Giannino Marchig (Trieste 1897 – Cologny, Ginevra 1983)

 

 

L’iter artistico di Giannino Marchig fu complesso e soprattutto nella maturità le sue scelte ebbero implicazioni morali, estetiche e filosofiche; la semplicità e l’eleganza degli innumerevoli disegni, delle incisioni e dei dipinti non raccontano tutte le verità e sono, pur godibili, solo apparentemente di facile lettura.

Marchig intersecò per molti anni la produzione personale di pittore–incisore con l’attività di restauratore che ebbe, infine, il sopravvento nell’immediato dopoguerra.

Quella di Giannino fu una decisione sofferta interiormente, ampiamente meditata: egli l’abbracciò dopo l’intensa delusione provata tra le mura del proprio studio devastato dalle conseguenze belliche. Ritenne il lavoro di restauratore più consono al suo essere, quello che poteva gratificarlo più dell’ideazione di un soggetto; metter mano alle tavole e alle tele dipinte secoli fa da grandi Maestri lo esaltava, rafforzava le sue convinzioni sull’eternità del Bello. Provava una sorta di comunione intima con i maggiori rappresentanti dell’arte italiana, si sentiva eletto quando scopriva per primo, casualmente (come nel caso di un dipinto di Bellini!), le impronte digitali che i secoli avevano nascoste ad altri, non a lui: esse gli appartenevano e si appropriava mentalmente, intimamente, solennemente del miracoloso segno sulla tela che diventava una reliquia.

Viceversa, quando i dipinti erano anonimi, Marchig li studiava, li fotografava con sistemi sofisticatissimi, li analizzava per mesi con passione e frenesia.

Fu così che divenne restauratore di fama internazionale e fu prematuramente accantonato, per non dire dimenticato, come pittore. Gli studi approfonditi effettuati sul pittore da Susanna Ragionieri e Carlo Milic (a loro si aggiunge una testimonianza della compagna Jeanne) per la monografia della mostra edita da Skira-Milano, contribuiranno ad avvicinarci con ulteriori fondamentali delucidazioni all’opera di quest’artista che il destino volle giuliano passeggero. Giannino nacque a Trieste da Giacomo Marchig e Anna Haberleitner; il padre friulano fu un alto funzionario del Municipio e un fervente patriota, la madre, stiriana, condusse una serena vita familiare e si spense a novant’anni.

Giovanissimo Marchig ebbe una spiccata passione per la musica (iniziò a suonare il violino a soli sette anni, amò la musica per tutta la vita e collezionò dischi) e per il disegno.

Intraprese gli studi classici, ma contemporaneamente la famiglia gli fece frequentare la scuola di pittura di Zangrando e di Grimani, pittori che gli diedero semplicemente qualche consiglio, ma che egli ebbe modo di vedere all’opera. Non furono gli unici artisti che lo incoraggiarono: Marchig ebbe pure contatti con Parin e Croatto. Da quest’ultimo apprese l’arte dell’incisione e il gusto per certe atmosfere malinconiche che caratterizzano alcune sue opere successive. Nei mesi precedenti lo scoppio della Prima Guerra frequentò lo studio d’Orell del quale ammirò i raffinati grafismi e l’elegante disegno; purtroppo le testimonianze dell’attività triestina sono assai scarse e irrilevanti e gli indizi del suo operare sono ipotizzabili. Gli eventi storici costrinsero la famiglia a trasferirsi a Firenze.

Fu in questo periodo che Giannino si appassionò di teatro e a soli diciassette anni realizzò l’allestimento del boccascena di una villa privata; eseguì in quell’occasione sei grandi figure di maschere, soggetto che gli rimase caro anche moltissimi anni dopo. Consolidò la propria formazione e fu attratto dall’arte belga che poté ammirare nei saloni delle Biennali Veneziane.  Dopo l'efficace apprendistato con alcuni dei migliori rappresentanti della scuola triestina, la sua maturazione si realizzò in riva all’Arno. Disegnò tantissimo senza sosta prendendo indicativi spunti dalla strada e dagli uomini. Pensò presto a mantenersi almeno in parte autonomamente e mentre studiava andò a lavorare presso una ditta che realizzava alabastri. Gli ottimi risultati conseguiti all’Accademia gli consentirono di vincere una borsa di studio per un viaggio a Roma che compì nel 1917; nel suo ritorno in Toscana passò per Orvieto città nella quale soggiornava Croatto e non è escluso si recasse là proprio per incontrarlo. Si diplomò all’Accademia di Belle Arti e frequentò la Scuola Libera del Nudo; gli furono presto riconosciuti i meriti (D. Trentacoste lo considerò un talento!) e a Firenze ottenne la cattedra di disegno. Dal 1916 al 1918 espose a Firenze, Forte dei Marmi, Viareggio, Milano e Bologna. L’attività del periodo toscano fu frenetica: a Siena ammirò l’importante Collezione Colucci e senza mai trascurare l’apprendimento dei classici, guardò con particolare attenzione al misticismo d’alcuni artisti belgi.

