Trieste
1873 - 1953)
Egli nacque a Trieste nel 1873 e i
cognomi dei suoi genitori parlano delle discusse origini (Levi il padre
e Pakiz la madre).
Il padre ostacolò la sua passione di
dipingere e dopo anni di studi condotti in modo ribelle, alla morte del
genitore (era un commerciante), affittò due stanze in Acquedotto nella
casa in cui abitava Giovanni Zangrando: fu proprio da lui che a ventisei
anni prese le prime lezioni di pittura e fu sollecitato a recarsi a
Monaco, viaggio che intraprese immediatamente senza pensarci su due
volte. Frequentò pochissimo l’Accademia e preferì pagare lezioni private
a Heinrich Knirr un ritrattista del quale si sono perse molte tracce;
pur non soddisfatto, Levier desunse dal tedesco certa suggestione della
pittura nordica. Knirr trattò pure scene di genere, paesaggi e nature
morte e presso il suo studio, nello stesso periodo, sostò anche Paul
Klee...
Levier debuttò nella città bavarese
nel 1900 (o 1901?) e fu nominato socio della Secession: bruciò le tappe
e fu presto considerato uno dei migliori ritrattisti “tedeschi”
nell’opera poderosa del “Meister Archiv” dove fu associato a Lembach,
Kaulbach, von Keller e von Stuck. Inquieto, curioso e benestante si
trasferì a Parigi fin dal 1903 per rimanervi quasi undici anni: abitò al
Boulevard Montparnasse e in seguito in Rue Jacob nel Quartiere Latino.
Qui per certo conobbe lo scultore Rodin e venne a contatto con le opere
di Cezanne, Matisse, Roualt e Dufy (pittori che predilesse) e di altri
post impressionisti che imparò a conoscere nella Galleria di Durant
Rouent.
Nel 1905 la sua fama era già notevole
e in quell’anno espose alla Secession di Vienna (si era pure recato a
Berlino per soddisfare le esigenze di alcuni facoltosi committenti), di
nuovo alla Secession di Monaco, alla VI Biennale d’Arte a Venezia dove
portò il ritratto del pittore Otto von Gutenegg
e il famosissimo Mimì e zar che furono esposte accanto ad Un
giorno di festa in Bretagna di Charles Cottet e al Salone d’Automne
di Parigi.
Continuò a partecipare a Mostre
importanti: nel 1906 fu presente a Pittsburg, nel 1907 alla VII
Biennale Veneziana con Ritratto di Madame Boileau
e Signora di lusso, l’anno seguente a Roma e nuovamente
alla Biennale nel 1910 (Padiglione della Baviera accanto a Knirr,
Hummel, Otto Reiniger, Franz Stuck nel quale presentò una Marina
), a Parigi nel 1913 e ad Amsterdam, Francoforte e Rotterdam.
I timori dello scoppio della prima
guerra mondiale allontanarono Levier dalla capitale francese (1911) ed
egli soggiornò per parecchio tempo prima a Zurigo, poi a Milano.
Nel 1918 ritornò a Trieste e vi
rimase senza interruzioni degne di nota, fino alla morte; continuò
tuttavia ad inviare sue opere ad importanti rassegne e vanno almeno
segnalate le partecipazioni del 1923 a Ca’ Pesaro, quella del 1923 a
Milano, la XIV Biennale Veneziana, la Mostra Internazionale di
Barcellona del 1928.
Dopo un’entusiasmante mostra del 1932
presso la Galerie Billiet - Pierre Vorms a Parigi, le sue Case di
Trieste con un altro dipinto vennero acquistate dal signor Dezarrois
direttore del Museo del Lussemburgo e ora fanno parte delle ricche
collezioni del Centre George Pompidou. Fu ancora a Udine
dove ebbe un riconoscimento nel 1933, a Firenze (I Mostra Nazionale
del Sindacato Belle Arti, a Pola, alla XIX e Biennale Veneziana del 1934
e a quella del 1935 per il quarantennale, a Milano presso la Galleria
Gianferrari nel 1938 e a Ca’ Pesaro nel 1943. Nello stesso anno della
sua scomparsa una mostra retrospettiva ricordò la sua intensa attività;
nel 1954 fu allestita una Mostra postuma presso la Galleria Trieste e
alcuni dipinti furono presenti alla XXVII Biennale.
Nel 1956 un’altra mostra postuma fu
presentata a Milano dov’era assai conosciuto, presso il Centro Artistico
san Babila. Moltissimi coloro che si sono interessati alla sua notevole
produzione in Italia e all’estero, ricche le note critiche espresse nei
suoi confronti in vari periodi, diverse le schede e gli studi recenti in
varie pubblicazioni:
Simbolismo Secessione (Gorizia 1992), Punti di Vista (1994),
Pittura triestina tra ‘800 e ‘900 nelle Collezioni del Museo
Revoltella (1999) Va senz’altro segnalata la tesi di
laurea in Storia dell’Arte intitolata Adolfo Levier che venne
portata a compimento nell’anno accademico 1986/1987 dalla dott.ssa Paola
Tamborini: essa risulta lo studio più completo svolto sull’artista e non
è stata pubblicata.
