Gino
Rossi (Treviso 1884 - 1910)
Luigi Rossi, universalmente Gino, nacque a Treviso nel 1884.
Il padre Stanislao fu agente del
conte Bardi, uomo raffinato che raccoglieva preziosi oggetti d’arte
orientale. Rossi visse l’infanzia a contatto con questi oggetti e
certamente se non serbò qualche loro preciso ricordo, ne fu più tardi
inconsciamente affascinato.
In gioventù egli frequentò il
Ginnasio-Liceo Foscarini che abbandonò perché interessato più al disegno
e alla pittura: purtroppo si sa ben poco delle sue prime
esperienze con i pennelli. E’ certo che dovette frequentare anche il
mondo artistico femminile se decise di sposare la pittrice Bice Maria
Levi Minzi…
Tra il 1903 e il 1907 frequentò gli
ambienti artistici della sua città natale intrecciando un’amicizia con
lo scultore Arturo Martini con il quale si recò a Parigi.
La capitale francese non
interessò pittoricamente Rossi: è noto soltanto un suo
Lungosenna che appartenne a De Pisis e fu esposto alle mostre di
Roma e Parigi rispettivamente nel 1956 e nel 1960.
Rossi e Martini frequentarono per un
breve periodo la scuola libera di pittura di Hermenegildo Anglada, un
catalano enfatico e sfarzoso conosciuto a Venezia durante le esposizioni
biennali.
Dello spagnolo Rossi vide alcune
scene notturne parigine e s’interessò della coloristica: gli piacevano
soprattutto le tonalità verdi e gli azzurri. Non fu un caso…
Nella capitale francese conobbe
Medardo Rosso, visitò i musei del Louvre, di Cluny, Guimet e
Jacquemart-André.
Fece numerose copie di ciò che più
destava il suo interesse con particolare riguardo per l’arte asiatica in
genere.
In poche parole prese contatto con
l’ambiente e si guardò attorno con curiosità: sentì forse di
poter dire qualcosa di personale.
Cercò dunque termini di riferimento,
punti di contatto proficui, proposte. Fu un arricchimento culturale che
gli consentì di avvicinarsi all’arte di Van Gogh e Gauguin, di Matisse e
Modigliani che conobbe, alla policromia dei pittori fauves e al
Simbolismo.
Rossi avvertì anche il fascino del
Liberty: gli piaceva un linguaggio in cui la tensione continua e
dinamica delle linee-forza lascia libero spazio alla fantasia.
Da Parigi si recò in Bretagna a
Douarnenez dove eseguì molti schizzi, abbozzi: alcuni di questi furono
in seguito sviluppati in Italia.
In tali lavori egli cercò di
trattenere l’esuberanza innata, semplificò le immagini senza insistere
sui particolari. Del resto in Bretagna, oltre la gente, parla la
natura severa, il vento.
Rossi osservò i volti degli
uomini e delle donne, la loro religiosità, i piccoli santuari di pietra
scura, le chiese ma anche le coste desolate, le pietre scavate dalle
intemperie e le ampie distese verdeggianti. Del soggiorno in quel nord
flagellato dalle onde, caro a tanti pittori dell’epoca e dove gli
dovevano essere congeniali sia il tipo di paesaggio impervio che la
rudezza degli abitanti, sappiamo poco.
Di certo fu un momento sereno che
niente lasciava presagire.
Il vecchio villaggio
fu uno dei suoi primi lavori: più che una memoria è forse la libera
interpretazione di un paesaggio scandito dal silenzio delle croci in
primo piano. Il Paesaggio col mulino è altresì un’evocazione
fantastica. I colori sono luminosi e l’albero a destra sembra nascondere
un’anima: lo ritroviamo spesso in altri dipinti dell’artista.
Chiesetta in Bretagna
acquista una dimensione irreale per il gioco dei contorni mentre
Douarnenez è una delle opere più poetiche e affascinanti
dell’artista.
