Vincenzo Cabianca (Verona 1827 – Roma 1902)
Indubbiamente il meno
veneto, nel pensiero comune, dei pittori dell’Ottocento italiano insieme
ad Hayez ed il più “dichiarato, più violento, il più assoluto
macchiaiuolo” come gli riconobbero gli amici del Caffè Michelangelo a
Firenze, ebbe una prima formazione tutta accademica. Nacque a Verona il
21 giugno 1827 e lì frequentò i corsi di Giovanni Caliari all’Accademia
Cignaroli prima di passare a quelli del Clementi all’Accademia di
Venezia tra il 1845 ed il 1847. Già in conflitto con l’ambiente
dell’Accademia, decide di buttare tutte le opere di questo periodo
nell’Arno (si salvano solo sette taccuini custoditi dagli eredi). L’idea
che possiamo trarne della prima produzione, è di soggetti storici ma
anche di tematiche derivate da Domenico Induno, pittore dal quale
attinge vedendo le opere a Milano in un soggiorno effettuato nel 1851.
Nel 1853 arrivò a Firenze ma stentò ad affiancarsi al gruppo in termini
pittorici, sebbene strinse amicizia con i vari Signorini, Borrani e
Banti. Ancora presente in lui un gusto veneto-lombardo duro a morire,
sia nelle scelte dei soggetti, sia in termini espressivi. Alla
Promotrice di Firenze, infatti, espone tra il 1854 ed il 1858 soggetti
retrivi (L’Apertura del testamento, la
Disdetta di casa o l’Invalido) ed inoltre continua ad
inviare suoi dipinti a Verona e Venezia. Le discussioni al Caffè
Michelangelo, il ritorno da Parigi di Altamura e De Tivoli e soprattutto
il dipingere en plein air con Banti nella campagna toscana, danno
i suoi frutti. Ma è dal viaggio parigino del 1861 che le cose cambiano
radicalmente; egli va con Signorini e Banti e ne torna pittore di
macchia. Lo dimostrano le opere di prima grandezza nella storia della
pittura italiana che realizza (Porcile al sole, Stalletto, Filatrice,
Monachine, Mandriana) in questo torno di tempo. Dal 1863 decide di
trasferirsi a Parma, pur rimanendo in contatto con Firenze. Fa effetto
che mai rinuncia alla pittura di genere e di storia, anche in aperta
sfida o, in un certo senso, ammirato dai pittori più accademici del
periodo (come Ussi). Nel periodo parmense, che dura sino al 1868, si
lega ad amicizia con Antonio Fontanesi che ha il merito di ricondurlo
sulla pittura di paesaggio, questa volta trattato con l’acquerello. In
contatto anche con Nino Costa a Roma, decide di seguire il suo invito, e
si trasferisce nella città eterna nel 1868, dove vi rimane sino alla
morte. A Roma ritorna alla pittura di macchia, questa volta con meno
veemenza, più intrisa di velature e sfumati. Inizia, a partire dal 1886,
ad esporre con il gruppo “In Arte Libertas” e poi alle biennali
veneziane. Purtroppo una grave forma di paralisi lo costringe a ridurre
radicalmente l’attività e, nel 1902, muore. E’ con certezza “il primo a
mostrare un quadro macchiaiolo (un maiale nero su un muro bianco) ed
infatti il veronese fu tra i primi a seguire i nuovi principi
luministici, dei quali fu assertore convinto” (De Grada 1967).
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