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Luca Ferrari (Reggio Emilia 1605 - Padova 1654) - lo stile pittorico

 

   

Accolti gli stimoli  di alcuni fra i maggiori maestri emiliani del tempo quali Lionello Spada, Bonone, Camillo Gavassetti e Guercino, Luca Ferrari cresce a contatto con l’arte di Alessandro Tiarini, del quale fu aiuto a Modena nel 1627 (Arcangeli 1959). Tuttavia “allorché inizia la collaborazione col Tiarini, ha già formato un suo gusto, basato sul disegno e nel colorito chiaro, campito nettamente e plasticamente rilevato nella luce, che costituirà la base per la formazione d’uno stile monumentale, largo e solenne, ma nello stesso tempo decorativo, «barocco»” (Fantelli 1978).

Con il grande telero votivo, La pestilenza del 1630, commissionato da Lionello Papafava per la chiesa padovana di Sant’Agostino (oggi Cassa di Risparmio), Ferrari introduce nel Veneto i “modi narrativi emiliani, cadenzati con un gusto naturalistico attento e preciso, senza lacerazioni patetiche alla lombarda, e in una luce schiarita, adatta ad una messa in scena paesistica” (Pallucchini 1981). In quest’opera egli dimostra di aver già formato un suo gusto, “basato sul disegno e nel colorito chiaro, campito nettamente e plasticamente rilevato dalla luce, che costituirà la base per la formazione d’uno stile monumentale, largo e solenne, ma nello stesso tempo decorativo, «barocco»” (Fantelli 1978).

Durante il primo soggiorno a Padova, oltre a conoscere l’arte di Paolo Veronese, entra in contatto con le voci nuove della pittura veneta, ovvero Bernardo Strozzi ed il suo seguace padovano Ermanno Stroiffi ma anche con Nicola Renieri, allora attivo a Venezia, donde quella “mescolanza tra gusto accademico e lucida diligenza di particolari” che gli è tipica (Arcangeli 1959). Allo scadere del primo soggiorno padovano è collocabile l’Annunciazione della parrocchiale di Carceri d’Este (Padova). Ferrari “si muove ormai con la sicurezza di chi ha raggiunto la piena padronanza di un proprio personale linguaggio artistico; che, in fondo, resta sostanzialmente legato alle sue origini, ma è pure quello di un emiliano in libertà senza obblighi o costrizioni di regole o di scuole. Così egli spesso accetta, delle parlate venete, i termini a suo giudizio più consoni a ciò che di volta in volta si sente esprimere” (Pirondini 1999).

Molto apprezzata fu anche la tematica classica e mitologica che Ferrari, fin dal suo periodo giovanile, andò sviluppando tanto in Emilia quanto nel Veneto. Nel Crise che domanda la restituzione di Briseide e nell’Incontro di Ettore e Andromaca (Venezia, Palazzo Pisani-Moretta) “la presentazione dei personaggi a mezza figura e il lume radente sono in funzione di una intensa caratterizzazione patetica e di una pungente evidenza ottica dell’immagine, mentre un effetto teatrale è conseguito dai costumi sontuosi, resi con brillante virtuosismo [...] e dalla mimica eloquente dei gesti e delle mani” (Pavanello 1976). 

Ritornato a Reggio Emilia per affrescare la chiesa della Madonna della Ghiara, l’artista “si abbandona a un volo fortunato” dove “brilla in candore di carni e di vesti, in aria di frasche, quasi in anticipo del migliore ‘gran gusto’ settecentesco, e in una forma che non conosce l’uguale, non per qualità ma per carattere, nella pittura seicentesca dell’Emilia” (Arcangeli 1959).

In conclusione va detto, che se la cultura figurativa padovana degli anni a ridosso della metà del XVII secolo si presenta all’insegna del gusto emiliano, ciò è dovuto soprattutto a Luca Ferrari. Attorno alla sua figura “infatti ruota un gruppo di artisti che ne svilupperà i modi e tra questi innanzitutto due conterranei verosimilmente giunti a Padova al suo seguito” (Fantelli 2000). Uno è Lorenzo Bedoni, che “lavorerà per la basilica di Sant’Antonio soprattutto come pittore, pittore quadraturista e architetto” (Fantelli 2000), l’altro, di cui abbiamo poche notizie, si chiama Francesco Viacavi.   

 

 

 

Daniele D'Anza

 

 

maggio 2005