Vittorio Cavalleri - (Torino 1860 - 1938)
Flavio Bonardo
Vittorio Cavalleri, La lavandaia. Già mercato antiquario
Vittorio Cavalleri, Nel cortile del castello d'Issogne. Bra, collezione privata
Vittorio Cavalleri, La vecchia dormiente. Già mercato antiquario
Avviato a studi commerciali, fu poi “aggiustato” in qualità di commesso presso un negozio di stoffe ma, il tarlo dell’arte lo rodeva dentro e la sua capacità disegnativa lo portava a riempire di elaborati i taccuini sui quali avrebbe dovuto appuntare le richieste dei clienti. Con i primi guadagni frequentò le lezioni private che impartiva il maestro dell’Albertina Francesco Sampietro che, come ebbe a scrivere Marziano Bernardi: “Non poteva insegnargli altro che una scolastica accuratezza disegnativa”. Forzando la volontà dei genitori nel 1878 s’iscrisse ai corsi dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, dove ebbe a maestri nel biennio, Enrico Gamba, Giuseppe Giani e lo stesso Sampietro mentre negli anni successivi, fu allievo di Gastaldi e Gilardi forgiatori di tantissimi allievi. Nel 1883 terminò gli studi e sempre nello stesso anno fu iscritto al Circolo degli Artisti dove, nell’annuale rassegna presentò due studi: -Raggio di sole- (acquistato dalla direzione dello stesso) e –Sentiero- lavori che gli valsero la stima dei colleghi anziani. Il 1885, fu per Vittorio l’anno della sua definitiva consacrazione dopo il successo personale conseguito alla Promotrice con la presentazione di: -Fiori di cimitero- Zappe abbandonate- Ritratto di donna- Estate in collina e Ottobre- ma, quello fu anche l’anno in cui stabilì la sua dimora (definitiva) al Gerbido nel comune di Nichelino e precisamente nella borgata Tetti Varrò ospite a vita della famiglia Gachet. L’avvocato Gachet originario di St. Etienne e proprietario di una fabbrica di velluti, viveva tra l’abitazione di Piazza Statuto a Torino e la casa di Tetti Varrò. Amico di famiglia dei Cavalleri e appassionato d’arte, aveva intuito il “Genio” del giovane Vittorio e si era offerto, di mettergli a disposizione la sua casa di campagna con l’unica richiesta d’insegnare “l’Arte Pittorica” al proprio figlio Mario di diciannove anni più giovane e Vittorio amante della natura, si fece accetto con grande gioia. Giuseppe Lavini valente critico d’arte così ne descrisse il posto: “Nessun segno esteriore tradisce la presenza in questo luogo (tra i campi del Gerbido delle corse) di uno studio di pittore. Picchierete alla porticina di un muricciuolo col bastone, coll’ombrello, con un sasso raccattato sulla strada (non esiste picchiotto) probabilmente non dovrete darvi nemmeno questa briga, l’uscio sarà aperto o socchiuso. Entrando vi troverete in un cortiletto rustico di modesta apparenza, chiuso per due lati da due bracci di fabbrica, bassi ad un solo piano oltre il pianterreno, che a tutta prima non si sa se definire piuttosto casa colonica o villeggiatura civile; un po’ del uno un po’ dell’altro, un sitino simpatico, da cui esala un profumo d’arte, di gaiezza e d’intimità”. Dai suoi maestri aveva appreso una pittura così detta di genere, con agganci alla storia classica e biblica e risvolti al mito. Tutti conosciamo la storia di Aracne l’abilissima tessitrice che, ebbe l’ardire di sfidare Atena e vincerla ma, male gliene incolse poiché, la Dea non sopportando la sconfitta la tramutò in un gigantesco ragno condannandola così a tessere in eterno. A questo punto mi sovviene il monito dell’indovino Calcante (dei veggenti il più saggio) di omerica memoria: “Quando il potente col minor s’adira, reprime ei si, del suo rancor la vampa per alcun tempo, ma nel cor la cova finché prorompe alla vendetta”. Il soggetto “Aracne” è stato oggetto di quasi tutti i pittori di quell’epoca. Nel 1898 il collega e amico Giovanni Giani aveva esposto alla Promotrice un bellissimo dipinto titolato –Aracne rustica- eseguito in quel di Cogne e nel 1910 il dipinto –Aracnidi- di Cavalleri (del quale esiste anche uno studio) era stato accettato alla Biennale di Venezia. Vittorio Pica sempre duro con i “Pennelli piemontesi” circa il dipinto aveva scritto: “Con graziosa piacevolezza e non comune brio di pennellata”. Ma Cavalleri “cantore virgiliano” (come lo ebbe a definire Vittorio Falletti) dal suo eremo di Tetti Varrò immerso nella campagna ricca di coltivi, di intriganti boschetti, di brevi corsi d’acqua e di arcani silenzi, estrinsecò nelle sue tele il grande amore per la natura e furono: campi di segala, covoni di grano, fioriture boschive, alberi a primavera, acque chete, contadine al lavoro o riposanti all’ombra da calure estive, nevi e brine, realizzati con colori salienti (rossi, aranciati, gialli) per dare forza ai primi piani e con colori rientranti (verdi, azzurri, violetti) per mostrare lontananze, il tutto con sentimento di paesista. Il filosofo tedesco Joachim Ritter scrisse: “Il paesaggio è natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla con sentimento”.
