Girolamo di Romano detto il Romanino (Brescia, 1485 ca. – 1566 ca.)
Scarse e imprecise risultano essere le notizie relative alla nascita di Girolamo di Romano, che dovrebbe avvenire intorno al 1485 nella città di Brescia, cosí come scarse risultano le informazioni inerenti la sua formazione. Recenti studi hanno comunque circoscritto l’area formativa di questo artista nella Venezia del primo Cinquecento, nel periodo in cui brillavano gli astri di Giorgione e Tiziano: inevitabile che un artista alle prime armi guardasse a questi esempi, e la stesura pittorica e il paesaggio della Madonna col Bambino conservata al Louvre (1506-1507) ne attestano gli studi. Ad ogni modo, Romanino si distingue in questa sua prima attività per la capacità di rivolgersi indifferentemente sia a questa cultura figurativa lagunare, sia a quella milanese, in particolar modo a Bernardo Zenale e a Bramantino, dei quali riprende gli studi prospettici e la monumentalità delle figure, proponendo in taluni casi un’armoniosa fusione di questi elementi (come negli affreschi della loggia di Palazzo Orsini a Ghedi, datati al 1508-1509, o nella Deposizione del 1510). È plausibile che le cause di questi repentini cambiamenti stilistici siano da attribuire o al gusto della committenza o, verosimilmente, agli spostamenti dell’artista: non sembra difatti un caso che, allontanatosi nuovamente dal territorio veneziano, Romanino proponga negli affreschi di San Pietro a Tavernola Bergamasca (1512) la sintesi di quelle caratteristiche lombardo-milanesi accennate precedentemente, retaggio di un presunto soggiorno a Milano l’anno prima. La struttura architettonica della Vergine col Bambino in trono e i santi Giorgio, Maurizio, Pietro e Paolo e offerenti risente indubbiamente della lezione di Leonardo, mentre la violenta accelerazione prospettica e lo spiccato senso illusionistico della scena rimandano a Bramantino, cosí come i giochi di luce e la figura della Madonna in trono, dai panneggi quasi geometrici. Da questi affreschi si puó inoltre notare quella che sarà quasi una costante delle opere successive del Romanino, in particolar modo di quelle degli anni Trenta, ovvero la ricerca in senso espressionistico, quasi grottesco, nella definizione dei volti, memore dell’arte tedesca. Cosí come questo spostamento milanese spinge l’artista ad adottare uno stile figurativamente affine al nuovo ambiente, il successivo soggiorno a Padova (1513) lo riporta sulla strada di Tiziano. Infatti, dopo aver eseguito L’ultima Cena (1513, Padova, refettorio di Santa Giustina), La Vergine col Bambino in trono incoronata da angeli e i santi Benedetto, Giustina, Prosdocimo, Scolastica e un angelo musico (1513-1515, Padova, chiesa di Santa Giustina) e La Vergine in trono fra due angeli e i santi Francesco e Antonio da Padova, il padre Francesco Sanson e i santi Bonaventura, Ludovico da Tolosa e Bernardino (1516-1517, Brescia, chiesa di San Francesco), nelle quali gli elementi lombardi (prospettiva bramantinesca che, nella pala di San Francesco, Romanino associa a orientamenti lotteschi che gli permettono di utilizzare la luce per dare alla conversazione una dimensione piú accalorata e intima) e quelli veneziani si fondono armoniosamente, il bresciano vira decisamente verso una piú netta comprensione dell’arte veneziana, mitigando nel contempo l’espressività dei suoi personaggi. Tra le numerose opere realizzate in questo periodo, la Salomè (1516-1517, “copia” da Tiziano), La Vergine col Bambino e i santi Bonaventura e Sebastiano (1517-1518) e La Vergine col Bambino, i santi Ludovico da Tolosa e Rocco (1517-1518, Duomo di Saló) attestano appieno questa nuova fase dell’artista. Un punto di svolta nell’attività romaniniana è certamente l’esperienza nel Duomo di Cremona (1519), dove ottiene l’incarico di affrescare alcune scene con Storie della passione. In quella che puó essere definita storicamente una città eccentrica Romanino, sulla scia di Altobello Melone, Gian Francesco Bembo e Boccaccio Boccaccino (autori di alcuni cicli nello stesso Duomo), dà vita ad un linguaggio fortemente anticlassicista, abbandonando la coerenza prospettica degli anni precedenti, accentuando l’irruenza espressiva dei volti e proponendo una personale interpretazione del colorismo veneziano attraverso liquide lumeggiature che irrorano i panneggi e un tratteggio rabbioso nelle zone d‘ombra. La prima parte della decorazione della cappella del Sacramento in San Giovanni Evangelista a Brescia (1521-1524), in collaborazione con Alessandro Bonvicino, detto Moretto, segue di qualche anno il soggiorno cremonese. Intanto qualcosa in Romanino è cambiato: nella Messa di San Gregorio, infatti, si puó notare una disposizione delle figure sicuramente piú composta che a Cremona, un’attenuazione dei valori grotteschi e una