ANALISI DI UN’OPERA: “CHIESA E CAMPO DEI GIUSTIZIATI IN VAL D’INFERNO”

 

 

Paolo Marini

 

 

 

Mario De Maria, Chiesa e Campo dei giustiziati in Val d'Inferno

 

 

Il dipinto venne proposto, assieme ai Monaci dalle occhiaie vuote e a una non identificata Curiosità, nella Sala internazionale dell’Arte del Sogno nell’ambito della VII Biennale veneziana (1907), ed entrò a far parte della collezione del Museo Revoltella di Trieste per l’interessamento dell’allora conservatore, il pittore Augusto Tominz (malgrado de Maria avrebbe preferito affidare al museo i Monaci, che stimava di qualità superiore). Il contenuto aneddotico era stato indicato dallo stesso artista a Tominz come una leggenda del Mezzogiorno italiano secondo la quale, in un campo ai piedi del Vesuvio, le anime dei peccatori, giustiziati in un tempo lontano e ivi sepolti, riprendevano vita nelle ore più calde del giorno attendendo i viandanti al varco per trascinarli all’inferno.

Nella parte sinistra del quadro si vede quindi la colluttazione tra alcuni cavalieri in armatura e gli spiriti malefici, mentre sulla destra, riparati dall’ombra, Satana e la sua compagna assistono alla scena.

Nel suo respiro paesaggistico, la composizione è un evidente tributo alla grande tradizione seicentesca della veduta allegorica. Ciò che però ne fa un oggetto per molti versi isolato persino nel contesto del coevo Simbolismo italiano ed europeo è l’assoluta originalità della condotta pittorica, che pure si avvicina con una certa evidenza ad alcune soluzioni alla Boecklin nella mutevolezza del trattamento meteorologico. La temperatura emotiva è infatti basata principalmente sulla frizione tra la zona sinistra, abbacinata dai raggi d’un sole impietoso, e quella destra che respira la serenità bucolica d’una vasto paraggio ombroso intarsiato con profili netti, nel centro dello scenario, al terreno e alle pareti in luce. Sull’asse mediano del quadro, a rimarcare ulteriormente la bipartizione, strilla il rosso d’un vecchio uscio ricavato nella parete contigua a quella cui la coppia demoniaca volge le spalle, ricoperto d’arbusti e sfalsato dalla sovrapposizione dello splendido albero sulla destra, dalla genealogia facilmente individuabile (Corot e Fontanesi). Questa vivacità chiaroscurale è tuttavia ulteriormente rilanciata dal violento stacco che si attua nel settore in alto a sinistra, dove il chiarore abbagliante dei fabbricati accoglie a sfondo la cupa cresta vulcanica sormontata dal livore d’un cielo temporalesco a sua volta spezzato dal fioccare nervoso di nubi a batuffolo. (Intermediari tra le consunte architetture e la volta minacciosa, si profilano le discrete emergenze ancora boeckliniane di alcuni cipressi). Al centro, si dispiega inestricabile un incastro febbrile di mura, tetti, cupole, merlature, finestre e altane, descritte con scrupolo nelle loro slabbrature da un pennello lautamente intinto di materia cui fa da contraltare l’altrettanto generoso lavoro della spatola come sapiente agente mimetico della realtà testurale di quelle pietre. In tale ricchezza d’effetti, la rissa tra i diavoli e i cavalieri può anche accontentarsi di una minore attenzione nella resa (anche se la critica ha indicato a più riprese la definizione della figura umana come il tallone d’Achille di de Maria); di maggior interesse, invece, la coppia sulla destra, nella quale la donna di Satana riprende alla lettera la postura del personaggio femminile – una torsione più manieristica che giorgionesca - d’una misteriosa tavola del pittore friulano Giovanni Antonio de’ Sacchis, universalmente noto come il Pordenone, che era appartenuta all’artista stesso (conosciuta col titolo La famiglia del Satiro, o anche Satiro ferito, e ora in raccolta privata). Il registro pittorico, insomma, sembra mutare a secondo dell’oggetto che di volta in volta è portato a definire, ma al contempo questa esibizione di disparità riesce a comporre una coerente unità d’insieme, in un bilico (mai compromesso ma continuamente, e vitalmente, assestato) tra freschezza naive e alta competenza esoterica.

 

 

Paolo Marini