Qui egli travalica la realtà e
“sospende” il piccolo borgo di pescatori tra cielo e mare: l’opera
spinge la fantasia oltre il reale quasi in una favola. Sogno di un
pittore ancora bambino? Fuga dal mondo? Ricerca di silenzio? Il
paesaggio è interiorizzato come pochi.
Altrove il centro figurativo e
concettuale della composizione è costituto da barche, da un promontorio
o da un’insenatura. Primavera in Bretagna è uno dei quadri
suoi più conosciuti e riusciti: in quest’opera la luce esplode in una
gamma di colori chiari e sebbene lo schema grafico sia desunto da un
noto dipinto di Gauguin, ci sono accordi finissimi di tinte che lo
rendono gradevole e personale.
L’albero in primo piano
richiama Tetti rossi a Bruges nel quale i colori molto vivaci,
giocati sul verde con il contrappunto del rosso dei tetti sono stesi in
maniera piatta sì da impreziosire l’arabesco dell’albero dai rami
contorti. Il veneto lasciò dunque le coste articolate, mosse e il
mare burrascoso che sfida i fari della Bretagna per tornare a Venezia, a
Burano.
Sembrò quasi non accorgersene. Si
legò al gruppo dell’osteria della Colonna di Treviso di cui facevano
parte Arturo Molossi, Bepi Fabiano, Guido Cacciapuoti e Arturo Martini.
Fu un periodo di lavoro frenetico,
piuttosto intenso, ma i risultati non furono sempre accettabili:
l’esclusione di alcuni quadri a Ca’ Pesaro fu per il pittore grande
amarezza. Egli ritenne Ca’ Pesaro la sola valida contestazione
artistico-culturale che si contrapponeva all’immobilismo della Biennale.
Nel 1910 in ogni modo, Rossi presentò
in quella sede due opere che la giuria considerò degne: Il muto e
La fanciulla del fiore. Il primo soggetto è un’interpretazione
personale e semplificata dei modelli di Gauguin: non concede niente di
piacevole a chi lo osserva. I lineamenti dell’uomo sono tormentati. Per
quale ragione? Una sorta d’autismo pittorico agghiacciante. Il secondo
dipinto invece, rappresenta una ragazza immusonita dalle mani troppo
grandi. Rossi considerò questo dipinto come la sua poesia più
bella.
Si tratta di un’opera peculiare che
ci parla del suo discontinuo cammino stilistico e prelude
all’incomunicabilità degli ultimi anni della sua vita?
Di sicuro è l’immagine severa,
distaccata, impenetrabile, rabbuiata di una giovinetta che ha una
grazia schiva. La figura discende da archetipi remoti che pure
sentiamo vicini. Quasi la gravida venere di remotissima datazione.
Rossi ha stilizzato l’immagine povera in un impianto garbato. Il colore
blu contribuisce ad esaltare la semplice bellezza dei due vasi di
fiori posti ai lati all’altezza del volto. La lunga amicizia tra Rossi e
Barbantini, il segretario delle mostre e direttore del museo d’arte
moderna della Fondazione Bevilacqua La Masa, iniziò nel 1910. Così
scrisse Barbantini: “I fasti di Ca’ Pesaro ebbero inizio quando ci
giunsero due tele di Rossi che a me e a pochi amici con gli occhi aperti
parvero bellissime e levavamo ai sette cieli. Era arrivata finalmente la
staffetta della gioventù. Anzi la gioventù in persona aveva bussato alla
nostra porta. Quando poi di seguito ai due quadri comparve, invocato, il
pittore in barbetta, con quell’ aria umanissima, che sempre fu sua, tra
intenerita e tracotante, l’uno lesse nel cuore dell’altro, come si legge
in un libro aperto. In meno di mezz’ora diventammo amici per sempre e la
nostra amicizia d’allora in poi stava di casa là dentro a Ca’ Pesaro.”
Un lungo carteggio di quattordici
anni accompagnò questo legame impareggiabile.
