, tuttavia,
sempre audace, sicura, lacerata nell’intimo delle sue notti insonni, non
sul foglio, sul cartone o sulla tela, non si sovrappone mai
all’immagine. Spazzapan risolve il soggetto e la scena con la stessa
veemenza della stoccata decisiva di uno spadaccino che conclude vincente
una sfida. In questo fare d’ardimento sicuro, nel suo disordine di segni
e macchie, il pittore trova la libertà interiore e una via vigorosa che
diventa percorso inarrestabile del suo destino.
Negli anni trenta le sue mostre si
susseguirono a Torino (in questa città dipinse più volte il Valentino,
le vedute sul Po, il Parco Michelotti, le piazze), Venezia (fu invitato
alla XX Biennale), Milano, Roma, Parigi.
Famosi dipinti del periodo sono il
suo Autoritratto reso con pennellate vibranti oggi in una
collezione privata di Torino, Autoritratto con giacca rosa,
il Ritratto di Ginia con teiera.
Il decennio seguente è caratterizzato
da un’importante retrospettiva torinese nella quale furono presenti 117
opere, ma anche da avvenimenti per lui tristissimi: in seguito ad
un’incursione aerea, il suo studio in Corso Giulio Cesare nel capoluogo,
fu incendiato ed egli perse in un solo momento molte opere. Fu un duro
colpo.
Un artista amico era solito dirmi che
un pittore senza opere in casa è un pittore finito. Ma non fu il caso di
Spazzapan, sempre attivo e prolifico. Si riprese lavorando con veemenza.
E’ del 1942 lo straordinario Nebbia sotto i bombardamenti
recentemente esposto a Gradisca, ma non si possono dimenticare il
Ritratto di Valeria, Cravatta Rossa, e i suoi santoni
(Santone con leone, Santoni con
colombe, Santone Persiano) i tori, i guerrieri, i
moschettieri, le figure di generali o di ufficiali, le attrici, le
modelle: soggetti preferiti, amati e ripetuti in atteggiamenti diversi,
con colori diversi, in azioni diverse.
Altri suoi soggetti furono gli
arlecchini, le paludi, i fogliami intricati, le memorie mitiche.
Stagione ricca d’immagini che
aggiunse nuovi e originali elementi al suo già abbondante
repertorio figurativo.
Nel 1950 e nel 1954 ritornò alla
Biennale di Venezia con i suoi santoni e i suoi gattoni nei quali la
materia acquista una propria validità d’espressione, resa da strati
sovrapposti che interiorizzano l’innato vigore della sua azione
dirompente.
L’anno successivo ebbe una sala
personale alla Quadriennale d’arte di Roma e subito dopo ottenne la
cattedra di Decorazione al Liceo Artistico di Torino.
Osservò Giuseppe Marchiori:
“L’immagine figurale si trasforma nelle macchie o nell’agglomerato di
macchie, con lo stesso procedimento della memoria esercitata sulle cose.
Sono i riflessi, le luci, le forme di un ambiente tanto diverso dai
paesaggi autunnali piemontesi, dalle stradine fra gli alberi con le
ultime foglie gialle, un po’ piegati, tra le nebbie della triste pianura
o calate sulla città nei lunghi inverni deserti, che Spazzapan scrutava
con gli occhi inquieti dai vetri appannati nello studio o di un caffè
sotto i Portici di Piazza Castello o di via Po. Il pittore segue ora
altri itinerari, va verso il sud, a Ischia, o lungo le coste tirreniche.
L’opaca tristezza dei giorni torinesi si dilegua: il pittore vede
come sempre, al di là delle cose, ma con la certezza di un illuminato”.
L’indicazione più precisa sulla tarda
attività di Spazzapan, che dalla critica è stata rivendicata di valore
autentico, di fronte alla quale il preludio sarebbe costituito
dall’opera precedente, ce la dà lo stesso pittore: “Faccio così per la
voluttà dei miei sensi, mi piace muovere il colore e renderlo bello… E
domani? Domani farò vedere un’altra cosa che sarà anche pittura pur
essendo diversa”.
Non mancarono anche in questa fase
tenaci antipatie ed esacerbate critiche. Non sempre l’artista seppe
commuovere, generare sensazioni, condurre i fruitori della sua
pittura verso il sentimento. Spazzapan mai correggeva, ma la sua
facilità di condurre l’opera non è solo esercizio esteriore,
capriccio illustrativo o virtuosa calligrafia.
Così testimoniò Anna B.: Andai da lui
a Torino per il San Silvestro del 1955. Tre anni prima che morisse.
Avevo saputo che era molto malato. Tra l’altro, mi disse: - Me ne hanno
fatte vedere tante! Io non mi sono mai sentito bene qui.-
Spazzapan si spense improvvisamente
nel suo studio il 18 febbraio 1958.
Walter Abrami