Emilio Alessandro Vacchetti - (Carrù (CN) 1880 – 1964)
Emilio Alessandro Vacchetti - Rosa Tea, 1935 - Già mercato antiquario.
Nella seconda metà dell’Ottocento la provincia di Cuneo, ha dato all’arte pittorica diversi bravi artisti che hanno poi raggiunto una buona fama. Nel capoluogo vi nacquero: Guido Meineri, Gigi Brondi e Ottavio Steffenini, che fecero le loro fortune tra Genova e Milano; ad Acceglio Matteo Olivero, un maestro del divisionismo; a Bra Giovanni Piumati, uno dei primi allievi di Fontanesi; a Murazzano Langhe Giuseppe Cerrina, pittore appassionato e critico d’arte; ad Alba Giovanni Rava, pittore a tutto tondo e definito da Rosanna Maggio Serra: pittore di montagna; a Barge Romolo Bernardi, che fece parte dei “Venticinque della campagna romana” e nel suo periodo romano fu consigliere artistico della Regina Margherita; a Centallo Giovanni Galfrè, forse il meno conosciuto ma artista di grande caratura; nel piccolo paese di Roccabruna Giovanni Lavalle, paesaggista e ritrattista di qualità; ma il record spetta ad un piccolo paese che dall’alto del suo costone, s’affaccia sulle Langhe quasi come un’enorme porta spalancata, il suo nome è Carrù e lì vi nacquero i conosciutissimi fratelli Vacchetti: Pippo, Emilio e Sandro che in forme diverse manifestarono la loro arte.
Emilio Vacchetti, all’anagrafe Emilio Alessandro, nacque a Carrù, il giorno 11 febbraio 1880, sestogenito di Giuseppe e di Francesca Beccaria. Terminate le Scuole Elementari, si trasferì a Torino andando ad abitare presso il fratello maggiore Ignazio che già viveva colà, e trasferendosi poi negli anni successivi, presso il fratello Pippo che giunto in città, aveva iniziato a frequentare i corsi dell’Accademia Albertina di Belle Arti. A Torino, Emilio frequentò le Scuole Tecniche arricchendo il suo bagaglio culturale. Iniziatosi alla pittura sotto l’entusiasmo del fratello, frequentò i corsi di figura presso l’Accademia Albertina, dove ebbe a guida: Paolo Gaidano e Giacomo Grosso. L’ambiente artistico torinese fu una robusta costola sulla quale s’innestò la voglia e la capacità d’esprimersi di Emilio. Per pagarsi le lezioni, andò a lavorare come apprendista litografo da Salussolia e in seguito da Doyen, specializzandosi nella tecnica cromolitografica. Attratto dalla caricatura, divenne collaboratore del “Pasquino” e del “Numero” giornali umoristici dei quali era grande animatore il più giovane dei fratelli Colmo: quell’Eugenio soprannominato “Golia” per la sua statura. I suoi fogli erano firmati: “Miliass” (Emilio in piemontese dispregiativo) o “Barot” (pertica) poiché giovanissimo, era alto e magro; soprannome che gli era stato affibbiato dall’amico di famiglia Matteo Olivero, verso il quale egli nutrì sempre grandissima stima e mantenne rapporti di grande amicizia. Agli inizi del novecento, assieme al fratello Sandro lavorò per il cinema, realizzando oltre quattrocento manifesti. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, riprese a lavorare come litografo e pittore, realizzando studi d’interni. Il 23 aprile del 1919 in Torino, Enrico Scavini depositò il marchio: “Ludus Est Nobis Costanter Industria” disposto in un cerchio, il cui acronimo “Lenci” fu depositato il 22 luglio 1922. L’azienda sita al n° 5 di via Marco Polo, produrrà giocattoli in genere, mobili, arredi e corredi per bambino. Nacque così il panno Lenci che ben presto divenne famoso per le sue bellissime bambole. Nel 1926 l’azienda inserì a catalogo i fiori in feltro Lenci e l’anno successivo le figure in ceramica, che ben presto divennero ancora più ambite. Emilio, lasciò la Doyen e assieme al fratello Sandro e alla sorella Lina, entrò a far parte del gruppo Lenci dove col tempo ottenne la nomina a Capo del reparto “Pittori di ceramica”. Lì ebbe modo di conoscere diversi pittori (operatori estemporanei) che negli anni successivi furono tra i protagonisti del Novecento; basti citare Giovanni Grande, Giovanni Riva, l’inespresso Gigi Chessa, Giulio Damilano, Massimo Quaglino, Teonesto Deabate e Mario Sturani che Cesare Pavese aveva definito: “ Il mio fratello maggiore”. Nel 1924 fu presente per la prima volta alla Promotrice di Belle Arti di Torino con l’opera: “Sola”; tornerà dopo una lunga pausa nel 1932 con “Anemoni” e “Fresie” e di lì in poi sarà sempre presente sino al 1941. Nel 1928 condusse all’altare una sua compagna di lavoro; l’austriaca Susy Sontag, di ben vent’anni più giovane, che in azienda era specializzata in decorazioni di ceramica e corrispondente con l’estero avendo conoscenza delle lingue tedesco e francese. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, sull’esempio dei fratelli Pippo e Sandro, anche Emilio con la sua Susy (dalla quale non aveva avuto figli) fece ritorno al paese d’origine, e libero da vincoli riprese a dipingere i suoi soggetti preferiti.