L’anno seguente Rossi firmò con la
moglie Bice, Martini, Pavan e Molossi una lettera in cui il gruppo prese
impegno affinché la Biennale veneziana non fosse più piaga di
favoritismi…
Furono allora esposte alla mostra di
primavera di Ca’ Pesaro La buona pesca, Burano, Orti a
Burano, Marina, Autunno, Mestizia, Campi bretoni, Barche in porto,
Aurora a Combrit, Il vecchio villaggio.
Il pittore si stabilì proprio a
Burano: visse accanto a Moggioli, Semeghini e Scopinich che frequentò
con gioia. Di tale rapporto di artisti parlò spesso impropriamente la
critica definendo la strana combriccola Scuola di Burano.
Pio Semeghini chiarì il gruppo di
Burano in una lettera a Giuseppe Marchiori: “ (…) Tutti noi salvo
Moggioli avevamo vissuto a Parigi; e l’insegnamento di Cézanne, di
Renoir, di Gauguin, di Van Gogh non era stato vano per noi che li
avevamo studiati a fondo. Guardavamo le opere dei futuristi con scarso
interesse, senza entusiasmo, ma anche senza sdegno. Fummo anzi con loro
nella lotta. Ben diversi dai futuristi si operava contro gli stessi
bersagli, ma con altri metodi, con meno chiasso, d’accordo in questo col
gruppo della Voce, cui ci sentivamo vicini per affinità di
tendenze. L’arte era l’unica cosa che contava: al resto non si badava.
Il problema economico aveva un solo nome: miseria. Ma la prendevamo
allegramente come un pretesto per riderci su.
Gino Rossi, temperamento di
moschettiere, non partecipava mai agli scherzi. Prendeva tutto sul
serio: nella discussione come nell’azione metteva il suo fuoco d’artista
passionale, fino all’intolleranza, all’esaltazione. Artista purissimo e
sensibilissimo, forse il più raffinato di tutti noi, si commuoveva alle
lagrime davanti alla bellezza lagunare e ad ogni opera veramente bella”.
A Burano con pochi segni Rossi
raffigurò un angolo di giardino da una finestra piena di luce e di
verde, tratteggiò luoghi appartati, cari.
Talvolta ripeté lo stesso soggetto
da angolature diverse. Vale la pena osservare come spesso questi dipinti
risultino poco più di bozzetti per scelta del pittore. La semplicità
generale degli impianti e le delicatezze dei colori ricreano il fascino
di un ambiente che ha spesso in primo piano un orto, un tralcio di vite,
un vaso di fiori, un albero contorto o la curva di un cespuglio.
Nelle tipiche linee sinuose e melodiche di Rossi, suggestioni
simboliste si mescolano a quelle del Liberty. Abituato a risparmiare,
Rossi ridusse molto spesso l’uso del colore e utilizzò i cartoni da ambo
i lati. Talvolta, come nei dipinti di Fonda, egli sfruttò il colore
naturale del cartone per ottenere effetti efficaci. Come
affermò Raggianti, il nostro fu sì incline ad un facile abbandono
crepuscolare, ma pure teso verso la solidità dei volumi.
In Mestizia
egli diede spazio a quel sentimentalismo romantico che fu indubbiamente
nella sua natura, ma ne La buona pesca si legge già quella
maggior solidità d’impostazione delle figure che lo condusse a
rivelazioni successive riscontrabili in alcune Teste femminili.
Nel 1912 Rossi compì il suo secondo
viaggio a Parigi.
Espose al Salon D’Automne come De
Chirico e Modigliani e si avvicinò al cubismo.
Il rientro in Italia fu per lui
drammatico: la moglie in fuga con lo scultore Licudis avrebbe potuto
ispirare Pirandello e Rossi ne fu quasi annientato moralmente.
Seguì un periodo di completa
prostrazione che gli impedì di dipingere.
Si riprese ad Asolo e le sue pitture
in collina indicano un’ulteriore maturazione e approfondimento dei
colori.