Vittorio Cavalleri, Cortile a Frassinetto. Già mercato antiquario
Nel 1889 dopo aver esposto alla Promotrice torinese –A domicilio coatto- e -Triste inverno- (quest’ultimo oggi al Museo Civico) in compagnia di Domenico Rabioglio e altri, fece un viaggio nella Capitale francese: al riguardo, molti hanno scritto che questo non determinò alcun mutamento nella sua pittura ma, da un’analisi accurata le cose non andarono proprio così. Il critico d’arte Antonio Oberti ha scritto: “Dopo il viaggio a Parigi del 1889, Egli trovò la sua vena più originale per una trasformazione lirica del paesaggio e una trasfigurazione della figura, lasciando tuttavia intatta l’azione visiva e la personalità del soggetto. Ne è la prova più evidente, il ritratto della madre, dove alla sodezza e plasticità dell’immagine fa riscontro una complessità di trapassi coloristici e di articolazioni”. Una conferma in tal senso c’è la da anche Piergiorgio Dragone che in proposito ha scritto: “Cavalleri e Tavernier ricercano soprattutto gli accostamenti di colore con contrasti abbastanza netti e violenti, sperimentando densi impasti luminosi che, mostrano la loro attenzione alla contemporanea pittura francese”. Nel 1890 all’annuale rassegna della Promotrice di Torino espose due opere: -Ritratto di donna- e –Tonio il galante- (quest’ultimo, oggi presso la GAM di Torino) e in quello stesso anno fu iscritto fra i soci onorari dell’Albertina e l’anno successivo, a quelli di Brera dopo, aver esposto alla stessa un –Ritratto di signora- e –Baldoria-. Nel 1892 la Società Promotrice di Genova allestì una grande mostra italo-americana in occasione del 400° anniversario della scoperta dell’America. Vi parteciparono i massimi esponenti dell’arte italiana e Il I° Premio (medaglia d’oro) fu assegnato all’opera: -Il porto di Genova durante le feste colombiane- uno stupendo lavoro di Giuseppe Sacheri mentre all’opera di Cavalleri fu assegnata la medaglia d’argento. Nel 1893 fu invitato a esporre ai Salons parigini e il suo dipinto –Un turbine- (dipinto che nel 1910 gli fu accettato alla Biennale di Venezia e che oggi fa bella mostra di se al museo californiano di S. Francisco) gli consentì di fregiarsi della medaglia d’oro e la stessa cosa si ripeté l’anno successivo con il dipinto –Sogno di primavera-. Nel 1896 alla Prima Triennale torinese espose –Ritratto del pittore Carlo Stratta- e –Empirismo- quest’ultimo un’enorme tela di cm. 260x200 che figurò tra i premiati. Autore anche di soggetti religiosi fu presente all’Esposizione d’Arte Sacra di Torino del 1898 con –Veduta della Palestina- opera di grandi dimensioni da alcuni definite “colossali”.
