Francesco Borromini (Bissone, 27 settembre 1599 – Roma, 3 agosto 1667)
Lembo di terra di dimensioni assai modeste, il borgo di Bissone può a prima vista ingannare sull’importanza assunta nel tempo come sorgente dalla quale si irradiarono, nel corso di diversi secoli, alcune tra le più importanti famiglie di artisti che realizzarono e abbellirono gli edifici di numerose città europee con le loro opere. Architetti, scultori, pittori e stuccatori che si muovevano generalmente in gruppi, uniti tra loro o per legami familiari o per necessità lavorative, ma ad ogni modo accomunati dalla provenienza dal medesimo luogo (o da località poco distanti). Di questi “clan” (di cui si tratta più approfonditamente in alcuni capitoli di questo libro) fanno senza dubbio parte i Gaggini, che dal Quattrocento in poi lavorarono principalmente tra Liguria e Sicilia (ma non solo), e i Tencalla, i più importanti esponenti dei quali sono attestati in Austria, in Slovacchia e in Baviera. Inoltre, non vanno di certo dimenticate altre famiglie bissonesi, come quella dei Garovo (o Garvo, o Garovi, oppure Garove), dei Bussi, dei Caratti e soprattutto dei Castelli, ceppo familiare dal quale discende uno dei più famosi artisti ticinesi che abbiano lavorato in Roma con grande successo. Nato dal matrimonio tra Giovanni Domenico Castelli e Anastasia Garovo, Francesco Castelli, più noto come il Borromini (cognome derivato da Brumino, casata del patrigno di Giovanni Domenico, che a sua volta lo ereditò come soprannome), rappresenta infatti la figura di maggiore spicco tra quegli artisti che si mossero da Bissone alla volta di realtà più prestigiose, continuando quella tradizione che i cosiddetti “artisti dei laghi” portavano avanti da diverse generazioni. Ma, mentre questi mantenevano generalmente stretti contatti con il loro paese natio (e le due chiese di San Carpoforo e San Rocco ne sono testimonianza), ritornando periodicamente durante la stagione invernale o quantomeno saltuariamente, per Francesco Castelli, a differenza di suo fratello Giovanni Domenico (omonimo del padre), l’unica traccia di un ritorno a Bissone è rappresentata da un atto notarile dell’agosto 1621 in cui figura come testimone. Ancora poco si conosce della formazione di Francesco, della quale si possono solo ipotizzare le date, ma avvenuta con certezza nel cantiere del Duomo di Milano nell’orbita dell’architetto Francesco Maria Ricchino e dello scultore Giovanni Andrea Biffi. Primo documento di un certo valore è un manoscritto di Bernardo Castelli, nipote ed erede del Borromini, dal quale si evince che il padre lavorasse al servizio dei Visconti di Milano e che portò con sé il figlio Francesco quando questi aveva compiuto nove anni per imparare il mestiere di intagliatore di pietra. E come tale appare in un documento del dicembre 1618 e in un altro del febbraio dell’anno successivo, uniche testimonianze certe della sua presenza nel cantiere del capoluogo lombardo, che tracciano quindi per il nostro artista le linee di una formazione sostanzialmente da scultore, la quale nella Milano borromaica si rivelava una base consistente per lo sviluppo di una successiva formazione architettonica. Del resto, rimarranno tracce di questo apprendistato settentrionale anche in alcune soluzioni che il Borromini adotterà nelle sue realizzazioni più mature, sebbene reinterpretate in un’ottica più barocca (si veda ad esempio il coronamento di Sant’Ivo alla Sapienza, una sorta di guglia attorcigliata). Risale dunque alla fine del secondo decennio del Seicento il trasferimento di Francesco a Roma, ingaggiato come maestro d’arte e ospitato inizialmente da Leone Garovo, parente della madre e attivo come capomastro scalpellino nel cantiere della basilica di San Pietro, diretto a quel tempo da Carlo Maderno, anch’egli imparentato coi Castelli, seppur