Dolores Del Giudice
Felice Carena (Cumiana 1879 - Dorsoduro 1966)
Felice Carena nasce il 13 agosto 1879 a Cumiana, presso Torino, da una famiglia di piccola borghesia. I genitori incoraggiano la sua propensione alla pittura facendolo studiare all’Accademia Albertina di Torino, dove segue i corsi di Giacomo Grosso, pittore alla moda e ritrattista della buona società torinese. L’influsso del maestro è visibile nel primo dipinto esposto alla Promotrice del 1899, L’erbivendola (studio), risolto mediante un realismo scrupoloso e attento. Sintomi di insofferenza per gli insegnamenti accademici si manifestano dopo il primo viaggio a Parigi: è il 1900 quando visita l’Esposizione Universale e rimane impressionato dall’Olimpia di Manet e dal misticismo di Monet, come pure destano la sua attenzione le opere di Carrière, Degas Whistler e la scultura di Medardo Rosso. Ad orientarlo verso nuovi ideali pittorici contribuì inoltre la frequentazione dell’ambiente intellettuale e letterario della città (Giovanni Cena, Arturo Graf, Enrico Thovez, Leonardo Bistolfi), impregnato di socialismo umanitario e di spiritualismo, che lo avvicina alle istanze simboliste in atto. Alla Promotrice del 1901 risulta leggibile una raffinatezza formale di stampo decadente in Autoritratto (studio), Signora in bigio, Ritratto di signora, che lasciano intuire un’attenta lettura dei modi di Ranzoni e Whistler. Del tutto concorde è la critica nel riconoscere l’influenza di quest’ultimo nel dipinto Mia madre, esposto alla Promotrice del 1902, ricercato nello stile e dai contenuti fortemente idealistici. L’anno successivo l’impronta simbolista nella sua pittura si palesa chiaramente all’esposizione torinese con Centauri e il dittico L’Annunzio: nel primo quadro è probabile che Carena si ispiri al disegno omonimo di Previati, esposto alla Biennale del 1901, mentre il secondo manifesta con chiarezza la conoscenza delle Maternità di Segantini e Previati (sia nello stile sia nella posa delle figure), nonché del preraffaellismo inglese. E ancora alla tecnica e all’iconografia di Segantini rimandano il dipinto Maternità (datato 1909, ma attribuito da Benzi al 1903) e il disegno la Madre del 1903, pubblicato sulla rivista «La Riviera Ligure». Nel 1905 Carena vince il Pensionato Artistico Nazionale di Roma (classe di pittura), presenzia alla Promotrice di Torino con due opere, Ritratto dello scultore Bassano e Convalescente, ed illustra il romanzo Sogno d’un genio di Ugo Valcarenghi: dieci vignette a chiaroscuro di piccolo formato che attestano la conoscenza della prima attività di Carrière come litografo. Nel 1906 ottiene definitivamente il Pensionato e si trasferisce a Roma, mettendosi in evidenza per l’elaborazione del tutto individuale del simbolismo, caratterizzato da uno stile sfumato e dal pathos sottilmente morboso dei soggetti: «la poetica careniana si dipana […] accentuando un’ interpretazione sensuale e sottilmente morbosa della realtà, al centro della quale si pone la figura umana colta in atteggiamenti psicologici ora morbidi, ora magnetici, o drammatici, in cui la materia acquista sontuose sfumature e preziosismi inesausti». L’artista di riferimento in questo momento è Carrière, la cui opera però viene rivisitata in chiave del tutto decadente come appare nel Ritratto della sorella 1906. Compie numerosi viaggi di studio in Europa (Parigi, Basilea, Monaco) ed entra a far parte del mondo culturale romano, ove frequenta un gruppo di intellettuali e artisti di ispirazione umanistico-socialista, Balla, Cambellotti, il barone Augusto Ferrero e Alessandro Marcucci. Nel 1909 espone alla Biennale di Venezia i due quadri Vittoria e il monumentale Viandanti; quest’ultimo è interessante in quanto documenta l’adesione di Carena ad un’arte impegnata, di vocazione umanitaria più che socialista. Nel 1910 è oramai un artista di certa fama, come testimonia la personale organizzata nell’ambito della Mostra degli Amatori e Cultori di Belle Arti di Roma; le opere esposte ottengono largo consenso presso la critica, che annovera l’artista come «uno dei giovani più interessanti della sua generazione». Infatti ciò che rende peculiare la sua poetica è la predilezione per immagini vere (non simboliche), come le nature morte, i paesaggi, le madri coi bambini, che trasfigura e sublima con una luce soffusa e ideale, nonché mediante un’interpretazione interiorizzata del dato reale. Tuttavia sarà la sala personale allestita alla Biennale di Venezia del 1912 a consacrarlo come uno massimi pittori del suo tempo, le ventuno opere qui esposte sono tra i migliori esempi, ma anche gli ultimi, del simbolismo decadente «morbosamente estetizzante» di Carena. L’anno successivo attua una svolta nel suo