Vittorio Cavalleri, Portofino, 1909. Già mercato antiquario
Nel 1902 alla Quadriennale della Promotrice di Torino fu presente in Personale con trentanove dipinti fra i quali si evidenziavano il ritratto del suo discepolo Mario Gachet, il pastello raffigurante il ritratto della madre, il famoso –Empirismo-, una splendida -Portofino- che sarà riproposta nel 1909 al Circolo degli Artisti e quel bellissimo dipinto titolato -Forza motrice-, nel quale in un interno, una giovane fanciulla mima un pugno al ragazzo sorridente e sicuramente innamorato che, tenta di avvicinarsi troppo.
Vittorio Cavalleri, Forza motrice. Già mercato antiquario
Efisio Aitielli
nella
sua
recensione
su
Emporium
di
quell’ottobre
scrisse:
“Vittorio Cavalleri
ci
si
presenta
ad
un
tempo
come
il
più
discusso
e
il
più
ammirato.
Esso
offre
la
materia
varia
d’una
esposizione
individuale.
Ha
il
paesaggio
e
la
figura;
la
scena
di
genere
ed
il
quadro
sacro;
il
ritratto
di
piccole
dimensioni
e
quello
d’aria
aperta.
Ha
insomma,
un
insieme
di
opere
che
rivelano
i
suoi
vari
atteggiamenti
d’artista
e
ce
lo
presentano
come
veramente
è
nella
sua
forte
virilità.
(…) Se
predomina,
in
questa
raccolta
di
tele
piccole
e
ampie
un
difetto,
gli
è
precisamente
un’esagerazione
di commotività,
che
lo
pone
troppo
audacemente
avanti
al
vero,
e
gli
fa
dipingere
–coute
qui
coute-
(a
tutti
i
costi)
tutto
ciò
che
l’impressiona.
(…)
Vivendo
continuamente
nel
silenzio,
in
mezzo
alla
campagna,
davanti
allo
spettacolo
delle
Alpi
che
cingono
lontano
l’estrema
pianura
piemontese,
sente
l’idillico
e
il
tragico
della
natura,
i
colori
foschi
del
tramonto
dopo
l’uragano,
lo
splendore
del
meriggio
tutto
infuocato
dal
sole,
l’ora
dolce
dell’alba
e
del
risveglio
mattutino.
E
non
c’è
fenomeno
di
tono
anche
violento,
anche
audace
che
non
tenti”.
Nel
1909
fu
invitato
per
l’ottava
volta
alla
Biennale
di
Venezia
alla
quale
presentò
due
opere:
-Nel
cortile
del
castello
d’Issogne
e
Ritratto
d’artista-.
Vittorio
Pica
recensendo
su Emporium
le
opere
esposte
dai
pittori
italiani,
non
fu
per
nulla
tenero
verso
quelli
piemontesi
scrivendo:
“Molto
meno
soddisfacente
ci
appare
la
scelta
di
opere
presentate
dai
pittori
piemontesi
in
cui,
a
due
dei
meno
felici
ritratti
del
Grosso;
a
due
paesaggi
che
nulla
proprio
aggiungono
alla
fama
del
rimpianto Delleani;
a
due
scenette
alpestri
in
cui
Cesare
Maggi
mostra
la
consueta
sua
bravura
di
pennello
nel
fissare
non
senza
scenografica
artificiosità,
i
prediletti
effetti
di
nero;
a
un
mediocre
paesaggio
del
Tavernier
e
ad
un
mediocre
ritratto
di
Cavalleri”.
Del
dipinto
–Nel
cortile
del
castello
d’Issogne-
neppure
una
nota
mentre
Marziano
Bernardi
anni
più
tardi
circa
lo
stesso,
scrisse:
“Se
noi
osserviamo
invece
–Il
cortile
del
castello
d’Issogne-
(1909)
subito
vi
ritroviamo
la
calma,
la
gentilezza,
il
mistero,
la
grazia
vagamente
idillica,
quel
che
di
patetico
e
di
trepido
che
formava
la
condizione
spirituale
del
Cavalleri
migliore”.
Nel
1908
alla
Quadriennale
torinese,
con
l’opera
–Verso
l’ignoto-
gli
fu
assegnato
il
Premio Bricherasio
ex
aequo
con
l’amico
e
collega
Paolo
Gaidano.
Nel
1912
Alfredo
Vinardi
scrisse:
“Vittorio Cavalleri
ha
compiuto,
nel
suo
grande
studio
di
Tetti
Varrò
presso
Torino
il
ritratto
del
Duca
d’Aosta
col
grande
manto
dell’ordine
della
Giarettiera
ordinato
dal
Duca
al
pittore
piemontese
per
farne
omaggio
a
Re
Giorgio”.
