Marino Sormani (Trieste 1926 - 1995)

 

 

Ad Aurisina, dove era nato nel 1926,  i suoi nonni avevano cave di pietra; fu l’infanzia a suggerirgli i futuri soggetti della sua pittura.

I cortili delle case del paese, i viottoli stretti, i pozzi chiusi da grate arrugginite, gli archi dei portali, i gelsi o gli alberi di cachi destarono il suo interesse di pittore.

Altre opportunità visive (la ferrovia, le cave) ricevette da ragazzo ad Aurisina e dal paese scendendo verso il mare lungo il ripido e profumato ciglione carsico.

Da lì ammirò le barche nei piccoli ripari.

Percorsi che piacquero anche a Giovanni Brumatti e a Luigi Spacal.

Ragazzo s’iscrisse all’Istituto Nautico, ma capì presto d’aver scelto frettolosamente e male.

Nel 1943, con altri giovani sventurati si trovò nel campo di concentramento di Spittal da dove ritornò faticosamente a piedi dopo un anno. Nelle baracche del campo si ammalò e quando fu ricoverato in sanatorio incominciò a disegnare.

Nel 1948 s’iscrisse alla scuola di nudo del Museo Revoltella: impartiva lezioni Edgardo Sambo. Seguì il corso in compagnia di Mariano Cerne, un allievo “speciale” e Rosignano del quale rimase amico per tutta la vita. Tra il 1949 e il 1952 Sormani, “trascinato” dallo scultore Celo Pertot suo amico d’infanzia, raggiunse l’Austria per studiare pittura: era allora conveniente, da un punto di vista economico, recarsi là anziché in Italia a Venezia, Firenze o Roma. Frequentò l’Accademia di Belle Arti di Vienna dove studiò con il professor Elsner e conobbe gli artisti Hundertwasser, Fuchs, Decleva.

Nella capitale asburgica non si diplomò, ammirò soprattutto i capolavori di Egon Schiele e i fondi d’oro di Gustav Klimt; ritrovò Claudio Cernigoi e con lui raggiunse la Svezia.

Come? In autostop, naturalmente!

Pieni di speranze, i due compagni, nell’avventuroso viaggio, arrivarono a Stoccolma.

Con l’aiuto di Celo Pertot che da un po’ di tempo si era stabilito nella spendida capitale, ma soprattutto con quello più concreto di qualche autorevole rappresentante dell’Ambasciata Italiana, riuscirono pure ad esporre i loro rispettivi lavori.

Dopo aver viaggiato fino al Circolo Polare Artico e più nord delle isole Lofoten per ammirare l’aurora boreale, i due pittori rientrarono in Italia.

Il ricordo di questo fenomeno singolarissimo rimase nella memoria di Marino per tutta la vita. Globetrotter li definì qualcuno in città.

Risalgono agli inizi degli anni Cinquanta le prime mostre personali di Sormani, la partecipazione a quelle collettive e l’incontro con Dino Predonzani.

Il professore gli insegnò raffinate tecniche e a lui Sormani dovette molti impareggiabili consigli soprattutto per la composizione della tempera all’uovo alla maniera dei trecentisti, ma non solo per quelli.

Nel frattempo si legò ad artisti che ruotavano attorno alla Galleria dello Scorpione (sita in via San Spiridione all’angolo con via Ponchielli) che erano soliti andare nei medesimi locali, nelle stesse sale, nei teatri nei cinema e … nelle osterie di Trieste.

La frequentazione di scrittori, giornalisti, letterati, attori, orchestrali del Verdi, gente di teatro fu avvincente in modo reciproco in quegli anni.

Paolo Bernobini, Cerne, Claudio Cernigoi, Sabino Coloni, Ugo Guarino, Carlo Hollesch, Sigfrido (Sigi) Maovaz, Rosignano, Carlo Giorgio Titz e Sormani s’incontravano abitualmente al bar: C. C. (familiarmente chiamato Cicci) diretto da D’Osmo.

Altre mete preferite furono il bar Astoria di fronte la Chiesa di Sant’Antonio, il caffè Stella Polare (dove sostavano i più anziani Brumatti e Guglielmo Samuel), la Latteria Svizzera in Viale XX Settembre, il Chianti Fossi e gli antri della Taverna Murago di Piazza Goldoni.

Il 1955 fu fondamentale per la vita di Sormani: si recò a Parigi dove visitò musei, gallerie d’arte, studiò e dipinse numerosi scorci cittadini; in quegli anni lavorava con i colori ad olio su tela e li stendeva pastosi. Le sue tinte erano forti, decise, prive di chiaroscuri, d’ombre. Velature? Neanche per idea!

