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"Pester Lloyd. Morgenblatt", 24 giugno 19151
Feuilleton. Viaggio verso sud
Ernst Goth
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Ancora una volta partiamo per la guerra, questa volta verso sud, verso il nuovo nemico che per molto tempo abbiamo considerato amico. Ma quanto è diverso questo viaggio da quelli interminabili verso i campi di battaglia che sono ormai alle nostre spalle! Allora era inverno, attraversavamo regioni tetre, città misere e villaggi, diretti verso paesi che non conoscevamo, con i quali non avevamo nulla in comune, tuttavia ci sentivamo emotivamente coinvolti per la grande miseria e per il dolore che li avevano duramente colpiti.
Stiamo salendo sul treno alla stazione meridionale di Vienna, la grande porta che invita ad uscire per raggiungere mete amate e tradizionali, dove poter trascorrere vacanze gioiose e godere della stagione estiva. Passiamo davanti alla stazione il cui solo nome ci evoca meravigliosi ricordi di estati di un tempo, di laghi cristallini, su cui noi, accompagnati da belle donne, facevamo scivolare la nostra barchetta e ancora di montagne e di valli le cui cime trattengono l'eco delle nostre canzoni.
Andiamo proprio in guerra? Lo sappiamo, eppure non riusciamo a crederci.

Tutto è come allora, quando avevamo percorso lo stesso tratto in una luminosa giornata di giugno: strade bianche corrono come sempre lungo i binari, smeraldini piccoli torrenti di montagna ci accompagnano con il gorgoglio delle loro acque spumeggianti, inondano massi rocciosi, passano sotto massicci ponti di pietra; la vista di case linde ci rallegra e ancor di più il saluto radioso di belle fanciulle dai variopinti vestiti; dove si percepisce la crudele realtà, il terrore cui andiamo incontro? Solo a poche ore di treno c'è il nemico, ma qui non c'è nulla dell'atmosfera greve, di qualcosa che ricordi la guerra. Qua e là addestramento su un prato, un treno di soldati che cantano, su alcuni marciapiedi di stazione punti di ristoro, dove eleganti signore versano tè e limonata: l'abbiamo visto centinaia di volte, ma qui ricorda più una fiera di beneficenza a favore della Croce Rossa in cui le signore vestono uniformi da infermiere...
Ci si può stendere al sole, godere della lussureggiante bellezza di questo paesaggio montano, assaporare pienamente della gioia di vivere che impregna l'aria: nessuno sguardo, nessun posto, nulla tradisce la vicinanza della guerra.
Arriviamo a Lubiana, ma anche qui non ce n'è traccia. Rumorose autovetture militari sfrecciano lungo le sue strade e sempre più numerosi ufficiali siedono alla sera nei caffè, la città mostra tuttavia il consueto familiare e sereno volto provinciale, il corso è più affollato che mai e nei ristoranti i camerieri servono pane senza chiedere la tessera, provocando lo stupore di chi arriva da Vienna. È domenica e il Tivoli è pieno di soldati.

 

Si trovano già negli abitacoli delle grandi giostre. Vengono lanciati in alto, e poi ancora più in alto con una forza tale che non potrebbe essere paragonata alla loro. Si affollano davanti al tiro a segno e solo qualcuno, decorato con medaglia al valore, spara sulle scimmie che suonano il tamburo e sulle pipe di gesso, colpendole con una precisione tale come se non avessero mai avuto bersaglio migliore.
Sul prato vicino pascolano liberamente centinaia di cavalli e nell'antica fortezza sullo Schlossberg devono già essere stati rinchiusi i primi prigionieri italiani... Dunque ci si chiede: dov'è la cruda realtà che in Galizia traspare dai volti delle persone che vivono nelle vicinanze dei campi di battaglia? Dobbiamo proseguire per incontrarla.
Partiamo a tarda notte. Nella stazione per la prima volta si percepisce lo sgradevole respiro della guerra. Treni che arrivano, treni che partono, pieni di fuggiaschi. Qui e là donne disperate vagano senza meta in lacrime, bambini vengono risucchiati nella calca. Nessuno sa con precisione l'ora di partenza e di arrivo dei treni, è incerta perfino quella di arrivo a Trieste del nostro treno, saliamo sui vagoni puzzolenti e lerci, tendiamo l'orecchio e sentiamo che dobbiamo scendere a M. perché da là in poi non si può proseguire - infuria la guerra - come in Galizia e in Polonia.
Viaggiamo nella notte, sgranocchiamo le nostre provviste, ci fermiamo un tempo interminabile in stazioni sconosciute, tentiamo di dormire, adesso sappiamo di andare in guerra. Trascorrono alcune ore, l'aurora irrompe, ma non vogliamo crederci. La magnificenza del paesaggio meridionale ci ammalia.
Azzurro il manto del cielo si estende su ricchi vigneti e contrasta il bianco di basse case, sulle alture si ergono orgogliosi e maestosi i pini, tra alti muri di pietra spuntano chiese, guizzano occhi neri di fanciulla e l'aria è piena di luce e di suoni. Siamo contenti di lasciare il treno a D. e non comprendiamo affatto il motivo: forse i binari sono esposti al fuoco nemico, non sentiamo neppure il monito di proseguire in piccoli gruppi. Nei Carpazi sulla Vistola o sullo San una tale raccomandazione ci avrebbe demoralizzato, per lo meno motivato a prestare attenzione per alcuni minuti - qui invece nulla.
Fischiettando marce, avanziamo di buon passo per un bel tratto di strada in piano che lievemente sale attraverso giardini, costeggiando ville dall'architettura meridionale. Incontriamo contadine in costumi sgargianti che portano enormi ceste sulla testa e carri trainati da muli; solo quando uomini in grigia uniforme irrompono numerosi ci sovviene che lassù infuria la guerra. Dopo circa una mezz'ora vediamo ergersi dinnanzi a noi un obelisco, ci portiamo sullo spiazzo dove lo sguardo può spaziare nelle lontananze baciate dal sole: blu e infinito è il mare, il golfo di Trieste ci accoglie ospitale, circondati da giardini brillano i tetti luminosi della bianca città portuale, come dita affusolate si inoltrano nel mare i moli, da cui molte volte al colmo della felicità, ci siamo imbarcati per solcare lo specchio d'acqua irradiato su cui in lontananza scorgevamo i campanili di Aquileia e Grado. È un panorama di così tale intensità che non riusciamo a proferir parola. Abbiamo la netta percezione che la nostra rabbia sopraffaccia l'insana cupidigia che vorrebbe strappare a noi la città. Se la Kodak e i cannocchiali fossero armi letali potremmo a maggior ragione riprometterci: Loro non avranno Trieste. Né ora né mai.