Dopo
averne
fatta
una
disamina
(dimensioni
e
contenuto)
continuò
dicendo:
“Il
forte
pittore
piemontese,
ancora
affermatosi
nell’ultima
Promotrice
con
due
tele
veramente
indovinate,
soprattutto
una
suggestiva
rappresentazione
dell’Ottobre-
che,
meritò
le
lodi
dei
tecnici
e
dei
buongustai”.
Oggi
il
ritratto
sopra
citato
è
esposto
nella
Galleria
degli
Insigniti
alla
Corte
d’Inghilterra.
Nel
1920
all’annuale
rassegna
della
Promotrice
di
Torino
in
occasione
del
suo
60°
genetliaco,
gli
fu
reso
onore,
con
una
sala
personale
nella
quale
espose quarantatré
opere.
Nel
1923
a
Torino
si
tenne
la
Quadriennale
di
Belle
Arti:
Ernesto
Quadrone
nel
suo
articolo
circa
il
vernissage,
sulla
Gazzetta
del
Popolo
del
14
aprile
di
quell’anno,
scrisse:
“Cavalleri
ha
tre
brillanti
ritratti,
del
quale
uno
specialmente,
quello
della
signora
C:
M. T.,
è
dipinto
con
doviziosa
tavolozza.
Certi
gialli
dello
sfondo
brillano
intensamente,
dando
uno
spiccato
e
piacevole
risalto
al
rosso
vestito
della
dama;
la
quale
dama
è
animata
in
un
armonioso
e
rapido
movimento
che
la
fa
passare
traverso
ad
una
gamma
crescente
di
colore.
Una
simile
profusa
ricchezza
di
tinte
forse
nuoce
alquanto
all’evidenza
ritrattistica
del
quadro,
ma
è
pur
sempre
una
piacevolissima
ed
incantevole
gioia
visiva”.
Oltre
che
pittore
fu
anche
un
bravo
affreschista
e
ne
sono
testimonianza
quelli
eseguiti
nel
1917
al
Santuario
della
Madonna
Nera
di Oropa
raffiguranti:
La
pace
e
La
guerra
e
quelli
della
Parrocchiale
di
Frabosa
Serro
nel
cuneese,
dedicata
ai
Santi
Giacomo
e
Filippo.
Qui
in
due
estati
(1924
–
1925)
con
l’aiuto
del
fido
allievo
Mario
Gachet
e
del
giovanissimo
Italo
Cremona
arricchì
la
suddetta
di
trentanove
affreschi.
Ernesto
Billò
ha
scritto:
“Vittorio Cavalleri
ritrattista
alla
moda
della
borghesia
torinese,
superiore
a
volte
a
Giacomo
Grosso
si
tuffò
qui
con
l’aiuto
di
Mario
Gachet
e
qualche
pennellata
del
giovane
Italo
Cremona
in
un’atmosfera
misticheggiante,
congeniale
ai
decadenti:
sublimò
in
angeli
le
creature
femminili
e
ne
fece
delle
sagome
luminescenti;
immerse,
in
una
fissità
emblematica
gli
oggetti
della
Passione
e
profuse
simboli
di
fede
e
di
speranza,
ispirò
ambienti
e
folle
al
gusto
esotico,
tipico
di
quegli
anni.
Soffuse
sul
tutto
tonalità
dorate
e
lattiginose,
con
un
risultato
raffinato
e
brillante”.
Insegnante
presso
l’Accademia
Albertina
di
Torino
come
riferì
Alessandro
Lupo
(uno
dei
suoi
allievi
migliori)
il
Maestro,
aveva
una
specie
di
orrore
per
la
polemica
ed
eludeva
ogni
pensiero
che
potesse
turbare
la
quiete
necessaria
alla
sua
arte,
unica
realtà.
Solitario
e
chiuso
in
se
stesso,
lo
si
poteva
incontrare
sotto
i
portici
di
via
Po
mentre
si
recava
in
Accademia
sempre
con
l’eterna
cartella
sotto
il
braccio,
assorto
nei
suoi
pensieri
ma,
quando
saliva
in
cattedra
i
suoi
occhi
s’illuminavano,
le
sue
braccia
gestivano
le
parole
che
fluivano
rapide
dalla
sua
bocca
e
andavano
a
stamparsi
nei
cervelli
dei
suoi
allievi
come
frecce
nel
bersaglio.
