Pietro Berrettini, da Cortona (Cortona 1597 - Roma 1669)
"Le differenze fondamentali tra un artista e l’altro sono date non tanto dalla diversità di talento, quanto dal momento del loro accesso e dalla posizione che occupano in una certa sequenza" (Kubler, 1976). C’è bisogno quindi anche dell’ "intuito per cogliere i fermenti più nuovi della cultura coeva: fermenti da cui partire per dar vita a un’arte che sia insieme lo specchio, la sintesi e l’anticipazione dei valori di un’epoca" (Lo Bianco, 1992). Pietro da Cortona ebbe modo di captare le idee che presero forma nella sua arte e che tanto successo gli procurarono fra i contemporanei, nel circolo di raffinati eruditi, letterati e cultori dell’antico, nonché collezionisti appassionati. Scriveva il Pascoli nella sua biografia: "(…) vide la fortuna, la conobbe, e se ne seppe valere (…)". Roma, nel primo decennio del Seicento, agisce potentemente sull’artista non solo per il fascino del mondo classico che gli fornisce un ricco repertorio di storia antica ma anche per la presenza di Rubens, Guercino e Lanfranco, ovvero di una pittura "accattivante e veemente insieme" (Lo Bianco, 1992). Nella S. Cecilia, oggi alla National Gallery di Londra - poco prima degli affreschi in Palazzo Mattei (1622) -, sono già presenti quegli "elementi di novità che Cortona riesce a mettere in atto, attraverso la lettura di Domenichino e soprattutto di Vouet, rivissuta alla luce dell’intima conoscenza dell’antico. Da Vouet l’artista media quel senso carnoso e tattile di bellezza femminile, pulsante di vita (…)" (Lo Bianco, 1997). Queste particolarità sono riconoscibili anche nel Cristo e l’Adultera, del 1625, e nell’Adorazione dei Pastori, commissionate dalla famiglia Mattei, dove l’inclinazione caravaggesca è mediata dai "modi fortemente chiaroscurati di Baccio Ciarpi" (Lo Bianco, 1997). Se gli affreschi di Palazzo Mattei con le quattro scene della vita di Salomone "(…) dimostrano il suo senso del dramma, il suo caratteristico stile compositivo, il suo amore per i dettagli archeologici e la sua solidità e chiarezza nella concezione dei protagonisti", tuttavia "lo stile (…) manca di vigore e sicurezza (…) e gli affreschi "(…) non rivelano il caldo alito del genio" (Wittkower, 1993). Già poco dopo, però, nelle decorazioni in Santa Bibiana (1624-1626), si rivela la svolta evidente nel "carattere classicheggiante visibile nella mimica accentuata dei protagonisti e un cromatismo luminoso e vibrante" (Merz, 1997). In questa esecuzione lo stile "è virile, audace e vivo (…) più vicino allo spirito del soffitto Farnese di Annibale che allo stile del Domenichino e possiede qualità simili alla scultura di Bernini di questi anni" (Wittkower, 1993). Nello stesso giro di tempo, nel Trionfo di Bacco e nel Sacrificio di Polissena per i Saccheti (1624), e ancora nel più tardo Ratto delle Sabine (1626), il "Cortona riesce a creare un’arte in cui la cultura antiquaria si rende presente con energia e vitalità tutt’altro che filologiche, semmai teatrali" (Lo Bianco, 1992). Nella pala d’altare per l’Abbazia di Camaldoli (1627), realizzata per Francesco Barberini, emerge un nuovo indirizzo riproposto anche nella Sacra conversazione in S.Agostino a Cortona: le due opere sono infatti riconducibili al cosiddetto "movimento noeveneziano", nato dall’interesse suscitato dai Baccanali di Tiziano delle collezioni Aldobrandini e Ludovisi, che caratterizzò la pittura romana degli anni trenta del Seicento con una policromia più brillante e luminosa (Longhi, 1916). A partire dal 1632, e fino al 1639, il Cortona fu impegnato nella mirabile impresa del soffitto di Palazzo Barberini con il Trionfo della Divina Provvidenza. Nella descrizione stilata poco dopo il completamento dell’affresco, Francesco Ubaldini scriveva: "e la meraviglia par che m’impetri la vista" (cfr. Mochi Onofri, 1997). La volta lasciò quindi nei contemporanei un senso di stupore e rapimento, e "mai più il Cortona raggiunse, o ricercò, un’eguale densità e acutezza di motivi animato una altrettanta tempestosa passione" (Wittkower, 1993). Già nel primo soggiorno fiorentino del 1637, infatti, un clima idilliaco si respira negli affreschi della sala della Stufa di Palazzo Pitti; qui nelle Quattro età dell’Uomo, il pittore dà vita a una rivisitazione partecipe del mondo classico, vagheggiato per la perfezione assoluta. Lo stesso "profondo sentimento ideale" si ritrova anche nel dipinto – databile intorno al 1637 - Il ritorno di Agar ad Abramo (Briganti, 1962). Negli anni ‘40 lo stile delle Sale dei Pianeti si fa più "grandioso, evidentemente gradito alla committenza" in quanto più comunicativo, e la tavolozza più chiara e brillante, fino a diventare argentea e tenue nelle Storie di Enea in palazzo Pamphilj a Roma. Qui la narrazione si fa distesa e pacata, e "l’insieme è controllato e sembra chiamare a una riflessione sommessa, piuttosto che suscitare lo stupore provocato dalla grande macchina del soffitto Barberini (…) un’eleganza contemplativa prende il posto dell’azione drammatica" (Scott, 1997). Le grandi composizioni ad affresco si concludono con la decorazione della cupola e della navata centrale di S. Maria in Vallicella, col ritorno al "movimento ampio, l’abbagliante moltitudine di figure e il potente risalto", per una chiesa "che parli alle masse" (Wittkower, 1993).
Loredana Braconi
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