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Guido Reni (Bologna 1575 – 1642)
Nato a Bologna il 14
Novembre 1575, Guido Reni mostrò ben presto disposizione per il disegno,
tanto che Calvaert, un fiammingo affermatosi da poco a Bologna, lo
incoraggiò ad intraprendere la carriera di pittore. Tale decisione, in
principio, contrastò con i desideri paterni. Infatti “Daniele Reni, eminente
maestro di cappella di S. Petronio, avrebbe voluto che il figlio seguisse le
sue orme: aveva acquistato tale reputazione nella sua arte da essere
chiamato ad esibirsi in Roma in occasione del giubileo del 1575, l’anno in
cui nacque Guido.
Daniele Reni e il Calvaert erano entrati in rapporto di conoscenza in quanto
entrambi godevano della protezione della famiglia Bolognini: Calvaert
disponeva di uno studio nel loro palazzo, Daniele Reni vi teneva concerti.
Fu durante una delle visite di suo padre a Palazzo Bolognini che Guido
conobbe il Calvaert. Secondo Carlo Cesare Malvasia, biografo bolognese di
Guido, Daniele acconsentì alla fine a lasciare che suo figlio entrasse
presso il fiammingo come apprendista a condizione che vi rimanesse per dieci
anni: se il rapporto si fosse interrotto prima, il ragazzo avrebbe dovuto
riprendere gli studi musicali. [...] Malvasia fornisce una vivace versione
dell’evento che condusse alla rottura col Calvaert. Mentre quest’ultimo
andava accusando il Reni di essere un seguace dei Carracci, e le relazioni
fra i due erano più tese, accadde a Guido di usare inavvertitamente un vaso
di lacca fina riservata al Calvaert solo. In un accesso di rabbia, il
maestro percosse il giovane che all’istante stesso lasciò la sua bottega per
mettersi a frequentare gli Incamminati. Nella versione edita della biografia
dell'artista, il Malvasia racconta come il Calvaert cercasse allora l’aiuto
di altre persone per indurre Guido a ritornare, ma invano. Nella versione
manoscritta lo scrittore bolognese riferisce invece correttamente che,
essendo morto il padre [7 gennaio 1594], il Calvaert non aveva più alcun
modo di costringere Guido al proprio volere” (Pepper 1988).
Attorno ai vent’anni dunque Guido aderì all’Accademia degli Incamminati, che
i Carracci avevano aperto dal 1582. Risalgono a questo periodo le prime
commissioni pubbliche, nondimeno l’artista continuava ad esercitarsi,
riproducendo tra l’altro opere di Annibale Carracci. Quest’ultimo, secondo
Malvasia, accortosi delle capacità del giovane e dei suoi rapidi successi
avrebbe suggerito al cugino Lodovico di non insegnare troppo all’allievo:
“Disse Annibale a Lodovico, taci in tua malora; non gl’insegnar tanto a
costui, che un giorno ne saprà più di tutti noi. Non vedi tu come non mai
contento, egli cerca cose nuove? Raccordati, Lodovico, che costui un giorno
ti vuol far sospirare”.
Il successo infatti non tardò ad arrivare. La prima affermazione ufficiale
è attestata nel 1598, quando Guido vinse il concorso per la Memoria, da
innalzarsi davanti al palazzo del Reggimento in occasione della visita di
papa Clemente VIII, al quale partecipò anche lo stesso Lodovico Carracci.
L’anno seguente inoltre venne ammesso nel Consiglio della Congregazione dei
Pittori di Bologna.
È probabile che il pittore abbia compiuto un primo breve viaggio a Roma
durante l’anno santo del 1600 o tutt’al più l’anno seguente assieme a
Francesco Albani, “per l’istessa cagione di vedere l’opera di Annibale, di
Raffaello e li marmi antichi” (Bellori post 1678, ed. 1942). Comunque sia,
tra il 1601 ed il 1604, i viaggi di Guido nell’Urbe sono diversi.
“In una pausa dell’attività romana partecipa agli apparati per i funerali di
Agostino Carracci e alla decorazione del chiostro ottagonale di San Michele
in Bosco a Bologna (1603). Gli esperimenti caravaggeschi [precedentemente
esperiti] hanno breve durata, se più tardi egli sembra quasi aspirare a
sostituirsi nei desideri della committenza al Cavalier d’Arpino. È di fatto
quest’ultimo a presentarlo a Scipione Borghese, nipote del pontefice Paolo
V, per il quale esegue, tra il 1607 e il 1608, gli affreschi nelle Sale
delle Nozze Aldobrandini e delle Dame in Vaticano” (Benati 1989).