Nel
mese
di
gennaio
del
1936
presso
il
salone
del
giornale
La
Stampa
di
Torino
fu,
allestita
una
mostra
in
onore
di
Giovanni
Giani
che,
con
quella
comparsa
in
pubblico,
chiuse
la
sua
attività
espositiva.
Alle
sue
opere
più
rappresentative
furono
affiancate
quelle
del
carissimo
amico
Vittorio Cavalleri
e
quelle
degnissime
del
giovane
Giuseppe
Manzone.
Italo
Cremona
recensendo
l’avvenimento
sulla
rivista
bergamasca
Emporium
scrisse:
“Onorando
Giovanni
Giani
e
affiancandogli
le
opere
più
intime
e
studiose
di
Vittorio Cavalleri
e
quelle
di
fresco
dipinte
di
Giuseppe
Manzone
il
quotidiano
La
Stampa
ha
favorito
gli
amatori
dell’arte
piemontese,
almeno
di
quella
che
si
adorna
di
una
certa
bonaria
appartenenza,
ispirandosi
al
costume
e
al
paesaggio
subalpino,
al
fine
di
indicare
la
continuità
non
ben
chiara
ma
piuttosto
sotterranea
ed
in
ogni
modo
assai
generica
d’alcuni
caratteri
tolti
a
precipui
di
quella
pittura”.
La
sua
morte
avvenne
il
22
maggio
del
1938
e
nei
mesi
successivi
nell’annuale
rassegna
della
Promotrice
furono
esposti
nove
lavori
del
compianto,
tra
i
quali
figurarono:
-Il
ritratto
del
pittore
Carlo Stratta-
e
la
grande
tela
–Empirismo-
che,
nel
lontano
1896
erano
state
esposte
alla
Prima
Triennale
torinese.
Analizzando
la
sua
opera,
Marziano Bernardi
scrisse:
“Tutto
lo
interessava:
il
fulgore
dell’estate
come
il
niveo
candore
dell’inverno
o
l’opaco
silenzio
della
nebbia
autunnale;
l’illimitata
immensità
del
mare
e
la
solenne
ampiezza
degli
orizzonti
subalpini;
l’intimità
di
un
salotto,
come
l’addensarsi
d’un
temporale
sulla
vuota
campagna;
l’atteggiamento
d’un
principe
ed
il
gesto
di
una
contadina;
un
bimbo
ridente
ed
una
vecchia
assorta
presso
il
fuoco;
un
giardino
fiorito
e
un
funerale;
la
gaiezza
e
la
malinconia
sia
degli
uomini
che
della
natura.
In
ciascuno
di
questi
argomenti
egli
metteva
tutto
se
stesso,
la
sua
raffinatezza
di
colorista,
la
sua
bravura disegnativa,
il
senso
innato
della
composizione,
con
uguale
trasporto”.
In
chiusura
leggiamo
ancora
quanto
scrisse
circa
il
nostro
artista,
il
noto
scrittore
e
critico
d’arte
Alessandro
Stella:
“In
Lui
la
destrezza
dell’esecuzione,
l’amore
della
natura
e
il
rispetto
della
realtà
vivente;
in
Lui
la
finezza
delle
sensazioni
vissute
e
la
bella
indipendenza
dei
propri
convincimenti.
Nato
pittore,
attraversò
la
scuola
per
acquistare
i
mezzi
necessari
a
manifestare
l’abilità
della
mano,
la
sensibilità
pittorica
dell’occhio,
la
vivacità
dell’intelligenza
e
la
libertà
di
spirito”.
Questi
fu
Vittorio Cavalleri
un
Maestro
(con
la
M
maiuscola)
dell’Arte
Pittorica
in
Piemonte
del
II°
ottocento
e
del
I°
novecento
e
le
sue
opere,
sono
sparse
in
collezioni
pubbliche
e
private
in
tutto
il
mondo.
Un’artista
che
meriterebbe
più
attenzione,
non
solo
dai
collezionisti
nostrani
(piemontesi)
ma
anche
da
quelli
di
altre
regioni
della
nostra
amata
penisola.
Flavio Bonardo (sabrotu@yahoo.it)
Bibliografia:
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