Dolores Del Giudice
Alberto Burri (Città di Castello 1915 - Nizza 1995)
Alberto Burri, Bianco, 1952.
Alberto Burri è uno dei maggiori protagonisti della scena artistica del dopoguerra in Italia, che ha saputo distinguersi portando avanti una ricerca estremamente singolare e rivoluzionaria improntata sullo studio dell’intrinseca bellezza della materia. Nasce nel 1915 a Città di Castello. Nel 1940 si laurea in medicina. Nel 1943 è ufficiale medico in Tunisia dove viene fatto prigioniero dagli inglesi; l’anno dopo è trasferito nel campo di prigionia di Hereford. Determinanti per il suo avvenire sono i diciotto mesi di permanenza forzata in Texas, è qui infatti che dipinge il suo primo quadro Texas del 1915. L’anno dopo è in Italia, si trasferisce a Roma e decide di dedicarsi completamente alla pittura. Esordisce nel 1947 alla galleria la Margherita di Roma con una personale, dopodiché si conclude la breve parentesi figurativa dell’artista. Dal 1948 ha inizio il suo lungo cammino in chiave astratta. Il quadro che ci introduce verso la sua nuova ricerca è Nero 1, 1948, che anticipa e al contempo racchiude le soluzioni estetiche dell’artista. Tra il 1948-1950 accanto alla serie dei Neri, Burri sperimenta i Catrami, dal cromatismo più acceso, e le Muffe, dove usa la tecnica del dripping, entrambi i materiali sono ancora assimilabili per consistenza agli impasti pittorici. Ma ecco spuntare nel mentre il primo sacco. È del 1949 SZ1, quadro che anticipa per alcune risoluzioni formali l’eminente stagione dei sacchi, ma la cui importanza va ben oltre: Burri dispone sulla tela alcuni frammenti di un sacco di juta decorato con le stelle e le strisce della bandiera americana, anticipando così soluzioni stilistiche che saranno proprie del New Dada e della Pop Art. Diversamente da queste tendenze la materia, divenuta protagonista dell’opera, non si ammanta di significati “altri”, bensì si rivela nelle sue qualità plastiche e pittoriche di forma e colore. Ancora precorre ricerche future, quelle della “shaped canvas” americana (letteralmente “tela sagomata”), con i Gobbi, realizzati a partire dal 1950, la cui tela è spinta in avanti mediante dei frammenti in legno o in metallo incastrati nel telaio in modo da creare una sagoma in rilievo. Il 1950 segna la nascita della serie dei Sacchi e l’ inizio di quel processo di nobilitazione della materia volto a scoprire le segrete qualità estetiche dei materiali più banali e poveri. Esemplificative a riguardo sono le parole di Calvesi mentre spiega il passaggio dai Catrami e dalle Muffe ai Sacchi: «[…] Perché usare la pittura o comunque materiali d’impasto per suggerire il fenomeno della materia, quando al contrario si potevano usare materie e addirittura oggetti per suggerire la bellezza della pittura? Nel primo caso, si ha una degradazione, la degradazione caratteristica di molta pittura informale, cioè la degradazione della pittura a materia, a oscura e confusa testimonianza organica, Nel secondo caso, abbiamo avuto appunto con Burri un processo di risalita, che si avverava mentre gran parte dell’informale intraprendeva appena quello di discesa: un processo di risalita dalla muta, squallida presenza della materia e degli oggetti al livello dell’arte come rappresentazione drammatica e regno della bellezza». Tutti i materiali che Burri sperimenterà nel suo percorso artistico sono alterati e violati dall’artista stesso, in tal modo perdono la loro natura inerte e si fanno vivi, carichi a volte di una sofferenza che rasenta l’umano. I Sacchi ora strappati ora rammendati vengono inizialmente mescolati al colore (1950-52), poi i due elementi vengono scissi, e accostando parti della juta a larghe zone dipinte ottiene un’ equilibrata ed armonica composizione: «La pittura deve essere decorativa, cioè deve rispondere a dei canoni di composizione e proporzione» (Burri). Dopo aver firmato insieme a Colla, Capogrossi e Balocco il Manifesto del Gruppo Origine nel 1951, l’anno seguente partecipa alla Biennale di Venezia dove Lucio Fontana gli acquista Studio per lo strappo, nel contempo tiene mostre in molte capitali europee, e a partire dal 1953 Sweeney, direttore del Guggenheim Museum di New York, promuove la sua opera negli Stati Uniti. I sacchi si erano appena imposti agli occhi timorosi degli spettatori e già Burri li sostituisce con stoffe, Rosso 1956, e camicie, Two shirts 1957, generando nuovamente sguardi stupefatti: causati forse dall’incomprensione oppure dalla sorprendente pittoricità dell’oggetto banale? Intanto altri stupori si alimentano dalle nuove sperimentazioni in atto: si tratta delle Combustioni (1957-58), dei Legni (1957-59) e della limitata serie dei Ferri (1958-59). Il fuoco diventa ora il mezzo espressivo prediletto da Burri, la fiamma brucia la carta e il legno plasmando la materia con incisiva violenza e ne determina l’assetto estetico. Nei ferri la materia è tagliata e saldata approssimativamente, le lamiere vengono aperte e ripiegate, e il metallo, più resistente alla fiamma, viene