L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853
da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla
nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo
studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise
di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno
Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger
che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore,
possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di
vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da
leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877,
partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a
carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli
consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter
usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi
che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro
a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a
causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza
(Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del
cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era
cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice
storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali
soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi
da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci
naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a
dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo
repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che
gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi
economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore;
egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze
artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di
Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare
alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle
Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro
veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica
veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era
innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese
di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne
fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel
1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò
alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica
che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con
la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il
dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità
non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso
episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva
trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori
veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a
Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare
ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì.
Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma
anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo
non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura
veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno
della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa
volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887.
Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano
nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo
colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo
La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo
e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò
Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto
sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro
nella produzione di Giuseppe Barison. La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da
Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva
speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel
1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela - che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione
Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice
dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison - trova nelle
parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta
descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona
l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante
e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal
piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse
gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del
nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e
sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a
realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912
raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto
nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e
I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i
cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto
Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice
del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la
scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale
filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare
quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile
veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra
le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad
emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui
vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della
figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di
paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con
Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del
suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto
post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole
realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo
studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la
città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare
effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle
nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda,
che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che
sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante
“alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il
Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di
mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al
modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò
del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo
l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un
secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da
cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista)
e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.