Compì ripetuti vagabondaggi in questa regione, dipinse sui colli senesi, disegnò molto a San Giminiano e a Monteoliveto dove trascorse giorni d’austera solitudine in un convento; mai pago dei risultati raggiunti, dedicò pure parecchio tempo all’incisione con il desiderio di approfondirne le varie tecniche. Sono una testimonianza di quest’attività quelle eseguite a Pisa, a Siena e a Volterra. Sfruttò il macchiettio delle matite grasse per realizzare numerosi disegni, frequentò mercati, fiere paesane e ricordi della città natale lo indussero a tracciare trenta piacevoli scenette dei Caffè triestini.

Nel 1920 fu vincitore del Concorso Stibbert con Il trittico del Calvario; a Trieste tenne una mostra personale alla Galleria Michelazzi, espose alla Permanente ed ebbe pure una mostra di soli ritratti: fu il momento della XII Esposizione Internazionale di Venezia e Marchig portò un Trittico. L’anno seguente incontrò Sbisà a Firenze: entrambi alloggiavano presso la famiglia dei Vermeheren, apprezzati restauratori e nel loro laboratorio Marchig ebbe i primi rudimenti pratici di questo mestiere. Espose alla Prima Biennale Nazionale di Napoli, ma si manifestò nel suo animo un profondo cambiamento interiore: gli interessi personali si orientarono all’uomo, alla commedia della vita. Nel 1922 presentò alla XIII Biennale Veneziana La danzatrice orientale e fu scandalo (!), ma anche a Brera: oscillò fra ascetismo e sensualità alternando i due temi sulla tela.

Dipinse Il vecchio cocchiere e Il Carnevale del vedovo. Partecipò alla Quadriennale di Torino e ritornò a Venezia (XIV Biennale). Nel 1925 affrontò La morte di un autore opera che gli consentì di vincere il Premio Ussi. Dal 1925 al 1939 lavorò nello studio di Lungarno Guicciardini che aveva sistemato nella navata di una chiesa sconsacrata: questo studio gli ispirò diverse tele espressive. Con Resurrezione di Lazzaro, opera di gran formato, riprese il tema religioso: ancora una volta lo alternò ai nudi femminili, ai ritratti, alle puntesecche.

Fu ancora presente alle Biennali Veneziane del 1926, 1928, 1930 e 1932.

Fece molti viaggi in Italia dove tenne mostre personali un po’ dovunque e all’estero (espose a Varsavia nel '20, a Vienna, Praga e Lione nel '22, a Brighton nel '26, ad Amburgo nel '27, al Cairo e a Madrid nel '27). Gli anni Trenta furono caratterizzati da una copiosa produzione di ritratti e da un nuovo modo di disegnare acquerellando. Verso la metà degli anni Trenta fece il suo ingresso ai Tatti la famosa villa sulla collina fiesolana. Marchig frequentò la cerchia d’artisti, di studiosi, di critici e intellettuali che si radunavano intorno al celebre critico d’arte americano Bernhard Berenson e le sue convinzioni sull’arte si avvicinarono inevitabilmente a quelle dello studioso che si era stabilito definitivamente a Settignano. Durante la sua leggendaria attività di Berenson aveva scoperto e visionato moltissime opere d’arte rinascimentali e aveva ideato il metodo del catalogo ragionato; aveva anche comperato molti dipinti e parecchi li aveva appesi alle pareti della villa: egli non li ostentava né si dichiarava un vero collezionista!

Semplicemente li considerava creature vive sicché in casa si respirava la loro presenza, la loro vita.  Il contatto con le opere dei grandi maestri del passato, inoltre, consentì a Marchig di stabilire un legame stretto tattile con gli autori nell’intervento di recupero.