indirettamente, avendo la sorella Marta sposato un Garovo di Bissone. E proprio accanto al Maderno lo troviamo dopo la morte di Leone (avvenuta nel 1620 in San Pietro), del quale il nipote acquisì la bottega iniziando una collaborazione con Bernardino Daria di Pellio Inferiore e Gerolamo Novi di Lanzo, lapicidi già soci del Garovo, che durerà solo fino alla primavera del 1623. Di questa compagnia, che ad ogni modo segna un primo importante passo nella carriera del Castelli, che da “maestro” divenne infatti “capomastro”, non rimane però una documentazione che ne attesti l’attività, e del bienno in questione si conosce più che altro l’autonoma attività del Castelli per il cantiere di Sant’Andrea della Valle, nuovamente sotto la direzione del Maderno: durante questa collaborazione realizzò dei capitelli a forma d’angelo e alcuni elementi decorativi del lanternino. Gli esordi romani, quindi, videro ancora Francesco, poco più che ventenne, ancora alle prese con mansioni di scultore; intanto, certamente influenzato dalla figura del più noto parente, andava anche esercitandosi nel disegno d’architettura, ripercorrendo quelle che erano state le tappe formative dello stesso Maderno sotto la guida di Domenico Fontana, altro illustre ticinese che trovò in Roma terreno fertile per il proprio lavoro. Nel frattempo continuarono anche gli interventi per la Fabbrica di San Pietro, tra i quali si possono ricordare la decorazione della loggia del pilone della cupola detto “della Veronica” e le inferriate del coro della cappella del Sacramento, mentre attorno al 1624 iniziò la collaborazione con Gian Lorenzo Bernini (che pare durò fino al 1631 circa, nonostante i pagamenti per i lavori datino fino al 1633) per la realizzazione del cosiddetto Baldacchino, per il quale Francesco realizzò i disegni degli ornati e il coronamento della struttura con volute a dorso di delfino. In questo lasso di tempo, probabilmente per distinguersi da altri Castelli presenti a Roma, Francesco iniziò ad assumere stabilmente il cognome Borromini, già utilizzato sporadicamente attorno al 1624 per alcuni atti ufficiali. Contemporaneamente dà vita nel 1626 ad una seconda compagnia di scalpellini con Battista Castelli (omonimo ma non parente del Nostro), Carlo Fancelli e Agostino Radi, consapevoli che nelle fabbriche papali del periodo lo spazio a disposizione di architetti emancipati fosse molto limitato, salvo alcune eccezioni come il Maderno e il Bernini. A differenza della precedente esperienza, in questo caso siamo in grado di ricondurre a questa compagnia almeno tre importanti cantieri: quello per la fortificazione della residenza papale al Quirinale, quello per i miglioramenti del Pantheon, e quello per il palazzo di Monte Cavallo. Nonostante queste prestigiose commissioni, il sodalizio venne sciolto nel 1632, lo stesso anno in cui Borromini ottenne la nomina presso lo Studium Urbis, compiendo il tanto sospirato passaggio da “capomastro” ad “architetto”. Dopo che gli venne accolta l’offerta di prestazione gratuita per i lavori di adattamento nella chiesa della Santa Casa di Loreto, nel 1634 giunse la prima commessa personale da parte dell’ordine dei Trinitari scalzi, che gli affidarono il progetto per la costruzione del monastero e della chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, lasciandogli totale libertà nell’esecuzione. Infatti, già in questa opera prima (come lo stesso architetto la considerava), emersero quelle peculiarità che sarebbero state care al Borromini durante tutto il suo iter professionale, tra cui spiccano la capacità di rielaborazione di schemi tradizionali in favore di un più libero dinamismo architettonico (grazie all’alternanza di parti concave e convesse la pianta dell’edificio è trasformata in un ovale ondulato), e la predilezione per le superfici