 

 

Panorama di Trieste


 

Scendiamo lungo tortuosi sentieri, una leggera brezza marina scompiglia le foglie argentate degli ulivi, le magnolie e le fronde dei castagni, architettonici cancelli di giardini e fregi di ville parlano di vecchi proprietari altolocati, strane fontane e sculture di pietra ammuffite orlano il cammino, seguono le invadenti e risplendenti nuove costruzioni della ricchezza recente - finalmente le nostre spesse suole calpestano il lastricato di Trieste. Queste strade sono vuote e deserte. Forse a causa della calura del mezzogiorno, ma come ci avviciniamo al porto, ci rendiamo conto che questa città non è più la vecchia, rumorosa, attiva, frettolosa Trieste. Mancano le navi, solo tre, quattro piccoli pescherecci sfilano davanti al molo. Non si azzardano a spingersi al largo, laggiù il mare è pieno di mine. Sempre più sconcertante diventa il silenzio interrotto dallo scalpiccio di una carrozza. Sulla piazza del Ponte Rosso, dove prima non si poteva arrivare, un paio di pescatori hanno tirato a riva la loro barca e hanno pulito la chiglia da alghe e cozze. Al mercato della frutta troviamo le migliori ciliegie a prezzo ridicolmente basso, ma nessun compratore. Davanti al "Caffè degli specchi", le cui file di sedie avanzano sempre più sulla piazza diventata troppo vuota, siede una dozzina di persone. Il Palazzo del Lloyd Austriaco è abbandonato come la dimora di un gran signore in viaggio. E veniamo a sapere: metà della popolazione è già partita - nonostante non ci sia stata un'evacuazione. Solo i regnicoli sono stati allontanati, per la maggior parte della popolazione il rimanere in città era diventato senza senso poiché l'ultima nave era già entrata in porto. Gli uffici erano stati trasferiti nell'entroterra. In migliaia si erano arruolati - progressivamente su Trieste era calato il silenzio. Ma ci si sbaglia se si pensa che questo sonno sia angoscioso e afflitto da sogni opprimenti. Ciò che vi rimane è il buon umore, la spensieratezza - non importa se i cannoni tuonano ancora così forti presso Monfalcone.
"I giorni grevi di inquietudine sono già trascorsi" mi racconta un vecchio conoscente che incontro, "e effettivamente non sono durati a lungo. Come un uragano la dichiarazione di guerra ha sconvolto la città in quella domenica di Pentecoste. Anche chi pensava di conoscere bene Trieste, ne era stato sorpreso.
Si era sempre stati dell'opinione, che ampi strati dei ceti inferiori fossero più o meno di tendenze irredentiste - invece ora si osserva che era esattamente il contrario. Proprio in quegli strati della popolazione si era scatenato il furore per il tradimento italiano. Si erano portati davanti alla redazione del giornale notoriamente scandalistico 'Il Piccolo' e avevano appiccato il fuoco. Ancora oggi si vedono le macerie. Avevano fracassato vetrine di negozi di commercianti italiani - oggi molte di quelle persone passano per integerrimi 'sudditi austriaci'.
I signori italiani sbagliano molto se credono di essere ricevuti con tutti gli onori... Facciamo certamente pochi affari, questo è vero, ma la guerra è ancora sempre per noi una remota vicenda, materia di lettura...
Il nostro luogotenente ne ha grande merito. È rimasto qui con il suo Stato maggiore e si è organizzato per l'approvvigionamento con grande zelo, ottenendo efficaci risultati. Eliminato il commercio intermediario, alla popolazione povera sono stati distribuiti farina di polenta e pane; finora non abbiamo tessere per il pane. I generi alimentari sono più che sufficienti, un rincaro appena riscontrabile."
Me ne convinsi alla sera al ristorante.
C'erano pesce, aragoste, granchi come sempre, il menu era così ricco come in alta stagione, ai tavoli sedeva gente elegante, venditrici di fiori ci porgevano garofani profumati... si dimenticava la gravità dei tempi... Non ci sarebbe stato un ritorno a casa così avventuroso...
Arrivati in strada ci circonda un buio pesto: manca qualsiasi illuminazione - per gli aviatori come si intuisce - e se non ci fossero le stelle a diffondere un debole chiarore nella notte estiva, si avrebbe difficoltà a rientrare. Anche così la situazione non è piacevole - è un continuo tastare e cercare - una fortuna che le strade sono diritte e piane e che gli uomini che si incontrano hanno la sigaretta in bocca. Per quanto riguarda le donne - le vere signore non si trattengono in strada, mentre le altre non temono affatto l'oscurità... Davanti all'hotel si inciampa in persone che sedute nell'oscurità attendono inutilmente di essere servite; anzi il portiere chiude accuratamente l'entrata prima di accendere la luce. Alle dieci in punto ogni locale deve far uscire gli ospiti e se nella propria stanza si indugia a continuare a leggere si può star certi di venir richiamati dalla strada in modo brutale e sollecitati a spegnere la luce. Neppure la debole scia di luce che sfugge dalle serrande è tollerata. La prima sera è scomodo e fastidioso. Ma già alla seconda ci si consola, come fanno tutti, "perfino a Parigi la situazione non è migliore." Può essere consolante, anche se a Trieste andare a dormire alle dieci costa meno sacrificio che a Parigi.
Si spegne la luce, si avanza verso il balcone, si sollevano le tapparelle per inalare ancora un po' aria marina, prudentemente poi ci si avvicina tastando nel buio verso il letto, ci si infila, si sprofonda nel sonno, mentre il cannone tuona a Monfalcone. Al mattino, quando dalla finestra si scorge l'azzurro del mare, ci si è già dimenticati.