lavorato sulla superficie. Dopo questo ciclo l’artista interrompe l’attività a causa di una grave malattia e di un viaggio in Messico e negli Stati Uniti. Poi di nuovo al lavoro, gli anni Sessanta si aprono all’insegna del “fuoco”, questo antichissimo elemento incontra ora il materiale più artificiale e attuale che esista: la plastica. Nella serie delle Plastiche, la materia facilmente malleabile viene brutalmente alterata dalla combustione, grinze e lacerazioni disegnano crateri e panneggi ed assurgono questa vile materia ad opera d’arte. Inizialmente usa la plastica trasparente, Grande plastica 1 1962, poi passa ai Rossi plastica e Neri plastica, dai toni altamente drammatici, e ottiene una sintesi tra combustioni e plastiche sul finire del decennio con i Bianchi plastica. La prima mostra delle plastiche si tiene alla galleria Marlbourough di Roma, e nel 1966 presenta i Bianchi plastica alla Biennale di Venezia. A partire dagli anni Settanta sperimenta materiali dalla trama più uniforme scelti «nel loro valore di vibranti tonalità e non già nella drammaticità dei loro movimenti» (Calvesi). Le screpolature dei Cretti, che realizza a partire dal 1973, non hanno origine da un atto di violenza ma da un lavoro di grande maestria: sul cellotex, un supporto di truciolato pressato con la colla, viene stesa una spessa mistura di bianco di zinco, vinavil e pigmento acrilico, che asciugandosi si cretta, cioè forma crepe e fenditure; questo processo viene guidato da Burri e arrestato allo stadio desiderato. Realizza due monumentali cretti di m 5 x 15 all’università di Los Angeles (1977) e al Museo di Capodimonte (1978), e nel 1981 ha inizio il gigantesco cretto di Ghibellina in Sicilia. A metà degli anni Settanta il materiale che fino ad ora era stato un semplice supporto diventa l’oggetto di nuove sperimentazioni: il Cellotex impiegato allo stato grezzo, o ricoperto di colore, viene impercettibilmente modificato tramite la raschiatura e l’incisione di forme geometrizzanti, in modo tale da esaltarne le qualità pittoriche. Caratteristica dei Cellotex sono le dimensioni monumentali (col tempo fissatasi in una misura canonica: m 2,50 x 3,60) e l’essenzialità d’espressione: «[…] Burri compone visioni di una straordinaria e maestosa semplicità architettonica» (Calvesi). Intanto il suo successo si consolida attraverso numerose retrospettive: Assisi, Roma, Lisbona, Madrid, Los Angeles e New York. Negli anni Ottanta realizza complessi organismi ciclici, il primo dei quali è Il Viaggio 1979, ciclo di dieci quadri che ripercorrono i momenti più significativi della sua arte, un bilancio del proprio lavoro. Seguono altri cicli: gli Orti 1980-81, consta di nove pezzi realizzati per la Fabbrica di Orsanmichele di Firenze, Sestante 1983, è un polittico in diciassette pannelli di grande impatto coloristico, realizzato per gli ex cantieri navali della Giudecca a Venezia. L’esplosione cromatica di Sestante viene subito messa a tacere nei cicli successivi, emblematici anche nei titoli, quali Annotarsi 1987, Non Ama il Nero 1988, Metamorfotex 1991, dove il nero regna sovrano, mentre cede alle lusinghe dell’oro in Nero e Oro del 1993, concluso due anni prima della morte. Tra gli anni Ottanta e Novanta si concentra l’attività scultorea di Burri, opere monumentali che trasportano in chiave tridimensionale motivi e colori ricorrenti nella sua pittura come l’archinvolto e il binomio rosso-nero, ne sono dimostrazione Grande Ferro K 1982, Sestante 1983, e Grande Ferro Celle 1986. Non va dimenticata la passione di Burri per il teatro, a lui si devono le scenografia per Spirituals 1963, rappresentato alla Scala di Milano, le scene e i costumi per Novembre Steps all’Opera di Roma, 1972, e per il Tristano e Isotta al Regio di Torino nel 1975. La più esaustiva raccolta delle sue opere si trova a Città di Castello. Nel 1978 nella sua città natale Burri crea la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, con lo scopo di promuovere, tutelare, ed esporre le opere, che lui stesso ha donato e selezionato. Tra dipinti, sculture, grafica e bozzetti, sono qui esposte centotrenta opere dal 1948 al 1989. Nel 1990 la Fondazione acquista l’altra sede espositiva degli Ex Seccatoi del Tabacco (nove enormi capannoni industriali completamente tinti di nero), che ospita centoventotto opere dal 1970 al 1993, i grandi cicli pittorici e le sculture degli anni Ottanta e Novanta, donate dall’artista per collocare il primo nucleo collocato a Palazzo Albizzini. Alberto Burri muore a Nizza il 13 febbraio 1995. « […] perché ci sono i miei quadri a parlare per me». (Burri)
Bibliografia:
Serafini Giuliano, Burri, Art Dossier, Giunti Calvesi Maurizio, Percorso di Burri, (brano in Pdf su www.fondazioneburri.org) Sarteanesi Chiara, Fondazione Burri, Milano, Skira, 1999 Pirovano Carlo, Alberto Burri, Milano, Nuova Alfa Editoriale, 1991 Sega Serra Zanetti Paola, Arte astratta e informale in Italia (1946-1963), Bologna, Clueb, 1995
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