“La cessazione dei rapporti del Reni con casa Borghese sembra sia stata
improvvisa e probabilmente spiacevole. All’epoca in cui egli se ne andò, si
stava predisponendo la volta alla quale era destinato l’affresco dell’Aurora
in uno dei casini che sorgevano nel fondo annesso al palazzo di Montecavallo:
nel dicembre del 1612, essa era pronta per accogliere l’affresco. Il fatto
che quest’ultimo non sia stato eseguito anteriormente alla prima metà del
1614 ci permette di stabilire la durata del dissidio. Quando infine Scipione
Borghese persuase il papa ad ordinare a1 Reni il ritorno sotto pena
dell'arresto, alla fine del 1613, quest’ultimo era deciso a tentare la fuga
pur di evitare di rientrare a Roma.
Quale può essere stata la causa per un risentimento così profondo da parte
del pittore? Prima di tutto, l’atteggiamento verso gli artisti: nella
capitale papale, e specialmente nella cerchia dei Borghese, questi potevano
essere uomini prezzolati o cortigiani. Il Malvasia riferisce che il Reni da
una parte rifiutava di esser fatto cavaliere, dall’altra si lamentava
sovente del modo in cui lo trattavano ufficiali papali e banchieri. Poi
c’era la fretta con la quale si doveva eseguire qualunque cosa, e la
mancanza di riguardo per la mente dell’artista che dirigeva la creazione:
l’accento veniva posto sull’esecuzione, e i pagamenti erano erogati ai
pittori come lo sarebbero stati a degli operai non tenendo in alcun conto
l’idea. L'effetto dell'atteggiamento assunto dal Reni fu clamoroso. La sua
partenza, il suo rifiuto di ritornare e di essere ricompensato al modo
cortigiano con un titolo di cavaliere fu uno shock per la corte romana.
Malvasia riferisce che, quando alla fine vi fece ritorno, cardinali e nobili
si accordarono per mandare le loro carrozze ad accoglierlo oltre Ponte
Milvio come un eroe vincitore. Prima di respingere questa versione come
esagerata, va ricordato che una simile esibizione non sarebbe stata affatto
in contrasto con gli usi della corte romana sotto i Borghese. Per rimanere
ai fatti, Reni rivoluzionò la scala dei compensi pagati fino ad allora agli
artisti principali, modificando, sembra, in modo decisivo l’atteggiamento
verso le grandi imprese decorative in Roma. Fu lui a stabilire quei principi
di coerenza e integrazione nella decorazione che dovevano sfociare nello
stile barocco romano” (Pepper 1988).
“Nonostante l’enorme successo riscosso a Roma con le opere eseguite per la
grande nobiltà e per il papa, [...] il maestro torna per sempre a Bologna
all’inizio del secondo decennio del secolo, spinto probabilmente, oltre che
dai contrasti coi prelati della curia pontificia, dall’entusiasmo suscitato
dalla Strage degli Innocenti e dal Sansone vittorioso, eseguiti durante un
breve soggiorno nella città emiliana. [...] L’attività matura procede a
ritmo intenso, grazie all’unanime successo che le sue opere riscuotono
presso una clientela europea di altissimo rango, per la quale esegue
dipinti, oltre che religiosi, mitologici e storici” (Baccheschi 1971).
Un improvviso quanto travagliato viaggio a Napoli nel 1622, dove viene
chiamato per affrescare la cupola della cappella del Tesoro di San Gennaro,
è bruscamente interrotto a causa di una vera e propria congiura promossa
dall’invidia dei colleghi. Poco dopo (1627) è di nuovo a Roma dove accetta
l’incarico conferitogli dal cardinale Barberini per l’esecuzione di Storie
di Attila in San Pietro. In questo caso sono alcuni disaccordi che minano il
buon esito della vicenda. In apertura del quarto decennio il Senato gli
commissiona la celebre Pala della peste, dipinta su seta, come ex-voto della
città per la gravissima calamità del 1630-31. Questo autentico e originale
capolavoro dà inizio all’ultimo decennio dell’intensa attività reniana.
Guido Reni “muore, dopo due giorni di agonia, il 18 agosto 1642, all’età di
sessantasette anni. Il corpo è esposto al popolo, in San Domenico, per due
giorni, e sepolto poi nella tomba dei Giudotti dove, ventitré anni dopo,
verrà deposta colei che più ebbe a ereditare il «mito» della pittura reniana,
sacra e verginale, e cioè Elisabetta Sirani” (Emiliani 1964).
Daniele D'Anza
giugno 2005