 

 

 

NOTE:
1 Il "Pester Lloyd", il più importante dei periodici in lingua tedesca fino al 1944, iniziò la regolare pubblicazione dal 1 gennaio 1854 (a Budapest) dopo il "foglio di prova" del 31 dicembre. Usciva in doppia edizione, mattutina e serale. Destinatari erano i circoli mercanitilistici, quelli della grande finanza e dell'industria. Accanto a notizie economiche comparvero anche contributi di politica e di cultura.
Dopo l'Ausgleich (Compromesso) del 1867 tra l'Austria e l'Ungheria la stampa ungherese prese una direzione inaspettata. A causa della crescente assimilazione dell'elemento germanico il numero dei lettori di fogli tedeschi diminuì. La stampa in lingua tedesca abbracciava tre settori: politico con giornali di stampo sovraregionale o provinciale in cui le notizie locali avevano il ruolo principale; scientifico con riviste specializzate ed infine le singole categorie professionali con giornali interessati a particolari rami.
Nel 1867 Max Falk assunse la direzione del giornale che si trasformò in un organo del liberalismo. Il "Pester Lloyd" era indirizzato a coloro che conoscevano perfettamente il tedesco, ma voleva trasmettere altresì un'immagine obiettiva dell'Ungheria all'estero. Dopo la fine del secolo il "Pester Lloyd" confermò la sua autorevolezza per ciò che riguardava la politica estera. Il giornale era l'organo della grande borghesia e dell'intellighenzia, veniva letto all'estero dagli imprenditori e dai funzionari diplomatici.
Il trattato di Trianon, che sancì la perdita da parte dell'Ungheria di circa due terzi del suo territorio, decretò anche il crollo economico. Dei giornali di lingua tedesca sopravvisse solo il "Pester Lloyd". L'ultimo numero risale al 1° aprile 1945 pubblicato a Sopron.

2 Collaboratore del "Fremden-Blatt", del "Pester Lloyd" in particolare per interventi sul cinema, tradusse dall'ungherese in tedesco il libro di Ferenc Molnàr Kriegsfahrten eines Ungarn, Berlin 1916.
 

 

 

Scrittori austriaci sul fronte dell'Isonzo                                        © Edizioni della Laguna