stesura pittorica maggiormente controllata, il tutto presumibilmente dovuto al contatto col piú giovane (e classicista) Moretto. Questa fase piú moderata accompagnerà Romanino fino alla fine degli anni Venti, come dimostrano gli affreschi nella cappella di Sant’Obizio in San San Salvatore a Brescia (1527) o il Sant’Antonio da Padova, angeli e donatore (1529, Duomo di Saló). Le cause di questo cambiamento non sono accertabili con sicurezza, ma è plausibile che un forte peso l’abbia avuto la committenza bresciana, piú incline ad un linguaggio tradizionale e non cosí aggressivo come quello del nostro pittore: reputo non sia un caso il fatto che ogni volta che Romanino lavori nei dintorni di Brescia sia piú addomesticato (lo si vedrà anche successivamente), mentre le opere realizzate lontano dalla città natía siano piú eccentriche e particolari. È questo il caso delle opere realizzate nel Castello del Buonconsiglio a Trento tra il 1531 e il 1532: qui il bresciano ripropone lo stile già mostrato a Cremona piú di un decennio prima, caratterizzato da accenti grotteschi e pennellata sciolta, ai quali aggiunge gestualità esagerate e una sensibilità illusionistica quasi precorritrici del Barocco (si faccia un confronto tra Il carro di Fetonte dipinto nella loggia a Trento e L’aurora dipinta dal Guercino nel Casinó Ludovisi a Roma), tali da spingere Testori a definirlo «il solo vero grande sdegnoso e sdegnato barbaro dell’intero Cinquecento italiano» (Testori, p. 13), un uomo fuori dal proprio tempo. Parte di queste peculiarità si ritroveranno negli affreschi dell’abbazia olivetana di San Nicola a Rodengo (1532-1533), di Santa Maria della Neve a Pisogne (1533-1536) e della chiesa di Sant’Antonio Abate a Breno (1536-1537): cicli, questi, talvolta piú dinamici, talvolta leggermente piú composti, talora nuovamente eccentrici. Rispetto a questo gruppo di opere, nelle quali si mostra perfettamente quello che è lo stile del “vero” Romanino, gli affreschi realizzati in Santa Maria Annunziata a Bienno (1539-1541) presentano un’intonazione sempre romaniniana ma piú pacata, sia nella composizione che nell’espressività dei volti. Si puó ipotizzare in questo periodo, tra il 1540 e il 1545, un nuovo avvicinamento dell’artista al Moretto dovuto al ritorno a Brescia, dove esegue le altre due tele per la cappella del Sacramento in San Giovanni Evangelista: sono queste la Cena in casa di Simone (1540) e la Resurrezione di Lazzaro (1544), dove riaggallano elementi nordici mischiati agli studi luministici e coloristici (si osservi anche lo Sposalizio mistico di Santa Caterina del 1540) condotti in quegli anni da Giovan Gerolamo Savoldo. Esemplari di questo nuovo periodo sono l’Assunzione per la chiesa di Sant’Alessandro in colonna a Bergamo (indubbiamente memore dell’Assunzione dipinta dal Bonvicino nel 1525) e l’Incoronazione della Vergine per la chiesa di San Domenico a Brescia, entrambe del 1545. La tarda attività del Romanino si concretizza in opere sgrammaticate e totalmente anticlassiciste (La raccolta della manna, 1555) e con la specializzazione nell’esecuzione di ante d’organo, piú sbrigative e adatte al suo stile impetuoso. L’ultimo importante incarico gli viene commissionato in collaborazione con Lattanzio Gambara, suo genero, e consiste nella decorazione di un grande salone nel monastero benedettino di Sant’Eufemia in Brescia, con Storie dell’infanzia e della passione di Cristo (1560), che Romanino esegue con una materia spessa e oleosa, come se avesse per supporto una tela e non il muro: a causa di questa sua particolare tecnica, moltissime delle sue pitture murali sono in un pessimo stato di conservazione.
BIBLIOGRAFIA:
A. BALLARIN, La "Salomè" del Romanino e altri Studi sulla Pittura Bresciana del Cinquecento, a cura di Barbara Maria Savy, Cittadella (PD), 2007.
F. FRANGI, R. STRADIOTTI, L'ultimo Romanino. Ricerche sulle opere tarde del pittore bresciano, Silvana Editoriale, Milano 2007.
S. BUGANZA, Romanino tra Zenale e Bramantino, in: Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano [cat. della mostra tenutasi a Trento], Silvana Editoriale, Milano, 2006, pp. 68- 85.
E. CHINI, “…haver servito un principe non immemore de li servicii tuoi…”, in: Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano [cat. della mostra tenutasi a Trento], Silvana Editoriale, Milano, 2006, pp. 222-241.
GABRIELE FORESTI E GIUSEPPE TOGNAZZI [a cura di], Romanino a Tavernola Bergamasca, Sebinius, Sarnico 2006.
F. FRANGI, Per un percorso di Romanino, oggi, in: Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano [cat. della mostra tenutasi a Trento], Silvana Editoriale, Milano, 2006, pp. 14-47.
B. PASSAMANI, Romanino in S. Maria della Neve a Pisogne, Brescia 1990.
G. TESTORI, Romanino e Moretto alla cappella del Sacramento, Brescia 1975.
|