linguaggio pittorico dettata da un’ansia di rinnovamento, che lo porta ad aprirsi verso un’arte di timbro internazionale, guardando ai secessionisti mitteleuropei e al post-impressionismo francese. La rottura netta con il simbolismo che lo aveva reso celebre è tale da suscitare sgomento e rifiuto tra la critica: un dipinto gli verrà rifiutato alla Biennale del 1914 perché eccessivamente innovativo rispetto al suo consueto modo di esprimersi. Organizza nel 1913 la prima mostra della Secessione romana, dove espongono giovani artisti antitradizionalisti, impazienti di sottrarsi al conformismo delle esposizioni ufficiali degli Amatori e Cultori, e moderni pittori francesi ancora poco noti in Italia: Bonnard, van Dongen, Matisse e molti altri. Carena è presente con due opere, I re magi e Studio di nudo, indicative della trasformazione stilistica in atto: forme sintetiche di un primitivismo corposo ottenute mediante paste ricche e spesse, sostituiscono ora lo sfumato sensualismo della sua prima maniera e attestano la conoscenza della lezione di Cézanne e Matisse. Nel 1914 viene invitato alla Biennale di Venezia, espone due Nature morte e il grande Nudo; quest’ultimo, duramente criticato dal segretario generale della manifestazione, sarà ritirato da Carena che in una lettera difende la libertà di intraprendere una nuova ricerca. A partire dal 1915 emerge nella pittura careniana un sintetismo gauguiniano visibile nei ritratti femminili e paesaggi che realizza durante un soggiorno estivo ad Articoli Corrado, paese del Lazio arcaico e semplice che diverrà il suo rifugio creativo negli anni a venire: «[…] creature semplici, […] le donne hanno i lineamenti marcati da un esotismo straniante. Carena fornisce le forme in volumi composti, solidi, che già lasciano presagire uno sviluppo nel plasticismo novecentesco». L’accensione cromatica e le forme “sintetiste” di derivazione francese (fauve, nabis, cubismo) affiorano vistosamente nel gruppo di opere esposte alla mostra della Secessione romana, due di queste, Cinerarie e Ventaglio verde, vengono acquistate da Ugo Ojetti. Dopodiché Carena parte per la guerra e la sua intensa attività lavorativa si arresta bruscamente; solamente nel 1919 l’artista presenta alla Promotrice di Torino i risultati di una nuova ricerca pittorica che si esplica in un personale “ritorno all’ordine”, conforme al clima artistico italiano del dopoguerra. I quadri in mostra, Contadini al sole, Interno, Natura morta, sono costruiti mediante un vigoroso plasticismo, sostenuto da una pennellata di matrice cezanniana e definito da un linearismo incisivo e continuo che riprende il sintetismo di Gauguin. La personale rivisitazione dell’antico si riscontra nelle tele esposte alla prima Biennale romana del 1921, dove campeggiano un gruppo di natura morte dalle forme semplificate, dai piani obliqui, definite da una «luce caravaggesca», fonte di ispirazione per i giovani pittori romani quali Socrate, Trombadori, Oppo e Donghi, che andavano sperimentando un realismo magico e visionario. Pur riconoscendogli una comprovata perizia pittorica, la critica del tempo coglie con un certo stupore le ricercate deformazioni careniane «[…] Questo artista che ha molto talento e molto gusto, oltre a molta facilità assimilatrice, lo vedo con sincero dispiacere intento ad uno studio accurato per deformare e storcere uomini e cose. […] Le attuali sue Aringhe, i suoi Tulipani, i suoi Zucchini, il suo Giacinto Bianco, pur stando di traverso su tavole che danno un poco le vertigini, testimoniano la sua robusta fibra di pittore. E così anche il gruppo dei Contadini visti come in uno specchio convesso». Per quanto concerne il recupero del passato, Carena si interessa e guarda principalmente al Quattrocento e al Cinquecento veneto, Bellini, Tiziano, Bassano, Tintoretto, allargandosi fino al Seicento, studiando inoltre il Poussin neo-tizianesco, Caravaggio e Rembrandt; ma si esime dal cadere in una pedante ripetizione dei modelli e degli stili degli antichi maestri, mediante soluzioni espressive del tutto singolari. Nel 1922 apre con Attilio Selva una scuola d’arte frequentata da giovani artisti promettenti: Cavalli, Capogrossi, Pirandello, Martinelli, che pochi anni dopo daranno vita alla “Scuola romana”. Nel medesimo anno espone alla Biennale di Venezia la Deposizione, Il presepe, Quiete, Il porcaro. Nel dipinto la Quiete l’artista abbandona le precedenti licenze stilistiche, mentre soggiace alla monumentalità della tradizione classica. Una devozione per l’antico che tra i molti consensi, non manca di suscitare critiche avverse. Nel 1924 si trasferisce a Firenze dove viene nominato “per chiara fama” professore all’Accademia di Belle Arti, ma continuerà a