Emilio Alessandro Vacchetti - Anemoni, 1934 - Bra, collezione privata.
Emilio Alessandro Vacchetti - Margherite - Bra, collezione privata.
Il suo animo sensibile e gentile si estrinsecò così in composizioni floreali delicatissime e vivide nel colore, dove il riscontro tecnico-poetico, lo fece apprezzare maggiormente ai suoi estimatori. Per oltre un trentennio, espresse i suoi sentimenti dipingendo fiori, da quelli degli orti paesani ricchi di rose, dalie, zinnie, ortensie, fresie, bocche di leone, a quelli umili dei campi, verso i quali mostrò una particolare predilezione. Ernesto Billò, in proposito scrisse: “…Non mazzi pomposi, non ikebana pretenziosi. Qualche corolla, un po’ di verde, il velluto cangiante di minuscole viole del pensiero, il rosso dei papaveri nell’oro del grano.(…) Una rosa ancora in boccio e un’altra rigogliosa ma già presaga del suo inevitabile sfiorire”. Emilio, spesso soleva dire: “La gente dice che dipingere non è un lavoro: ha ragione, non è un lavoro ma un piacere”. Leggiamo anche quanto scritto da Lorenzo Mamino: “Nei fiori dipinti tra le due guerre, aveva dato prova di perizia nel presentare rose, acque e trasparenze, ombre di petali e di vasi sul piano, macchie e decori di tovaglie e tende. Negli ultimi anni della vita fu invece impegnato a provare che si poteva anche fare a meno di molti espedienti tecnici e di molte regole compositive, semplificando, anche senza contorni, anzi con mescolanza di colori e di forme: seguendo la memoria più che l’occhio, serbando il ricordo di fiori visti e confondendoli con i fiori che erano sul tavolo”.
Emilio Alessandro Vacchetti - Composizione floreale - Bra, collezione privata.
Anche il Castellettosi espresse benevolo nei suoi confronti, scrivendo: “…Dipinse fiori con tocco leggero e delicato, lasciando scorgere nei suoi quadri, il tormento dell’artista che, aspira ad una dolce poesia cromatica”. A guerra conclusa, ormai sessantacinquenne, Emilio si dedicò esclusivamente alla pittura con la serenità e tranquillità che gli concedeva il borgo natio, tra amici ed estimatori, concedendosi rade esperienze espositive a Mondovì e Cuneo ma che non andavano oltre i confini della provincia. La morte lo colse nel dicembre del 1964, alla veneranda età di ottantaquattro anni. Ricordandone la memoria, la nipote Elsa Barbara Vacchetti, scrisse: “Tra i Vacchetti era quello con il carattere più delicato e modesto: non era brillante come Pippo, non era sicuro di se come Sandro, forse si sentiva un po’ inferiore ai fratelli, ma era il più sensibile e intellettualmente il più aperto”. Oltre ai fiori, dipinse paesaggi e ritratti con grande abilità. In Torino, espose alla Società Promotrice delle Belle Arti, al Circolo degli Artisti e alla Società Amici dell’Arte. Un suo dipinto dedicato alla Vergine Maria, è conservato presso la parrocchiale di Pradleves.
Flavio Bonardo (sabrotu@yahoo.it)
Bibliografia:
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