Alessandro Tiarini
(Bologna 1577 - 1668)- lo stile pittorico
"Grave insieme ed
arguto, pratichissimo della Sacra Scrittura, nelle storie, nelle favole,
profondo nella prospettiva, ne’ costumi, nel disegno»; così il Malvasia,
lo storico seicentesco cui dobbiamo la maggior messe di notizie sui
pittori bolognesi del XVI e XVII secolo, abbozzava i tratti più evidenti
ed immediati della personalità artistica di Alessandro Tiarini. [...]
«Possedeva un’idea troppo pronta e ferace», continua lo storico
bolognese, alludendo anche alla sua speditezza nell’esecuzione,
«tuttavia prima di dar mano all’opre leggeva ben bene e pesatamente il
testo, che del fatto da rappresentarsi la narrativa contenea»; ma lo
studio colto ed erudito delle fonti letterarie serve solo parzialmente a
spiegare la fantasia di certe invenzioni, rispetto agli usuali repertori
seicenteschi, ovvero le straordinarie orditure compositive, che in
diversi dipinti del Tiarini lasciano veramente stupiti per forza e
genialità" (Pirondini 1994).
Attualmente, nulla si conserva della sua produzione anteriore al
trasferimento a Firenze, nondimeno "il soggiorno fiorentino si dimostra
decisivo per confermarlo sulle convinzioni già inculcategli dal Cesi in
favore di una strenua attenzione disegnativa. L’adesione ai modi del
Passignano e degli altri 'riformati' fiorentini, dall’Empoli al Poccetti,
si coglie in un gruppo d’opere eseguite in Toscana, tra le quali
spiccano i tre affreschi con Storie di San Marco nell’omonimo convento a
Firenze, all’interno di un'impresa condotta dal Poccetti (1602).
Rientrato a Bologna su invito di Ludovico, licenzia il grande Martirio
di Santa Barbara tuttora in San Petronio, memore delle astratte
soluzioni compositive e delle scelte cromatiche del Passignano e
dell’Empoli. L’adozione di partiture spaziali più complesse e la
progressiva amplificazione retorica che si nota nelle opere successive
(Assunta di Budrio, 1611, quadrone con un Miracolo di San Domenico per
la cappella dell’Arca in San Domenico, 1615, o ancora l’affresco nel
chiostro di San Michele in Bosco, 1613), sono da leggere come riflessi
dal drammatico e coinvolgente mondo espressivo di Ludovico Carracci" (Benati
1989).
Verso il 1614 il ritorno in patria, da Roma, di Guido Reni "è il fatto
che costringe ad un brusco quanto decisivo giro di vite la cultura
bolognese, nella quale si sarebbe di lì a poco inserito anche il giovane
Guercino da Cento, prontamente accolto da Ludovico nella schiera dei
suoi più scelti seguaci. La convergenza di intenti che si era instaurata
tra le personalità più promettenti tra i ludovichiani, alla quale il
Guercino ripenserà con malinconia ancora in anni inoltrati quando
ricorderà che «allora bulliva il pignattone», si coglie affiancando tra
loro alcune tele sacre datate a quel giro di anni, cruciale per le sorti
della pittura emiliana: Così se la Morte della Vergine del Guercino ora
al Prado non è pensabile senza il precedente della pala di analogo
soggetto eseguita dal Tiarini per l’oratorio di Santa Maria della Vita,
ora presso Matthiesen a Londra, appaiono altrettanto stringenti i debiti
nei confronti di Cavedoni sia in quello citato che negli altri quadri
eseguiti dal Guercino per il cardinale Serra" (Benati 2002).
A più riprese, dal 1618 Tiarini è a Reggio Emilia "ove dà mano agli
affreschi del Santuario di S. Maria della Ghiara [...]. È ipotesi
verosimile che proprio a Reggio, in parallelo con Bonone (con cui avrà
intensi scambi), Tiarini avverta lo stimolo ad una ripresa di modi
ludovichiani, strumentando l’assimilata costruzione per piani in un
chiaroscuro più variabile, a zone cromatiche di largo e contrastato
risalto (Vergine e Santi di Faenza, Vergine e Santi di Porretta,
Sposalizio di Santa Caterina dell’Estense). Prossimi sembrano
l’Annunciata della Pinacoteca ed i Santi Carlo e Alberto in S. Martino,
di tavolozza improntata ad un caldo venezianismo «riformato» tra la
Toscana e Ferrara" (Calvesi 1959).
Il San Martino resuscita un bambino, eseguito per la chiesa della
Trinità di Bologna verso lo scadere del secondo decennio (ora al Museo
della Basilica di Santo Stefano), "è uno dei massimi esempi di come il
Tiarini, pittore di storie, riuscisse a rappresentare il fatto nel suo
momento culminante. Il culmine è qui dato dalla mano del bambino, la
quale comincia appena a colorirsi e a muoversi. Mentre ancora San
Martino tiene volto lo sguardo al cielo e la madre a San Martino, il
primo ad accorgersi che la vita sta tornando è il ragazzino che indica
sbalordito la mano del bimbo all’incredulo infedele che la osserva
sgomento. Il chierico del santo vescovo, allora, comincia a chiamare la
gente intorno, perché assista al miracolo. [...] È quel movimento della
piccola mano il punto di partenza, nella invenzione del pittore, del
muoversi di tutte le altre mani, movimento che costruisce direttrici di
azione nei personaggi, quali aprono a traiettorie di sfondati
prospettici atti a una potentemente abbreviata definizione ambientale
(la porta di una città, la campagna subito dopo). [...] La pittura di
Tiarini ha qui ormai acquistato una grande efficacia di impatto fisico
in quei carnati e in quei panni, in quei ricami e sete, lambiti dalla
luce e intrisi e oscurati dall’ombra entro il suo mobile variare. Non
solo nell’uso cromatico veneziano egli si confronta con il Cavedoni e
con gli accostamenti suoi tipici fra il vivido e il livido, e non solo
nella costruzione piramidale delle figure, ma anche nell’invenzione di
quella figura dell’infedele, che è così affine a uno dei Re magi della
Adorazione cavedoniana della chiesa bolognese di San Paolo, pure se lo
scavo del volto ancora ricorda così da vicino i modi di Ludovico
Carracci. E a lui il Tiarini ritorna nello studio delle emozioni come si
nota soprattutto nelle fisionomie dei due giovinetti, ludovichiane,
specie quella del chierico" (Ferriani 2002).
"Nell’ottobre 1661 Malvasia va a visitare e riverire l’amico che trova
ancora lucidissimo, a tal punto che «recitava a proposito versi del
Tasso e dell'Ariosto» e «raccontava de’ fatti de’ pittori de’ suoi tempi
registrando precisamente il tempo e l’anno». Però ormai è cieco e il 7
febbraio 1668, dopo cinque anni di infermità, muore l’artista che nel
primo quarto del secolo aveva tentato una sua personalissima via nel
filone della pittura bolognese ed emiliana; egli stesso ne aveva
coscienza e si vantava «d’esser singolare e di battere una maniera da
ogni altra affatto diversa, condannando talvolta tanti scolari de’
Carracci, troppo di quella de’ loro maestri religiosi seguaci» ritenendo
altresì, alla fine, «che il seguir gli altri sia un farsi ad essi
secondo»" (Pirondini 1992).