bianche. Contemporaneamente (la realizzazione del San Carlino sarebbe durata fino al 1641 nella prima fase, mentre la facciata sarebbe stata ultimata tra il 1664 e il 1667 dal nipote Bernardino Castelli), oltre a numerose commissioni “minori”, lavorò alla decorazione della cappella della Trinità in Santa Lucia in Selci (1638 – 1643) e all’oratorio di San Filippo Neri (1637 – 1640), edificio per il quale il suo spirito innovatore dovette combattere con il carattere estremamente tradizionalista dei Filippini, che osteggiarono alcune delle soluzioni proposte dal Borromini. Maggiore libertà ottenne invece per la realizzazione della chiesa di Sant’Ivo, iniziata nel 1642 sul fondo del cortile del Palazzo della Sapienza, e analizzata in questo stesso volume da Paolo Portoghesi, saggio al quale rimando per una più completa comprensione. Sempre degli anni Quaranta è la nomina ad architetto della Sacra Congregazione de Propaganda Fide, per la quale progetta l’omonimo palazzo a partire dal 1646: qui Borromini riprende il tema, già affrontato nell’oratorio di San Filippo Neri, della facciata parallela all’asse longitudinale della cappella interna. In questa occasione, però, la facciata, concepita come luogo di incontro tra forze opposte, presenta un’articolazione plastica più aggressiva e tumultuosa, indubbiamente risultato dell’autonomia esecutiva concessa all’architetto. Intanto, i successi del Borromini cominciarono ad accogliere il favore di personaggi sempre più illustri, tra i quali spicca Innocenzo X: alla figura di questo papa è legata la commissione del restauro della basilica di San Giovanni in Laterano, opera che si trovava allora in uno stato avanzato di degrado e che si volle riportare all’antico splendore per i festeggiamenti dell’anno santo del 1650. I lavori presero il via nel 1644 con la sistemazione e la conservazione della vecchia basilica medievale e del soffitto ligneo, ritenuto dal pontefice opera di Michelangelo, a cui si aggiunse la realizzazione degli stucchi interni, il tutto terminato nei tempi prestabiliti; solo la facciata rimase incompiuta. Grande fortuna fu per il Borromini l’apprezzamento di Innocenzo X, che nel 1652 lo nominò cavaliere dell’Ordine di Cristo e gli diede la possibilità di legare il proprio nome anche ad altri prestigiosi lavori, come l’incarico di subentrare nel cantiere per la chiesa di Sant’Agnese in Agone in Piazza Navona; con la morte di Innocenzo X nel 1655, però, l’incarico tornò a Carlo Rinaldi, esponente di uno stile più tradizionale evidentemente preferito da papa Alessandro VII a quello “gotico” (come lo definì lo stesso pontefice) del bissonese. Ad ogni modo, la fama dell’architetto incontrò anche l’appoggio di importanti famiglie romane: su tutte la famiglia Spada (probabilmente anche grazie alla mediazione di padre Virgilio Spada, con il quale collaborò al Laterano), per il palazzo della quale realizzò alcuni interessanti lavori, come ad esempio la cosiddetta “galleria prospettica” (1652 – 1655): un artificio progettuale che, grazie alla rigorosa applicazione del metodo prospettico e alla riduzione progressiva di altezza e larghezza del corridoio, dà all’osservatore l’idea che la galleria sia lunga più del doppio della sua misura reale. Sempre per la stessa famiglia, attorno al 1660 progettò la cappella Spada in Santa Maria della Carità, mentre il rapporto privilegiato con i Falconieri si concretizzò nella realizzazione della cappella familiare in San Giovanni dei Fiorentini e negli adattamenti dell’omonima villa a Frascati realizzati attorno al 1665, due anni prima di morire trafittosi dalla propria spada.
(trad. da M. MOIZI, Francesco Borromini. An Illustrious Son of Bissone, in: Bissone. Lands of Artists, a cura di G. MOLLISI, collana “Arte & Storia”, 41, ottobre 2009).
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