Era ancora alla ricerca di uno stile quando, nello stesso anno, sposò la bellissima signora Edda che gli fu accanto per tutta la vita, lo ammirò, lo comprese e contribuì a creargli un entourage di collezionisti affezionati e di sostenitori.

La frequentazione di Oreste Dequel e Rosignano fu decisiva per alcune sue scelte: essi gli suggerirono di dipingere su formati diversi, su lunghe tavolette orizzontali.

Per Sormani fu una scelta fortunata; egli fu sempre grafico più che pittore in senso stretto e uno spazio del genere, un rettangolo allungato, gli offriva brillanti e continue soluzioni.

Molti quadri stretti e lunghi finirono negli appartamenti dei triestini ma anche nelle case dei friulani e dei veneti sopra le cassapanche che erano ritornate di moda.

Come già accennato, Marino passò dai colori ad olio alle tempere: la sua pittura divenne più sobria, più chiara, il segno più ricercato, variabile e minuto.

I cromatismi si attenuarono e ciò esaltò le architetture e le geometrie dei suoi lavori: barche sui moli o nell’acqua di piccoli porticcioli, cave di pietra con le gru, fari sperduti, spiagge con qualche capanno e solitari ombrelloni, antenne e pali elettrici, carrozzoni di zingari, trattori, treni e vagoni sui binari, ma soprattutto carretti di gelati e biciclette divennero i soggetti abituali.

Nel 1983, intervistato da Annamaria Tiberi, disse:

 

Non ho cominciato a dipingere da bambino, ma più tardi, per una scelta precisa. Come avviene quasi sempre, si comincia per gioco, poi si fa seriamente. Il fatto è che la mia pittura non esce di getto, ma richiede una certa ricerca, una certa lucidità: il lavoro più duro per me è quello di “pensare” il quadro. Il mio fare spiagge deserte è qualcosa di insito in me, devo e voglio farle. Certe cose piacciono anche senza che lo vogliamo. Dipingere in un certo modo dipende dall’educazione, dalla cultura, dalle esperienze, c’è in questo qualcosa di imponderabile.

 

Sormani non produsse molto perché ogni suo dipinto richiedeva tempi di esecuzione lunghi e il numero limitato dei suoi dipinti, già ora difficilmente reperibili, farà alzare senza dubbio, in futuro, le quotazioni del mercato.

Il fatto stesso che del pittore non si vedano disegni eseguiti con matite tenere o grasse, con i carboncini ad esempio, rivela inderogabilmente il fatto che egli fu sempre e in ogni modo affascinato dai segni secchi, precisi, incisivi; freddi all’apparenza forse, ma personalissimi e facilmente riconoscibili una volta visti.

Solo il lapis e il pennino di una stilografica sulla carta si adattavano al suo disegno!

Le punte acuminate o altri strumenti simili gli furono indispensabili per incidere con certosino lavoro le lastre e le tavole.

Grafie ricche di sentimento, intendiamoci, perché la chiave di violino, il quaderno musicale di tutta la sua pittura, ha un contenuto ricercato, pulito, originale e rispettabilissimo.

I suoi dipinti introducono brani interpretati magistralmente e temi diversi: paesaggi, marine, nature morte.

Sormani dipinse sempre pochi oggetti essenziali come fece Giorgio Morandi: lampade di barche o di ferrovieri, un orologio a sveglia, un sassofono, una tromba, una rosa, un vaso di gerani, un pacchetto pronto ad essere regalato, un divano, una matita, una penna su una tovaglia a scacchi ecc.

Capì in sostanza che anche un oggetto banale estrapolato da altri, ha una “storia”, può essere interpretato, amato, può diventare simbolo, astrazione e infine protagonista di un dipinto “povero” solo in apparenza.

Ecco che l’artista, pur potendo ammirare dalla finestra e dal balcone della sua abitazione di via Verniellis l’ampia e bella conca di Roiano e il mare, vide soggetti interessanti e unici a due passi da lui nel soggiorno, in cucina, nelle camere.

Verso il 1956 o 1957 si dedicò alla puntasecca e s’interessò di teatro: operò come scenografo dapprima aiuto di Marcello Mascherini, poi autonomamente.

Realizzò le scene di I giorni della vita di Saroyan, di Inquisizione di Diego Fabbri quelle per Il corrierino, Il corrierino II; dipinse anche le scenografie de Le avventure di Fiordinando di Furio Bordon e de L’ultimo de Carneval.

