Filippo Tommaso Emilio Vacchetti - (Carrù (CN) 1873 – 1945)
Flippo Vacchetti - Fiori multicolori - Alba, collezione privata
Filippo Vacchetti - Trionfo di frutta e funghi - Già mercato antiquario.
All’Albertina ebbe a maestri, Pier Celestino Gilardi, Paolo Gaidano, Andrea Marchisio, Andrea Tavernier e Giacomo Grosso. A Torino andò ad abitare in una soffitta di piazza Carlina (Piazza Vittorio Emanuele II), dove negli anni successivi fu raggiunto dal fratello Emilio (Carrù 1880 – 1964) litografo e pittore e più tardi ancora dal fratello Sandro (Carrù 1889 – 1974) ceramista e pittore. La sua prima uscita pubblica, avvenne nel 1907 alla Promotrice di Torino, con l’opera: “Ritratto di contadina”. Il Grosso che era chiamato il “Despota della pittura” ma che era sempre prodigo di consigli verso i suoi allievi considerati più meritevoli lo invitò a dedicarsi alla natura morta e Pippo accolse l’invito del maestro, diventando così un bravo naturamortista, pur non disdegnando il ritratto e il paesaggio. Diplomatosi con merito dopo sette anni di studio, per mantenersi dipinse su ordinazione: sopra porte, paesaggi, ritratti spesso ricavati da fotografie ed eseguì lavori di restauro e opere di decorazione. Luigi Morgari (Torino 1857 -1935) appartenente a una famiglia che da quattro generazioni era dedita alla pittura e all’affresco, lo volle con sé nei suoi “tour” di lavoro in tutto il Piemonte: furono questi i suoi primi veri guadagni. In una lettera all’amico Matteo Olivero, sicuramente prima della grande notorietà acquisita da quest’ultimo, scrisse: “Carissimo Matteo, spero che di salute starai ottimamente come pure tua mamma. Non ti domando dell’arte perché quella va quasi sempre male”. Nel 1915, alla non più tenera età di quarantadue anni, convolò a nozze con Caterina Caramagna (sua compaesana) fissando il domicilio a Torino in corso S. Maurizio. Da questa loro unione nasceranno nel 1915 Elena Lenci (Lencina) e nel 1922 Francesco (Franco). Alla Promotrice di Torino, dove aveva esordito nel 1907, ritornò nel 1920 con Funghi; Natura morta (tre studi); Fiori e frutta; Ampolle e uva. Nel 1922 con “Natura morta”, concorse al Premio Antonio Fontanesi col n° XL. Da quel momento fu sempre presente sino al 1941, esponendo le sue nature morte che si estrinsecavano in fiori, uva, mele, meloni, cavoli, rape, fragole, funghi, peperoni, cipolle; in sostanza tutti i frutti dell’orto e del frutteto erano rappresentati e poi scarpe spesso spaiate, vecchie valige di cartone, bronzi di cucina, terrine e pentolame di ogni genere. In proposito, Michele Berra su Cuneo Provincia Granda n° 3 del 2005, scrisse: “I soggetti e la tematica delle sue opere, sono apparentemente ripetitivi, se non intervenisse la personalità che distingue sempre l’artista (…) Questa personalità, Filippo l’acquisì man mano, lavorando con gioia e assiduità fino a impadronirsene con esecuzioni semplici e sincere, ma colme di umori e profumi che solo la sua terra, così intensamente amata sapeva emanare”. A proposito delle sue nature morte, soleva dire: “…Io sono un pittore fortunato: per i miei soggetti non ho neppure bisogno di uscire di casa e quando li ho dipinti, posso pure mangiarmeli”. Al Circolo degli Artisti di Torino, risultano soltanto due presenze: la prima nell’esposizione del 1915/1916 con “Paesaggio” e l’anno successivo con l’opera “Fiori e frutta”. In quegli anni fu più volte a Roma, ospite del signor Fasola di Bra, proprietario della Zizzola: un edificio a pianta ottagonale, disposto su due piani con al centro una torretta, posto sul colle di Monteguglielmo il più alto della città; edificio che oggi é il simbolo della stessa. Il signor Fasola lo presentò a ministri e uomini di cultura, i quali divennero subito suoi estimatori. Nel 1925, allestì una “personale” a