frequentare l’ambiente artistico romano almeno sino al 1928, durante le sue vacanze estive ad Articoli Corrado. Nell’ambiente culturale fiorentino è ugualmente vitale l’attenzione per l’antico, integrata però da una tendenza al realismo tipicamente toscana. È tra i fondatori della rivista “Solaria”, centro di accesi dibattiti tra letterati ed artisti toscani di tendenza novecentista, dove si professa un’arte classica e “umana”; quest’ultimo aspetto, cioè l’attenzione al contenuto, al dramma, all’umanità nell’opera d’arte, lo ritroveremo nella pittura di Carena verso la seconda metà degli anni Venti. Nel 1926 la grande personale alla Biennale di Venezia, con cinquanta opere rappresentative del suo “ritorno all’ordine” postbellico, lo consacra come uno dei maggiori maestri italiani del tempo. L’attenzione per gli aspetti della vita reale, maturata in ambiente toscano, e l’esigenza di fondere tradizione e dimensione quotidiana nell’arte, fa la sua comparsa alla Biennale del 1928 con il quadro La scuola, che diventa il manifesto di una nuova sensibilità sempre più attenta agli aspetti umani. Nel 1929 una grave malattia lo costringe ad astenersi dal dipingere per un anno intero, orientando poi la sua pittura verso inflessioni sempre più sofferte e drammatiche. Nel 1930 esce la prima biografia dell’artista curata da Antonio Maraini. Nel 1931 vince il primo premio, insieme a Castrati, Soffici e Ferrazzi, alla I Quadriennale d’Arte Nazionale di Roma: le tele esposte rivelano un mutamento stilistico, visibile nelle forme approssimative, nella tecnica grumosa, e nella scelta del piccolo formato. Mentre si intensificano le mostre all’estero, Parigi, Colonia, Kassel, Berlino, dove riscuote grande successo di critica, nel 1933 viene nominato Accademico d’Italia e presidente dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Intanto la ricerca di Carena prosegue in senso antiretorico, verso una pittura espressiva, sofferta, a tratti malinconica. Nel 1940 vince il Gran Premio della Pittura alla Biennale di Venezia, dove troviamo ventitré opere rappresentative del crescente pathos scenico che connota la sua pittura; nella Pietà, realizzata tra 1938 e il 1939, toni altamente drammatici pervadono le figure allungate e scavate alla maniera del Greco. Il mutamento linguistico affiorerà con maggiore evidenza nei risultati espressionistici a cui perviene negli anni Quaranta, tramite la sommarietà del disegno e l’ispessimento della linea di contorno tracciata direttamente con il colore. Nel 1944 la villa fiorentina di Carena viene colpita dalle mine dei tedeschi e il suo studio devastato, i quadri in gran parte distrutti e dispersi. Trova rifugio a Venezia dove opera sino alla morte in risoluta solitudine, realizzando opere tormentate e fortemente espressive, frutto sia di un profondo scavo interiore, sia dell’ascendenza di Kokoschka, presente alla Biennale del 1948, con il quale stringe una profonda amicizia. Forme disfatte, volti consumati e corpi molli, così appaiono i protagonisti delle composizioni careniane degli anni Cinquanta, perlopiù episodi religiosi e nature morte cosparse di teschi, ma non mancano autoritratti, ritratti e nudi. Pennellate gestuali e corrosive rimandano oltre che al pittore austriaco, a Goya e Daumier, nonché ad illustri esempi del passato, come l’ultimo Tiziano e il Tintoretto. La luce inonda i dipinti depauperando i volumi degli oggetti e caricandoli di recondite valenze spirituali, con esiti di un espressionismo baroccheggiante non scevro delle coeve ricerche. Pur rifiutando ogni coinvolgimento con le maggiori tendenze artistiche del dopoguerra in Italia, quali l’astrattismo e il realismo, e perseguendo fedelmente un proprio percorso pittorico, giunge con esiti del tutto personali a conformarsi alle istanze del suo tempo. Espone alle Biennali del 1950, 1954 e 1956, e in numerose mostre in Italia e all’estero negli anni Cinquanta e Sessanta.Nel 1962 dona sessanta disegni alla Fondazione Giorgio Cini, inizio di un nucleo più vasto dedicato alla raccolta di maestri veneziani. L’anno dopo dipinge una Deposizione per la Chiesa dei Carmini di Venezia. L’intensa produzione pittorica si arresta agli inizi del 1966, a causa di un grave disturbo alla vista; il 10 giugno Carena muore nella sua casa alle fondamenta Briati (Dorsoduro), a Venezia. Per sua volontà lascia alla Galleria d’Arte Moderna di Cà Pesaro tre dipinti e venticinque disegni.
Bibliografia: Benzi Fabio, Felice Carena, Torino, Fabbri, 1995. Cavallo Luigi, Felice Carena, Milano, Vangelista, 1994. Dizionario dell’Arte, coordinatore Dossi Eugenia, L’UNIVERSALE: La Grande Enciclopedia Temetica, Milano, Garzanti, 2005.
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