Notevole la Grande descrizione
asolana dove il paesaggio, ha una straordinaria sinfonia di verdi;
Rossi descrive filari di viti, prati, morbidi avvallamenti, distese
erbose, case raggruppate in cima a dolci pendii o sparpagliate lontane.
E’ il tripudio di un ritmo
incalzante, tumultuoso reso con pennellate curve, oblique, dinamiche.
Dopo un terzo breve soggiorno a
Parigi di cui finora poco ha parlato la critica, documentato da un paio
di cartoline inviate a Bepi Fabiano, la guerra interruppe l’attività del
pittore. I periodi bellici e della prigionia furono disperati per lui
che ritornò dal fronte logorato nel corpo e inasprito nell’animo.
Continuò il suo peregrinare randagio
nel Veneto, ma compì pure un viaggio in Belgio e in Olanda.
In Italia lavorò umilmente come
ceramista presso una fabbrica di Pordenone ma i suoi problemi economici
si fecero lo stesso assillanti.
La seconda e ultima stagione di
Rossi, è documentata da tutta una serie di disegni che sono sempre e
solo studi di composizione eseguiti in genere a pastello o a penna.
Talvolta essi sono appena accennati o lasciati in sospeso. Così si legge
nel catalogo generale delle sue opere: nella disperata volontà di
costruire il suo sogno plastico come un quattrocentista aggiornato alle
estetiche del nostro tempo, Rossi realizzò La fanciulla col libro
aperto il dipinto che l’artista amava più di d’ogni altro anche se
non se ne dichiarava soddisfatto. Un capolavoro per la novità della
concezione, per la capacità di sintesi, per i ritmi serrati che
dimostrano come ebbe ben chiara ormai la nuova strada da seguire.
Ma la stagione creativa della sua
vita stava per concludersi: è molto conosciuto Il poemetto della sera
sogno arcano d’un allucinato, schizzo composto di pochi elementi
figurativi, visione interiore, dominata da cupi accordi angosciosi, ma
anche ritorno inconscio al colore che era stato negli anni della sua
giovinezza canzone di vita nella luce, ritorno alla tradizione della
pittura veneziana alla cui storia Gino Rossi appartiene.
Andò infine a vivere prima a
Crocetta Trevigiana, poi con la mamma in una casa isolata alle pendici
del Montello. Là il pittore rimase fino ai ricoveri negli ospedali
psichiatrici che iniziarono nel 1926.
Morì rinchiuso, dopo vent’anni di
sofferenze, a Treviso nel dicembre del 1947.
I funerali ebbero luogo due giorni
dopo in una mattina gelida e nebbiosa nella chiesa di Santa Maria
Maggiore.
Il cortile del manicomio è
soltanto un ultimo commovente documento. Degli anni successivi abbiamo
solo disegni sempre più labili, frammentari, con qualche tocco di
pastello inizialmente, poi ridotti a grafismi sempre più inconsistenti
come quelli di Vito Timmel per intenderci: anche gli ultimi lavori del
triestino perdono del tutto ogni valore concettuale oltre che artistico.
Gino Rossi lavorò poco e in modo
scostante. Nonostante la partecipazione a importanti mostre
internazionali e nazionali delle opere eseguite rimane un numero noto
prossimo al centinaio. Troppo poche per fargli giustizia! Nella sua vita
sregolata, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale
e dal 1919 in poi, ma soprattutto tra il 1922 e il 1924, girando di casa
in casa nella campagna intorno a Ciano del Montello, il pittore scambiò
con un piatto di minestra molti dei suoi dipinti e proprio nel corso di
una ricerca sistematica nella zona, effettuata negli anni della seconda
guerra mondiale, il Geiger poté ritrovarne molti dimenticati e ammuffiti
nelle soffitte oppure utilizzati per chiudere le finestre delle stalle
in sostituzione dei vetri.
"Sono stato inutile a me stesso ma
non agli altri" scrisse un giorno al Barbantini… senza presupporre la
misera fine di certe opere sue!
Walter Abrami
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