Chianciano Terme, dove visto il successo ottenuto ritornò l’anno successivo. Nel 1926 all’Esposizione Provinciale di Belle Arti di Cuneo, tenutasi sotto il patrocinio della Camera di Commercio, ai fratelli Vacchetti fu riservata la sala n° V. Pippo fu presente con sei Nature morte e un paesaggio, il fratello Emilio con cinque dipinti di fiori (sua specialità) tre Interni e Bambola, mentre il più giovane dei Vacchetti, Sandro fu presente con tre paesaggi: Cascata; Notturno; Champoluc e un dipinto di figura titolato: Pensiero triste. Sempre in quegli anni, un compagno d’Accademia, un certo Sartori di Varallo Sesia, lo invitò a esporre in quella città, le tavolette appena eseguite, con la gioia per il nostro artista di vederle tutte vendute. Nel 1928 alla Promotrice di Torino, presentò due opere titolate: “Mele” a catalogo col n° 15 e “L’eredità di papà” a catalogo col n° 18, entrambe vendute a mille lire cadauna. Non ostante la pittura fosse in cima ai suoi pensieri, il tarlo della recitazione lo rodeva spesso. Rileggiamo quanto il figlio Franco scrisse in proposito: “…Non era infrequente il ritorno all’antica passione per il teatro, tanto che nel 1932 chiamato dal Direttore della Compagnia Stabile Torinese, Umberto Mozzato, si esibì con successo per quaranta serate di fila nel monologo: “El Tenor ed Busca” (Il Tenore di Busca) sul palcoscenico del Teatro Rossini, dove stava muovendo i suoi primi passi artistici Erminio Macario”. Come tutti gli attori comici anche Pippo soffriva spesso di malinconia. Il figlio Franco, ricordava in uno scritto titolato: “Pippo Vacchetti, vita da Artista” che con se stesso era spesso autocritico, malinconico e qualche volta amaro. In un diario personale datato 1903 si legge: “Spesse volte ho tanta tristezza nell’anima che a smaltirla mettendola in forma più o meno letteraria sulla carta, sarà certamente di sollievo”. Il dramma della IIa Guerra Mondiale lo fece ancora più triste e in una lettera all’amico poeta Nino Costa scrisse: “…Amo ancora i bambini, gli animali, gli alberi e i fiori ma non posso più amare gli uomini”.
Filippo Vacchetti - Bronzina terraglie e peperone - Bra, collezione privata.
Nel 1942 i bombardamenti su Torino, spinsero la
famiglia a rifugiarsi definitivamente a Carrù. Per i postumi di una nefrite
forse malcurata, sofferta in gioventù, la sua salute si fece precaria tanto da
non permettergli più di muoversi nel suo paesaggio amato. Gli ultimi tempi li
trascorse a letto tra sofferenze che lui riusciva a nascondere, concedendosi
brevi battute o recitando lazzi e facendo così ridere i suoi preoccupati
famigliari. Leggiamo ancora quanto scrisse il figlio Franco, circa la morte del
genitore; quasi un bollettino: “L’otto luglio del 1945, alle dieci del mattino
Pippo Vacchetti, mio padre, si spense nel letto e nella stanza in cui aveva
visto la luce settantadue anni prima. Fino alla sera precedente aveva ancora
fatto ridere amici e parenti con l’imitazione, i tic e i borbottamenti
dell’infermiera di notte. “L’è la rua c’a gira” (è la ruota che gira) era solito
dire”. In collettive oltre che alla Promotrice di Torino e al Circolo degli
Artisti, fu presente a Genova, Milano e Roma. Oggi, quando le sue opere appaiono
sul mercato antiquario, sono assorbite dal collezionismo piemontese e in
particolare da quello della provincia di Cuneo. Spirito indipendente, rivendicò
sempre il diritto alla libera ispirazione, non soggiacendo mai a vincoli di
sorta. Cantore di un mondo semplice, dipinse gli oggetti del quotidiano, i
frutti della terra, i volti dei contadini anneriti dal sole e induriti dalla
fatica ed il paesaggio in genere, da quello di Langa a quello dell’arco alpino
piemontese. Flavio Bonardo (sabrotu@yahoo.it)
Bibliografia:
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