Fu una delle ultime tesi proposte dal
professor Gioseffi prima di lasciare l’Istituto universitario che
dirigeva. Nel 1951 l’illustre cattedratico così scrisse di Levier:
”Egli è dovunque nella propria
opera, anche se in nessuna tela egli abbia infuso tanto del proprio
spirito, da farne il capolavoro assoluto: E’ una esuberante tempra di
creatore, un temperamento sanguigno; e si sente fratello dei Renoir, dei
Mestrovich, dei Rodin, dei Roualt: di quei maestri che hanno prodotto
molto e che hanno preferito peccare per mancanza di misura che per
troppa povertà.”
Un pittore discusso.
Nella capitale delle Baviera il
triestino venne a contatto con l’impressionismo di Max Liebermann e con
i dipinti di Kokoschka; del secondo, in particolare modo, ammirò
la forza espressiva. I suoi ritratti di questo primo periodo tendono
tuttavia a nobilitare l’eleganza dei suoi soggetti nel movimento del
corpo, a renderli somiglianti nel portamento, ma seguono le mode e
si adeguano al gusto tedesco. Il triestino fu suggestionato dalle
forti linee di contorno e le mantenne a lungo, anche negli anni post
parigini, per caratterizzare figure, ma anche altri soggetti. Con il
colore più scuro voleva ‘bloccare’ le folgoranti energie degli
altri pigmenti?
Pochi i tocchi audaci, le accensioni
cromatiche, timidi i colori stesi preferibilmente a paste larghe.
E’ datato 1902 il ritratto più volte esposto dello scultore Alfonso
Canciani (che gli fu amico), ma sono assai meno noti quelli più tardi
che eseguì ai pittori Nathan (1923), allo stesso Canciani (1924), a
Parin (opera esposta in una personale da Michelazzi nel 1933), a Hermann
Lamb (1933), a Mascherini, a Campitelli, a Meng, al noto professor de
Tuoni e chissà a quanti altri ancora. Nel 1923 Canciani eseguì un busto
di Levier che fu acquistato una decina di anni dopo dal Museo Revoltella
di Trieste e oggi fa parte delle collezioni.
Parigi segnò la svolta decisiva della
sua vita di pittore; differentemente da Veruda egli, a Montparnasse,
abbandonò matite e carboncini, disegnò direttamente sulla tela con i
colori puri (cosa che fece poi per tutta la vita!) senza mescolarli,
senza velarli per mantenere le tinte più lucenti e aggressive, i toni
accesi.
Fece tesoro degli insegnamenti degli
impressionisti, trovò punti di contatto con l’arte popolare, sveltì la
sua azione, divenne ‘stenografico’, ardito e fin violento. Diceva che
con i colori non si deve aver mai paura, che si deve osare. La pittura
mobile, vibrante, (quasi una musica!) e priva di pentimenti di Raoul
Dufy lo esaltò: ammirò gli accostamenti arditi dei colori fondamentali
nelle sue vedute, le case rosse nelle inquadrature semplificate, le
corse di cavalli ad Ascot e a Deauville (dov’era stato anche Carlo
Wostry), le bagnanti e i fari atlantici.
Tornato in riva all’Adriatico ascoltò
indifferente, con nobile distacco, le voci della critica quando divenne
protagonista (suo malgrado!?) di “un caso”; irrispettoso delle ‘regole’,
moderno, spregiudicato, fauve, non abbandonò mai quella sua nuova
pittura (per lui rilassante come la scherma che praticava!),
completamente diversa dalle lezione monacense e conquistata a fatica,
liberatoria per il suo spirito.
Sopportò parole severe, più tardi
qualcuno (Giulio Montenero) pose arguto accento sulla sua ‘umanità
casalinga’ e sul ‘francese in dialetto’ che egli aveva introdotto nella
tradizione dell’arte figurativa locale, ma Levier trovò pure molti
estimatori: a Trieste dipinse i caffè, le dinamiche balere, i giardini
alberati e i luoghi amati (Barcola, Roiano, Muggia); a Venezia vedute
mai banali. Questi soggetti sono oggi assai più ricercati dei
ritratti (numerosissimi) e segnano inevitabilmente il mutamento di gusto
dei collezionisti. Levier portò pure a compimento diversi
autoritratti, nature morte e raramente affrontò i temi dell’arte sacra.
Fu validissimo acquerellista (tecnica
che gli fu congeniale per la velocità di esecuzione) e non disdegnò
prendere qualche spunto dalle fotografie per dipingere.
L’ultima sua tela fu un paesaggio
scarno, verdissimo, con un grande albero nel mezzo”.
Walter Abrami