Per il teatro “La Contrada” di Ariella Reggio e Orazio Bobbio eseguì in anni più recenti gli scenari di Un biglietto da mille corone (1987) e di Due paia di calze di seta di Vienna (1992) commedie di Carpinteri e Faraguna.

Intanto negli anni Sessanta il gruppetto d’amici abituali scelse il bar Moncenisio di Via Carducci per esporre opere di piccolo formato e Sormani “lasciò intravedere una sua evidentissima personalità” (“Per Marino”, Rosignano 1997).

Giulio Bosetti, Brumatti, Dino Dardi, Dequel, Decio Gioseffi, Robert Hlavaty, Mario Lannes, Giorgio Negrelli, Serge Reggiani, Miranda Rotteri, Sambo, Lino Savorani, Tomizza, Demetrio Volcic e Gian Maria Volontè furono suoi interlocutori e sostenitori alla fine degli anni Cinquanta prima della sua esperienza milanese.

Sormani e Rosignano trovarono due modeste stanze con una cucina a Baseggio nell’interland: se il danaro (che in genere scarseggiava) era talora disponibile, si recavano a pranzo o a cena nella trattoria delle sorelle Pirovini.

I due pittori lavorarono duramente, frequentarono Brera, le gallerie milanesi ricche di novità nelle quali esponevano celebri artisti, conobbero Carlo Carrà e lo scultore Umberto Milani: forse nel mitico bar Giamaica!

A Milano si radunarono di frequente con Luciano Budigna, dirigente RAI, giornalista e critico ben introdotto e con Garibaldo Marussi, fondatore e direttore responsabile della nota rivista “Le Arti”.

Nel capoluogo lombardo Sormani riuscì ad esporre nella Galleria del Mulino, ebbe consensi da parte della critica e si adattò meglio del compagno al clima generale, ai ritmi della metropoli, alla lontananza da casa.

Rosignano ebbe una depressione e se n’andò lasciando Marino in difficoltà: sostenere un doppio affitto gli fu impossibile e dovette trovare un’altra sistemazione.

Con testardaggine il caparbio triestino continuò l’esperienza milanese, trovò una stanza in via Gustavo Modena e si mantenne lavorando per agenzie pubblicitarie; lo fece quasi con produzione industriale ma la figura costituì sempre per lui un duro ostacolo da superare.

Racconta Rosignano:

 

Andai a trovarlo dopo sei, sette mesi e mi sorpresero i tanti quadri che aveva dipinto, alcuni di notevole dimensione. Almeno una decina a me sembrarono dei capolavori. Rimasi ammirato e glielo dissi. Aveva raggiunto in quelle tavole uno straordinario equilibrio musicale, nel rapporto tra il colore e il disegno. Quadri ben architettati dai toni bassi di ocre e verdi marci, dolcissimi. (…) Basterebbero quei quadri, che adesso saranno chissà dove, a giustificare la vita di un artista.”

 

Sormani tornò a casa con convinzioni rafforzate, forse più sereno e tranquillo per aver almeno tentato coraggiosamente una via diversa.

La famiglia aumentò ed egli dovette fare altri sacrifici per guadagnare.

In seguito, oltre che dipingere nello studio di via Felice Venezian (che aveva sostituito quelli precedenti di via Giulia e di via Piccolomini) curò la decorazione di navi e l’atrio di qualche edificio.

Si dedicò a diverse tecniche grafiche e alle illustrazioni di libri e riviste; creò degli acquerelli per qualche racconto di Tomizza, realizzò cinque incisioni ispirate a Il Mio Carso di Scipio Slataper, illustrò il romanzo di John Le Carrè La talpa e nel 1980 il racconto di Quarantotto Gambini La traversata.

Collaborò con “Il Meridiano”, “Umana” e con il bollettino dell’Italsider.

Vanno almeno ricordate le sue mostre personali importanti a Milano, Novara, Torino, Bruxelles, Udine, Venezia, Padova, Vienna, Salisburgo, Savona e Genova e a Trieste presso varie gallerie.

Sormani è morto a Trieste nel 1995.

Dal 16 ottobre al 16 novembre del 1997 una mostra antologica occupo' la sala di Palazzo Costanzi.

In quell’occasione furono esposti straordinari dipinti e grazie all’intervento dell’Assessorato alla Cultura del Comune, fu pubblicato un bel catalogo con testi di Molesi, Rosignano e Tomizza.

 

 

Walter Abrami