Giacomo Ceruti
detto il Pitocchetto (Milano 1698 - 1767) - lo stile pittorico
Il merito della riscoperta di Ceruti spetta a Roberto Longhi. Il
decisivo rilancio critico del pittore, in particolare, avviene nel 1953,
quando a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, Longhi organizza la
celebre rassegna sui “Pittori della realtà in Lombardia”, con la quale
dimostra l’esistenza di una lunga tradizione naturalistica che, da
Moroni (e dai suoi predecessori Moretto e Savoldo) - passando per
Cavagna, Ceresa, Baschenis e Cifrondi - raggiunge Fra Galgario e Ceruti,
conservando “una certa calma fiducia di poter esprimere direttamente,
senza mediazioni stilizzanti, la ‘realtà’ che sta intorno” (Longhi
1953).
In Ceruti questa fiducia si riscontra soprattutto nei primi ritratti e
nelle prime prove di tema pauperistico. In questi ambiti, il più antico
appiglio cronologico ci viene dal bellissimo Ritratto di Giovanni Maria Fenaroli (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo), eseguito nel 1724. È
un’opera di straordinaria schiettezza, un ritratto privo di qualunque
idealizzazione. A dare dignità al vecchio conte non ci sono vesti ricche
o scenografie ricercate, ma una semplice e umanissima resa fisionomica.
Per la realtà con il quale è stato restituito, Fenaroli ha molto più da
spartire con gli anziani di ogni luogo e di ogni tempo, che non con i
rappresentanti, spesso davvero insulsi, dell’aristocrazia settecentesca.
Nel rappresentarlo, Ceruti non si concede eccessi cromatici, mostrando
già la sua predilezione per una “tenuta scabra, dimessa, color di
polvere e di stracci” (Longhi 1953), né stucchevoli compiacenze
descrittive. Lo stesso si coglie negli altri ritratti del periodo, i
quali “evidenziano, nel colorismo sobrio e ribassato e nel severo
naturalismo, un recupero della tradizione moroniana e un rapporto non
solo con le prime opere bergamasche di Fra Galgario, ma anche con i
precedenti e i coevi risultati della ritrattistica milanese, in
particolare del Lucini e di Andrea Porta” (Frangi 1991).
Lo spirito con il quale Ceruti ritrae i suoi clienti ritorna anche nelle
prove pauperistiche, inaugurate, nei primi anni del periodo bresciano,
con un inaspettato rispetto per le classi sociali più umili. Infatti
dipinge i suoi pitocchi - qui sta la novità rispetto a Keilhau e a
Cifrondi - “senza ombra di umore, senza altezzoso distacco, anzi con una
umana partecipazione che sembra, per quei tempi (e anche per oggi),
miracolosa. Tutto ciò poi, si avverta, non già in quadrucci di pochi
centimetri che sarebbero anche potuti passare come minuta suppellettile
da salotto, ma in tele enormi, di figure grandi al vero, quasi che il
pittore pensasse di aver trovato gli argomenti più importanti del mondo.
Mendicanti a brandelli; gaglioffi e storpi di villa; soldatacci
stranieri come ne bazzicavano in Lombardia al tempo delle guerre di
successione; romei in sanrocchino, seduti all’ombra sui canti delle
piazze di Brescia e di Salò; ragazzi da strada che taroccano a
cavalcioni sulle ceste; i lavandaj alla fontana; la cucitrice che
s’affaccia alla finestra con i riccioli nelle forcinelle; la fantesca
ferita…” (Longhi 1953).
Benché in questa sede sia impossibile dar conto delle numerose (e spesso
divergenti) interpretazioni che sono state date alla poetica
pauperistica di Ceruti, è doveroso segnalare che i suoi dipinti, per
coerenza con il corso della storia, non devono essere letti come un
reportage sulle condizioni dei ceti più poveri, ma considerati alla luce
delle preoccupazioni assistenziali mostrate, nei primi decenni del
Settecento, dagli ambienti della Chiesa e dell’aristocrazia. In ogni
caso, con buon senso, Francesco Frangi (in Da Caravaggio a Ceruti… 1998)
osserva che “le qualità distintive del pittore milanese rispetto alla
tradizione della scena di genere contemporanea non si giocano sul
terreno più oggettivo delle scelte iconografiche, bensì soprattutto su
quello della connotazione stilistica e dell’intonazione espressiva, che
sono categorie destinate inevitabilmente a un’interpretazione soggettiva
e a sollecitare costantemente nuove ipotesi di lettura”.
Decisivo, nel percorso stilistico di Ceruti, è il periodo veneto,
contrassegnato da un notevole arricchimento cromatico e da
un’approfondita riflessione sulle opere di Giambattista Pittoni,
Sebastiano Ricci e Giambattista Tiepolo. Questo aggiornamento gli torna
utile soprattutto nella pittura sacra (si veda la bella pala con San Prosdocimo che battezza santa Giustina) e gli permette di superare gli
esiti modesti lasciati nelle chiese delle valli bresciane. Per quanto
riguarda invece i generi più vicini alle sue corde, Mina Gregori (1982)
osserva che “nel corso del periodo veneto il pittore dovette orientarsi
verso le mezze figure che stanno a metà strada tra il ritratto e la
rappresentazione di carattere, con un punto di partenza che accoglie il
principio dell’idealizzazione e del bello, e indica un adeguamento ai
soggetti già diffusi a Venezia nell’ambito
”piazzettesco”.
Dagli anni ’40, a parte la breve parentesi piacentina e i frequenti
contatti con Brescia, Ceruti vive a Milano. Qui il suo stile si muove
“in direzione di una più ricercata eleganza formale, i cui risultati si
leggono chiaramente nel raffinato classicismo francesizzante del fregio
mitologico dipinto per Palazzo Arconati Visconti, così come nel
carattere più ingentilito della produzione ritrattistica […] e nella
rigorosa e ‘illuministica’ compostezza impaginativa delle nature morte
più tarde” (Frangi 1991). Sul fronte della produzione di genere, la
spigliatezza esecutiva dei primi pitocchi lascia spazio a una condotta
di grande scrupolosità e l’approccio pietoso a un’intonazione
idealizzante: con il suo clima arcadico, la Filatrice e contadino con
gerla (Milano, Civiche Raccolte del Castello Sforzesco) è ormai prossima
al linguaggio di Francesco Londonio. Negli ultimissimi anni, tuttavia,
Ceruti riscopre un linguaggio non distante da quello delle opere del
periodo bresciano e nel Ritratto di don Benedetto Martignoni (collezione
privata), eseguito con disinvoltura di approccio e di tocco nel 1767,
rispolvera, in modo quasi commovente, il suo antico amore per una
pittura fatta di realtà e di immediatezza.