Sorta di feticismo estetico che si rafforzò negli anni. Il centro Tatti costituì una commistione d’arte, vita, severità di studio, curiosità psicologica e sociale che temprò il pittore e favorì i suoi successivi rapporti di lavoro; fra i presenti abituali non di raro si mischiavano uomini politici e personaggi famosi. Giannino parlava correttamente la lingua tedesca e ciò favorì gli scambi d’idee con l’illustre esperto che usava abitualmente quest’idioma. I contatti con lui pian piano si trasformarono in amicizia, ma ai Tatti Marchig ebbe modo approfondire le proprie conoscenze storiche e tecniche: l’ambiente fu avvincente e la dimora nata come punto d’incontro per volontà di un uomo educato al pensiero inglese della seconda metà dell’Ottocento, fu il luogo ideale per conoscere tanti collezionisti d’opere d’arte di fama mondiale e numerosi conservatori di musei americani.

La nuova attività lo stimolò alquanto (del resto non poteva essere diversamente poiché egli aveva acquisito tanta esperienza e conosceva i segreti delle imprimiture, dei colori e le loro mescole, le velature, i chiaroscuri ecc.), ma nel frattempo lo sviò dalla pittura.

Quando, anni dopo, le collezioni d’arte e la Biblioteca dei Tatti furono minacciate dalle conseguenze inevitabili della Seconda Guerra Mondiale, Marchig offerse il proprio aiuto per nascondere i libri e la preziosissima fototeca del Berenson che fu trasferita in un luogo ritenuto più sicuro quale la Villa dei Serlupi a Quarto.

Nel 1937 Marchig ottenne un buon successo a Berlino con il ritratto del pittore Nomellini e a Parigi con il pannello per il padiglione dell’Agricoltura per l’Esposizione Mondiale con il quale vinse la medaglia d’oro. Due anni dopo espose La fine di un’estate, ma in lui si accentuò il desiderio di abbandonare le esposizioni: approfondì allora lo studio della pittura antica e cominciò a dedicarsi seriamente al restauro. Non è escluso che la vicinanza del Berenson contribuì ad orientarlo in tal senso. Nel 1945 Marchig si operò con convinzione ed energia per portare a Firenze una mostra della pittura francese e organizzò un’importante mostra antologica estesa dalle origini a Cezanne; la prefazione del catalogo fu scritta dall’americano. Marchig si adoperò pure ad altri impegni organizzativi e editoriali: tra l’altro lavorò alla scelta delle opere da fotografare per il catalogo Capolavori dell’Arte Senese e collaborò con Roberto Longhi che aveva conosciuto anni prima. Egli si recava spesso nello studio di Firenze per ammirare la pulitura e gli interventi te di Giannino sulle opere dei secoli passati alle quali fu particolarmente interessato.

Nel dopoguerra Marchig iniziò una nuova vita con l’entusiasmo di un ragazzo, ma una velata malinconia rimase sempre in lui: divenne direttore della collana d’arte “Le Vette” (il titolo allude alla solitudine delle montagne che amava, ma anche al vertice pittorico raggiunto idealmente dai dipinti presi in esame). Fu pubblicata dalla casa Electa in collaborazione con l’editore Albin Michel di Parigi. Marchig divise il suo lavoro fra la parte organizzativa tesa a stabilire una rete di contatti esteri per tutti i volumi e le scelte delle opere da prendere via via in esame. Il lavoro editoriale gli consentì pure di comprendere pienamente la gran funzione del mezzo fotografico nel settore artistico.

Il primo giugno 1947 fu pronto l’opuscolo di propaganda de “Le Vette” nel quale v’erano anche, i primi ventisei titoli della collana: manifestava una certa presunzione e troppo ottimismo! I primi due volumi furono dedicati rispettivamente a L’adorazione di Hugo Van der Goes della Galleria degli Uffizi di Firenze e L’Adorazione dei Pastori (conosciuta come Adorazione Beaumont o Natività Allendale) della Galleria Nazionale di Washington.

A queste pubblicazioni seguirono Il trittico fiammingo a San Lorenzo della Costa a cura d’Antonio Morassi e Il candelabro del Santo d’Andrea Riccio due opere poco note da riscoprire. Altri progetti di pubblicazione come La lezione di danza di Degas che doveva essere curata da Umbro Apollonio, non furono mai resi concreto e dati alla stampa.

L’avventura de “Le Vette” fu breve e le cause dell’interruzione definitiva furono molteplici.

Nonostante fosse sofferente d’artrosi alle mani, Marchig si concentrò ancor più sui lavori di restauro: ebbe bisogno di “un sereno duraturo isolamento”.

Questo lavoro lo affascinò ma contemporaneamente lo impegnò incalcolabili ore di duro ed estenuante lavoro per lunghi anni della vita. Fu così che restaurò il Polittico di Savona del Foppa in seguito esposto alla Mostra d’Arte Genovese del 1947.

Marchig ripercorse dunque il pensiero di Berenson, si arricchì di nuove concezioni estetiche, perfezionò sempre più gli interventi sulla materia e sulle tele e si sentì interiormente più completo nella cultura del ricordo, nel destino della memoria che rende unico l’artista. Il suo pittore ideale fu Tiziano ed egli ritenne sempre Bellini uno dei suoi maestri spirituali. Continuò le sue peregrinazioni: fu in Svezia, Danimarca e Svizzera; nel 1949 in un rientro in Italia, conobbe Jeanne pittrice, restauratrice e studiosa d’arte che divenne la sua compagna. Giannino e Jeanne rimasero assieme trent’anni fino alla mostra del pittore. Di comune accordo, alla fine degli anni Quaranta, decisero di stabilirsi in Svizzera in un centro internazionale libero da ostacoli doganali; vissero prima nella vivace ed elegante Lucerna all’estremità occidentale del lago dei Quattro Cantoni, poi nell’animata Losanna ed infine a Ginevra. Quasi dimenticato ormai come pittore, divenne un vero professionista del restauro; continuò a dipingere molto raramente e la sua produzione pittorica ne risentì fortemente. Negli anni Cinquanta ebbero inizio i soggiorni di Marchig e di Jeanne in America settentrionale; nel 1953 si fermarono tre mesi a lavorare per il Metropolitan Museum of Art e assieme restaurarono un pannello di Hubert van Eych; vi fecero ritorno nel 1955 su invito di un collezionista.

Durante i mesi trascorsi oltre oceano Giannino e Jeanne visitarono i musei più celebri della costa atlantica: oltre che a New York andarono a Washington, Boston, Filadelfia, Baltimora e Chicago. Nel 1969, su insistenza della compagna, Giannino riprese la pittura e tornò ad affrontare i soggetti che prediligeva senza dimenticare la casa dei suoi genitori in Carso e qualche altro ricordo inevitabilmente sfumato e indistinto di Trieste.

Negli anni Settanta realizzò soltanto otto opere: tre dipinti sul Carnevale, alcune nature morte e la serie di tele Alla ricerca del tempo perduto dal titolo proustiano.

Si congedò dalla pittura con L’Elogio alla Follia omaggio ad Erasmo da Rotterdam.

Dal 1932 al 1980 i dipinti del pittore non comparvero più nelle mostre d’arte di Trieste: nel 1980, tuttavia, molti appassionati poterono visitare a Trieste, presso le sale della Stazione Marittima, una mostra retrospettiva che comprendeva parecchie opere: il catalogo fu presentato da Giulio Montenero. Marchig si spense a Ginevra nel 1983 dopo una lunga malattia. Nove anni fa alcuni suoi quadri furono esposti nella mostra Il Mito Sottile.

La prossima mostra al Museo Revoltella riconoscerà definitivamente il valore di Marchig: sarà un’occasione unica da non lasciarsi sfuggire per il gran numero d’opere di provenienza pubblica e privata presenti nelle sale  L’importanza del percorso artistico di Marchig è del resto testimoniato dalla presenza di parecchie sue opere pittoriche nelle collezioni pubbliche: nella Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti sono conservate La morte di un autore e una Natura Morta con fiori; nelle Civiche raccolte d’Arte Castello Sforzesco – Galleria d’Arte Moderna è conservato Fine di un giorno d’estate.

Altri dipinti si trovano a Palermo, Gorizia, Udine, Genova, Roma e all’estero a Ginevra, a Lichtenberg e a Cleveland (U.S.A.) e in tante raccolte private sparse in Europa e in America.

 

 

 

Walter Abrami